«Sto bene, molto bene. Sto facendo i donut, qui a New York piove e il tempo fa un po’ schifo, però significa primavera, e primavera significa che sta arrivando il cibo davvero buono. Non so che risposta alla domanda “come stai”, ma è quello che sta succedendo oggi nella mia vita».
Forse non è sempre stato facile, per Sophia Roe, rispondere alla domanda che apre più o meno qualsiasi conversazione. Nata in Florida, la prima dimensione che incontra è la precarietà, dei legami (la situazione famigliare è tanto instabile da vederla affidata ai servizi sociali e a famiglie affidatarie) e alimentare. Lì comincia il viaggio di Roe, e la costante è il cibo. Drop out del Culinary Institute of America – tra i più prestigiosi istituti di formazione professionale del mondo, qualcuno tra voi potrebbe averlo già incontrato nei racconti di Anthony Bourdain – Roe cucina e intreccia racconti, che oggi (e dal 2018 soprattutto) prendono forma in caption a cuore aperto sul suo profilo Instagram, tra gioie, difficoltà e momenti di pure bliss – quelli che l’utente comune proverà sicuramente sentendo l’acquolina allappare scorrendo lungo il feed della chef.
Non si pensi, però, che Roe sia l’ennesima, digitalissima creator. Il cibo è corpo e il corpo è sociale, e il messaggio non lascia mai spazio all’ambiguità: dobbiamo parlare di ciò che abbiamo nel piatto, emozionarci quando le papille esplodono, certo, ma mangiare è il primo, quotidiano atto politico. Gli ingredienti raccolgono culture, sistemi economici, desideri, e tracciano il confine di ciò che includiamo nel nostro orizzonte. Roe in questo senso ha un piccolo mantra: “allargare la conversazione”, riconoscere di che cos’è che parliamo, davvero, quando parliamo di cibo. Perché solo così si torna da dove anche lei è partita: l’insicurezza, la precarietà, e agire su di loro creando un sistema alimentare più virtuoso per tutti.
E questo si divulga sui social, certo, ma soprattutto dietro ai fornelli e, per Roe, anche attraverso lo schermo della televisione. Lo fa con la conduzione di Counter Space, show prodotto da Vice che indaga le intersezioni di politica, cibo e società (la prima stagione del programma le è valsa la candidatura a due Daytime Emmy); e dalle pareti di Apartment Miso, studio di cucina (e contaminazione) da lei fondato. Per il suo attivismo ha ricevuto, nel 2022, il James Beard Award come Emerging Voice.
Con Roe abbiamo parlato a ridosso della sua visita in Italia in occasione del Salone del Mobile, dove la chef ha portato, insieme a Family Style (magazine di cui è Food Editor) e all’olandese Studio DRIFT (e i suoi fondatori Lonneke Gordijn e Ralph Nauta) l’installazione Objects of Affection, in cui Roe ha trasformato la preparazione del pane in un gesto di ricerca: nata senza legami famigliari forti e senza le classiche “ricette della tradizione” che loro competono, il cibo cotto più ancestrale diventa il punto di partenza per costruire la propria comunità e dare un significato nuovo a parole che usiamo senza soppesare. Perché sull’amore non c’è il “quanto basta”, e a occhio non si può andare.
Al Salone del Mobile di Milano hai lavorato il pane davanti a tutti, ripetendo il gesto per tanto tempo, come una performance artistica. Lo era, per te?
Assolutamente sì, almeno, a livello fisico è davvero sembrato così. Siamo andati lì con Family Style, rivista di cui sono Food Editor, e nei mesi prima, da che abbiamo ricevuto l’invito, ho pensato davvero tanto a che cosa avremmo portato. Sono una Editor, certo, ma prima sono una chef, e come tale sento i bisogno di, e voglio, raccontare un po’ di storie. Innanzitutto la mia storia, e la storia delle famiglie non di sangue, ma quelle che ci scegliamo, e che ci rendono più forti, insieme. Ed era importante che tutto questo fosse legato al pane. Adoro il pane, mi piace prepararlo, lo faccio quasi tutti i giorni. Sono molto affascinata dall’idea che con soli due ingredienti, farina e acqua, si possano avere così tante combinazioni diverse. Sono ingredienti così semplici che li diamo per scontati, e invece nel mondo ci sono persone per cui anche solo mettere le mani su un sacco di farina è un’impresa impossibile. Quindi dal pane volevo attivare una conversazione sulla scarsità delle risorse alimentari, su come sono mal distribuite.
