C’è un immagine ne Il treno dei bambini (Einaudi Editore, 2019), libro di Viola Ardone (adattato per il grande schermo da Cristina Comencini, presto debutterà su Netflix) dove i sentimenti di Amerigo Speranza, protagonista del romanzo, nei confronti della madre vengono raccontati attraverso il cibo. La scena è questa: Amerigo, ormai adulto, torna a Napoli nella casa dove è cresciuto, un basso nei Quartieri Spagnoli, e sui fornelli trova una pentola con all’interno il sugo alla genovese. Prende la pentola, si siede al tavolo e comincia a mangiare rivisitando nella sua memoria tutti i ricordi legati alla sua infanzia e al rapporto, condito di intense emozioni, con la madre.
Ogni napoletano che abbia letto il libro o che vedrà presto il film si identificherà in quei gesti e in quei ricordi. La genovese infatti, sugo di cipolla e di carne, rappresenta uno dei capisaldi della tradizione culinaria campana. Lo spiega bene Lejla Mancusi Sorrentino, esponente dell’Accademia Italiana della Cucina e storica della gastronomia partenopea, nel suo libro I dodici capolavori della cucina napoletana (Edizioni Intra Moena). «A Napoli», scrive, «la genovese è notissima quanto il ragù, ma per ragioni non chiare, mentre quest’ultimo si è imposto da protagonista ed è stato ricordato in poesie, opere teatrali, etc, sicché la sua fama ha da tempo varcato i confini del Meridione d’Italia, quella è sempre rimasta dietro le quinte ed è sconosciuta ai non napoletani».
La sua origine probabilmente risale ai Cinquecento, quando, appunto, Napoli era invasa da mercanti genovesi che preparavano questo particolare ragù che i napoletani successivamente ereditarono, facendolo proprio. Un piatto che da secoli viene tramandato da generazioni. «La domenica e nei giorni di festa», racconta Nellina Catzola, 79 anni, figlia del dopoguerra e cresciuta nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, «si mangiava tutti con le porte aperte, e le strade si riempivano di profumi e odori di questa genovese. Non avevamo né televisione né radio, e gli unici rumori che si sentivano erano quelli dei piatti che venivano messi sulla tavola. Ancora oggi la cucino come la preparava mia madre ed è la stessa ricetta che ho passato a mia figlia e poi a mia nipote».
Un piatto unico che riuniva tutta la famiglia, non solo per consumarlo, ma anche per preparalo. «La sua preparazione era una sorta di rito», continua Nellina, «che impegnava mia madre in cucina per quasi due giorni. A noi, eravamo sei figlie, non era permesso di avvicinarci ai fornelli, ma solo di pulire le pentole e apparecchiare la tavola». I tempi di cottura infatti erano, e lo sono ancora oggi, di circa nove ore. «Si cominciava il sabato nel tardo pomeriggio per poi terminare la domenica in tarda mattinata. Era uno dei piatti maggiormente condivisi anche con le altre famiglie. Mia madre infatti cucinava per l’intero palazzo e la domenica distribuiva ai vicini questo sugo alla genovese».
Probabilmente è questa voglia di condivisione e di mantenere vive le tradizioni di famiglia che ha spinto Sabrina Caso, 26 anni, nipote di Nellina, a recuperare le ricette della nonna e lanciare Eppronto, una micro-impresa specializzata nella preparazione e vendita online di sughi della tradizione napoletana. Nella pagina dell’e-commerce si legge “Aprire con cautela: contiene emozioni”.
«Nella mia famiglia il cibo è sempre stato un aggregante, un collante che ha unito non solo noi della famiglia, ma anche i nostri amici, che molto spesso venivano a mangiare a casa di nonna», spiega Sabrina. «L’idea di Eppronto nasce durate la pandemia, quando ho capito che la distanza e l’isolamento in cui eravamo costretti a vivere potevano essere sospesi, interrotti attraverso il cibo, o meglio attraverso le emozioni che il cibo trasmette. Da qui, quindi, il desiderio di recuperare le ricette di nonna, con cui io sono cresciuta, e portarle nelle case della gente». Attualmente sono quattro i sughi offerti, ossia il classico ragù di carne, olive e capperi, ragù di polpo e la genovese.