Per far passare questa idea, volevo che il pubblico si sentisse coinvolto. Credo ci sia molto interesse attorno al concetto di “installazione” oggi, anche quando si tratta di cibo. E spesso, credo, si arriva davanti a un’installazione a base di cibo senza saper bene come comportarsi, senza sapere quale interazione costruire con essa. Naturalmente, allo chef serve questa interazione per far passare il suo messaggio. Immagino che possa essere perché non la si vuole rovinare, o perché si ha paura di leggerla nel modo sbagliato. Ecco, io volevo creare un ambiente più informale di così. Volevo che non solo le persone si interfacciassero con la mia installazione, ma che la mangiassero davanti a me, e con me. Così si scavalca anche un altro limite diciamo degli chef, quello che ci impedisce di vedere i nostri clienti mangiare quello che prepariamo perché siamo sempre nelle retrovie. Penso di aver raggiunto il mio scopo, ma certo, è stato un progetto ambizioso.
Pensi che ci sia un legame con la popolarità crescente degli Chef’s Table e il fatto che, come dici, di solito i clienti non vedono lo chef quando cucina per loro?
Be’, ad alcuni di noi piace davvero tanto stare sul fondo della scena. Anche perché c’è una sorta di ritrosia, mi spiego: la cucina è un’arte particolare, prepari il tuo cibo e l’unica cosa che vuoi è che sparisca, che i clienti lo mangino tutto, è solo scomparendo che la cucina è riuscita. Di solito l’arte ragiona per restare, la cucina no. Quindi ruota tutto, per me, attorno al cibo, quello è l’importante. Non dico che a volta non sia bello uscire dalla tua stanzetta e salutare i commensali, ma non è quello il punto. Ciò che avviene è molto semplice: tu hai fame, io voglio sfamarti. È il cibo a essere protagonista, non Sophia. Infatti spesso definiscono il mio stile come “cucino quello che gli altri hanno voglia di mangiare”. Spesso al ristorante si ragiona al contrario, ci si va per assaggiare la “cucina di Sophia”. Io ho un approccio diverso anche perché mi piace poter cambiare spesso i piatti che cucino per lavoro.
Poi certo, gli chef stanno attraversando un momento di fama senza precedenti, finalmente il pubblico riesce a riconoscere e celebrare tutta la fatica che mettono nel loro lavoro. Questo è un bene.
Sophia lo sei, però. Qual è il percorso che ti ha portato qui, a essere “quella che cucina il cibo che vogliono mangiare gli altri”?
Sono cresciuta come un nobody from nowhere. Sono nata in Florida e ho passato i primi anni della mia vita in estrema povertà e nell’insicurezza alimentare. Non penso sia una storia inusuale, ci sono tante persone che si ritrovano a crescere in contesti difficili e proprio per questo hanno il desiderio di fare qualcosa di bello, che dia felicità alle persone. Sono attratta da queste storie e da ciò che ne deriva, tante delle persone che stimo, che venga dalla cucina, dalla musica, dal cinema e così via, hanno qualcosa di simile nel proprio passato. La cosa bella è che quello è il tuo punto di partenza, ma poi arriva il momento in cui ti scivola un po’ addosso, e fai le cose solo per come le vuoi fare. Arriva una libertà creativa maggiore, che naturalmente c’entra con la strada che hai fatto, e con chi sei diventata. Prima bisogna fare le cose nel modo giusto, dritto, poi puoi farle come vuoi tu. E il mio modo è: voglio cucinare cibo locale, cibo stagionale. Non c’è niente di più bello di un mercato agricolo, e se avessi un ristorante non terrei in carta tutto l’anno la salsa di pomodoro, perché dove sono io, nello Stato di New York, i pomodori non crescono spontaneamente tutto l’anno. A New York non crescono manghi e papaye? Benissimo, non li avrò sul menu.
Ti dirò di più, sento di avere due anime in cucina: la prima è irriverente, quasi da bambina, si vuole divertire. L’altra è seria, ligia alle “cose per come vanno fatte”, e penso che derivi dalla mia infanzia, che è stata piuttosto difficile. Quando si uniscono, questi due lati diventano Sophia.