«Il ragù alla genovese», racconta Sabrina, «è quello che maggiormente viene richiesto. Oggi infatti non viene più molto cucinato nelle case perché sia la preparazione sia i tempi di cottura sono molto lunghi. Ci abbiamo messo quasi un anno per perfezionare il tutto e provare le ricette. Con mia madre abbiamo creato delle schede segnando non solo gli ingredienti, ma anche le girate con il cucchiaio di legno e soprattutto il livello della fiamma, fondamentale per la cottura dei vari ragù. Eppronto non è solo un progetto imprenditoriale, ma racchiude la storia della mia famiglia».
Punto di riferimento per i divoratori di genovese è l’Osteria della Mattonella, una storica trattoria a conduzione famigliare a Monte di Dio, dietro Piazza del Plebiscito. «Sono quarant’anni che serviamo la genovese», racconta la signora Antonietta, «ma questo piatto è stato rivalutato circa otto anni fa. È una di quelle ricette della tradizione che in passato veniva fatta a casa. Oggi, ovviamente, con il cambiamento della società, il tempo a disposizione è poco e la genovese richiede molte ore di preparazione. E poi, diciamo la verità, quando si fa a casa l’odore di cipolla rimane per tre giorni». Il menu dell’Osteria della Mattonella è un viaggio alla scoperta della storia gastronomica partenopea: «Negli anni non abbiamo apportato molto modifiche. Prima in cucina c’era mia madre, poi mio marito e ora mio figlio Massimo, supportato dall’aiuto di mia figlia Fatima». Aperta dal 1978, l’Osteria della Mattonella si contraddistingue per il suo ambiente accogliente e genuino. Le pareti sono decorate da mattonelle, o meglio dalle riggiole, le tipiche ceramiche vietresi che risalgono al 1700, e anche il cibo viene servito in piatti di ceramica che riportano la scritta “Osteria della Mattonella 1978”.
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Una lunga ricerca nelle tradizioni culinarie campane è stata sviluppata anche da Vittorio Fortunato, 40 anni, titolare della Locanda Gesù Vecchio, in pieno centro storico. «È uno dei piatti iconici dei napoletani», racconta Fortunato, «e noi abbiamo un legame quasi viscerale alle nostre origini. La genovese è il nostro fiore all’occhiello, frutto dell’innovazione del nostro modo di fare cucina, che ci rispecchia molto ancora oggi. È un piatto domenicale, di famiglia. E come tutti ben sanno, noi napoletani siamo molto attaccati alle nostre radici, soprattutto quando si parla di tradizioni». La locanda con due sedi, una al civico 26 e l’altra al civico 4, è stata menzionata anche dal New York Times come uno di quei ristoranti che ti fanno dimenticare la pizza.
«Dopo l’uscita dell’articolo siamo stati invasi da ospiti stranieri che ci chiamano oggi per prenotare un tavolo, che ne so, a dicembre», racconta il titolare. Il menu è uno specchio delle tipicità locali. «Per la genovese utilizziamo la cipolla ramata di Montoro, che è quella che secondo noi si presta meglio a questa ricetta, poi ovviamente carne di manzo e, come pasta, gli ziti». Per ogni pietanza viene anche consigliato il vino in accompagnamento. Per la genovese sono stati scelti il Greco di Tufo e il Timorasso. «Sono entrambi vini con una bella struttura, che si accostano bene al gusto dolciastro della cipolla e che creano una contrasto che al palato si traduce in un matrimonio di sapori». L’ambiente è piccolo ma molto ben curato, con una ampia selezione di vini, sia campani sia nazionali, e qualche etichetta internazionale. «Sono un sommelier, e una delle mie passioni è proprio quella di ricercare e scoprire bottiglie che possono esaltare la cucina che proponiamo. Quando ho aperto il primo ristorante, il civico 26, nel 2019, la mia idea era quella di servire una cucina della memoria, una cucina emotiva che suscitasse ricordi nei nostri ospiti. Qui i nostri piatti, almeno, questa è la mia speranza, non rappresentano solo il nutrimento del corpo, ma anche quello dell’anima».
Un ritorno a casa. Proprio come Amerigo Speranza che in quell’atto di sedersi a tavola per assaporare, nel silenzio di una abitazione ormai vuota, la genovese trovata sui fornelli sente risvegliarsi in lui le immagini di una vita ormai lontana, il volto e la gestualità della madre che serviva la genovese più buona del mondo. Una bontà resa ancora più speciale perché intrisa di emozioni e di intimità. Le tradizioni culinarie di famiglia, infatti, sono una celebrazione delle persone a noi care, una memoria ancestrale che riunisce in un piatto la storia di intere generazioni. E, nel caso della genovese, quella di una intera popolazione: quella napoletana.