Parliamo di cibo regionale: che cosa vuol dire per te nel mondo globalizzato, dove si può uscire a cena e mangiare qualsiasi parte del mondo si voglia?
Per me il compromesso sta nel riuscire a produrre inclusione e rappresentanza culturale, ma usando gli ingredienti locali del posto da dove lo si fa. La catene di approvvigionamento del cibo sono globalizzate, negli Stati Uniti abbiamo iniziato a rendercene conto dall’amministrazione Clinton in poi con i nuovi accordi commerciali che erano stati varati. Al giorno d’oggi è uno stato di cose, bisogna inquadrarlo e conoscerlo, ma probabilmente non è né buono né cattivo a prescindere. Anche perché, parliamoci chiaro, che cos’è il cibo regionale negli Stati Uniti? A volte qualcosa che arrivare da 1.000 chilometri da dove lo consumi. In Europa è un’altra cosa, il concetto è realmente applicabile, anzi, è normale. Consumare latte che arriva a due ore da dove sono, uova che arrivano da 50 chilometri, è diverso, è più appagante.
E poi naturalmente c’è il discorso legato alla consapevolezza climatica e alla necessità di ridurre l’impatto del nostro stile di vita. Siamo nella situazione in cui potremmo avere prodotti a una manciata di chilometri, e invece di solito andiamo al supermercato, dove questa selezione spesso non c’è. È davvero triste. A New York è la road less travelled, e come chef sento che parte della mia missione è rendere le persone più consapevoli della provenienza del loro cibo, o alcune specie native del territorio di cui potrebbero non aver mai sentito parlare. Senza contare che è divertente! Si tratta di conoscere, esplorare, e in cucina questo attiva i processi creativi. Quindi: abbiamo bisogno di ristoranti thailandesi nelle grandi città non thailandesi? Certo! Ma devono lavorare con ingredienti locali.
Torniamo alla visibilità degli chef: la cucina ha preso una strada estetizzante e poco attiva sul piano politico, è diventata troppo pop?
Penso che sia importante dare visibilità alle persone che preparano il cibo che troviamo nei nostri piatti. Dobbiamo fare un passo indietro però: dobbiamo cominciare a parlare del trasporto del cibo, della distribuzione, dell’agricoltura, della terra, dei processi meccanici e tecnologici coinvolti… Quando parliamo di cibo, consideriamo sempre una parte irrisoria della questione. Dietro quello che metto in menu c’è tutto un mondo che non traspare. E un ingrediente può essere buono solo se tutti questi altri processi sono trattati nel modo giusto. Poi certo, sono una chef, ovvio che sono contenta che il mio ruolo sia riconosciuto di più, come sarei contenta di veder riconosciuto di più il contributo di chi è venuto prima di me nel mestiere e non ne ha avuta la possibilità. Ma niente di tutto questo esisterebbe se non ci fosse la catena della distribuzione, eccetera. Vorrei ci fosse più educazione alimentare a tutto tondo. Naturalmente parlo di quello che vedo negli Stati Uniti, dove davvero poche persone sanno da dove venga il cibo: sì, lo sciroppo d’acero viene da una pianta che si chiama acero, e gli chef possono far passare questo messaggio, specialmente se agiamo come una collettività.
Parlando di messaggi importanti: che cosa vuol dire essere una donna in cucina oggi?
La mia vita sarebbe certamente più semplice se fossi un uomo in cucina. In primis sarei meno stressata, perché mi preoccuperei meno e per meno cose. Credo che gli uomini non debbano preoccuparsi di molte cose per le donne invece nutrono molta ansia. La conversazione è ampia, riguarda temi come l’inclusione e la diversità in cucina, le cose sono migliorate negli ultimi anni ma la strada è ancora lunga. Il cambiamento sta avvenendo, lo si nota nelle shortlist dei premi, nella Guida Michelin. Quanto sia ancora da fare lo si nota parlando con le persone: se chiedi a qualcuno di dirti il nome di uno chef, è molto probabile che dicano, per esempio, Gordon Ramsay. È una conversazione stretta, ed è un problema soprattutto per le donne con un background diverso da quello occidentale, è soprattutto la loro visibilità a risentirne. È un discorso culturale perché si parla di cibo, e il cibo è cultura, è legato alla nostra geografia emotiva e fisica, alla nostra storia.
E intanto ci raccontiamo che sono le donne a essere legate maggiormente al cibo, al suo potenziale narrativo e alle ricette che si tramandano.
Cucinare è prima di tutto una questione di sopravvivenza. C’era un tempo in cui avevamo letteralmente bisogno di sopravvivere e basta, oggi tendiamo a dimenticarcelo. Poi mi metto a pensare e posso dire che uno dei pasti più deliziosi della mia vita è stato in Messico, tortilla fatte da una vecchia signora sul ciglio della strada, nello stesso posto e con lo stesso piatto per 60 anni. Non puoi dirmi che non è una chef. Non avrà un ristorante, ma ha preparato cibo con le sue mani per decenni, le sue dita sono piene di storie. C’è una citazione che riassume bene tutto, l’ho letta da qualche parte: un dito che punta alla luna non è la luna. Invece guardiamo il dito, proprio come guardiamo gli chef e ci dimentichiamo del cibo, che è poi il vero fulcro della conversazione.
Tutte le persone che lavorano nell’ambito culinario devono essere riconosciute e devono essere rese visibili, ma alla fine il protagonista è il cibo e deve essere così, perché è il cibo che ci tiene in vita e ci fa innamorare e fa andare avanti il mondo. Senza cibo moriremmo, letteralmente. E dobbiamo attivare una conversazione attorno a questo tema. La storia di come si crea una ricetta, di come arriviamo a mangiare qualcosa… parla di storia, cultura, identità, e troppo spesso la lasciamo perdere. Chissenefrega della ricetta in sé, datemi la storia! Perché usiamo il lievito e non il bicarbonato? Dobbiamo far sì che queste storie si attivino nella nostra vita. Se non lo facciamo diventiamo più poveri, e la prospettiva mi atterrisce. Oltre il sapore, oltre la bellezza, ci sono storie che contano.
“Less isn’t always more. One day you’ll taste a croissant and know exactly what you mean” [Meno non è sempre meglio, un giorno assaggerai un croissant e capirai che cosa voglio dire, ndr]. È una citazione che ho trovato sul tuo profilo Instagram: che cosa volevi dire?
Less isn’t always more? Partiamo dal contrario: che cos’è un croissant? Acqua, farina, burro, tutto qui. Less is more, perché questa cosa facile e piccola è un’esplosione di sapore, e puoi provarne 600, ma avranno tutti un sapore diverso. Poi c’è il mole messicano per esempio, che è fantastico ed è fatto con una montagna di ingredienti: lì, il “less is more” non si applica! Credo che il cibo funzioni un po’ così, con alcune regole ma mai troppo fisse. Ha senso? Uno dei momenti più preziosi per me in questo momento è quando mi viene detto che una cosa è sbagliata, che un libro di cucina direbbe che è sbagliata: allora vuol dire che la sto facendo come voglio io, ed è esattamente quello che voglio.
Roulette: qual è il piatto che ti ha fatto esplodere la testa al primo morso?
Siamo a Milano, non ricordo in realtà dove, ma ho ordinato un piatto di curry e granchio, lo chef era nepalese, era croccante fuori e scioglievole dentro. Avrei voluto continuare a mangiarlo, e mangiarlo. Era buono perché era buono o perché l’ho mangiato alla fine di una giornata impegnativa? Chi può dirlo. Nel momento lo era, ed è questo che conta.
Il piatto che ti riporta alla mente più ricordi.
I pop corn, sono perfetti. È stata la prima cosa che, da bambina, ho imparato ad associare a un piccolo lusso. Ora che sono adulta li faccio a casa due volte la settimana, li faccio per il mio partner, li faccio da regalare agli amici, mi portano ricordi. A volte vado al cinema solo per comprare i pop corn e me ne vado. Devono pensare che sia matta.
Hai mai mangiato le fettuccine Alfredo? Che te ne pare?
Ma certo che le ho mangiate, le adoro, anzi, ho avuto una fase in cui volevo rendere tutto Alfredo! Biscotti, pane, riso, qualsiasi cosa. Non c’è niente di meglio che burro sul burro.