Si salvi chi può, è arrivata l’avanguardia tropicale | Rolling Stone Italia
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Si salvi chi può, è arrivata l’avanguardia tropicale

E parla di cambiamento climatico, creatività, e della strada per il nostro futuro culinario e culturale. Dalla Sicilia il "tropicalismo" è entrato in Italia, fra cannoli e crema di papaya. E non si fermerà finché non avrà creato una nuova tradizione

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Credits: Tim Graham via Getty

Ogni tradizione è destinata a essere contestata, ed essere messa alla prova del cambiamento. È vero per quella culturale, è vero per quella culinaria. In Sicilia, il passaggio al nuovo sta prendendo le forme di un’avanguardia tropicale, spinta da un mercato globale che fornisce sempre più velocemente nuove esigenze e dagli effetti sorprendenti e inattesi del cambiamento climatico, che sconvolgono le abitudini agricole nel bene e nel male.

Il sedimento culturale nel culinario non è nulla di sconosciuto nella terra in cui i piatti che oggi consideriamo “tradizionali” sono spesso legati a incontri di storia, cultura e aneddotica puntuale. Il cannolo, nato durante la dominazione araba, si dice sia stato inventato da una delle innumerevoli mogli di harem per compiacere un sultano. I dolci di marzapane, nati dalla creatività delle monache, hanno una storia altrettanto affascinante, creati per addobbare un giardino spoglio durante l’inverno e gioire della visita imminente del Papa.

La transizione al tropicalismo, però, attiva componenti più trasversali. Giuseppe Saitta, chef del ristorante il Gabbiano a Terme Vigliatore, comune della città di Messina, è uno di questi avanguardisti. Proviene da una famiglia che da generazioni vive con e per la ristorazione. Condivide la sua cucina con la madre, il padre, fratelli e cugini vari. Altri si occupano dell’albergo annesso alla struttura, altri ancora gestiscono la vecchia pasticceria, dove, raccontano, è partito tutto. Fra pentoloni di bisque di gambero e canoniche seppie ripiene, mostra i propri piatti con lo stesso ardore con cui un pittore impressionista dell’Ottocento sapeva di star per stravolgere le regole costituite. Involtini di pesce spada in crema di papaya, caponata di frutti tropicali: questo non è nutrimento, ma un atto di insubordinazione culinaria.

«Quando faccio i menù per i ricevimenti di nozze provo sempre a inserire qualcosa di nuovo, magari con la frutta tropicale. I giovani sembrano interessati, poi però magari parlano con i genitori e tornano sui propri passi. È un fatto culturale, qui difficilmente le persone si staccano dalle proprie tradizioni, già l’ananas sembra un azzardo incredibile», racconta lo chef.

Ma se un tempo per questi pionieri approvvigionarsi di frutta esotica era dispendioso sia economicamente sia dal punto di vista della sostenibilità ambientale, a causa dei lunghi viaggi che questo genere di prodotti doveva sostenere per raggiungere le loro cucine, da qualche decennio le cose stanno mutando anche in questo senso. Il cambiamento climatico è ormai un destino ineluttabile che grava sulla Sicilia, sempre più minacciata dagli effetti inesorabili del riscaldamento globale. Il professore Christian Mulder, titolare della cattedra di Ecologia e docente di Cambiamenti Climatici all’Università di Catania, ci spiega cosa sta accadendo.

I dati raccolti dal professore e dalla sua università dimostrano come la serie di eventi estremi che affliggono la Sicilia – dalle ondate di calore alle bombe d’acqua, dalla siccità estrema alle trombe d’aria – siano diventati sempre più frequenti e intensi, segnali inequivocabili di un clima in rapido mutamento.

«Il clima sta cambiando, e questo è un fenomeno naturale», afferma il Prof. Mulder. «Ma ciò che lo rende unico rispetto agli eventi precedenti è la rapidità con cui si sta evolvendo. Dai tempi della seconda rivoluzione industriale nel 1880 a oggi, in soli 140 anni abbiamo assistito a variazioni comparabili a quelle verificatesi in un periodo di 14 milioni di anni. La frequenza degli eventi estremi e l’evidente scomparsa delle stagioni intermedie, come primavera e autunno, stanno causando notevoli sbalzi termici, persino nell’arco della stessa giornata».

Un fenomeno antropico che sta scolpendo un nuovo destino per questa antica terra, un tempo conosciuta come fertilissimo granaio dell’Impero Romano. Mentre una parte dell’isola, la centro-meridionale, si sta trasformando drammaticamente in un deserto, assumendo l’aspetto di certe zone di Maghreb, con temperature che sfiorano i 50C°, altre abbracciano un’atmosfera sub-tropicale, dando vita alla possibilità di nuove colture come mango, avocado e papaya, più adatte ai nuovi climi rispetto alle tradizionali coltivazioni di grano e agrumi, il cui mercato è ormai saturo e poco competitivo.

Il vero problema, però, rimangono le riserve idriche. Anche perché si calcola che la Sicilia sperperi quasi il 50% dell’acqua che potrebbe avere a disposizione. Il motivo è semplice: questa si perde durante il tragitto all’interno di tubature e infrastrutture ormai obsolete se non fatiscenti.

«C’è spreco d’acqua soprattutto se ci mettiamo a coltivare delle specie che non sono nostrane. La temperatura aumenta e per questo possiamo coltivare senza difficoltà il caffè, la papaya, l’avocado e tutto quanto, ma serve tanta acqua. Certo, serve acqua anche per gli agrumi, ma si parla di due fabbisogno idrici drasticamente differenti. Quando si tratta di decidere cosa coltivare, questo comporta l’esigenza di fare scelte a lungo termine», avverte ancora lo scienziato.

Fra gli uomini che hanno già deciso che strada intraprendere c’è sicuramente Francesco Verri, che di questo “movimento tropicale” ha fatto una vera e propria missione. Non è né un cuoco né un coltivatore diretto, ma si muove come distributore fra piccoli coltivatori e commercianti, con sforzo tale che difficilmente può essere spiegato con il mero ritorno economico. In una tela infinita di rapporti personali, su e giù per le coste del messinese, muove casse di frutti, convince piccoli agricoltori o amici a sacrificare parte dei propri agrumeti per inserire piante tropicali, o consiglia ai ristoratori i prodotti della nuova rivoluzione culinaria di cui fa parte. Sempre, mentre distribuisce casse di frutta con la sua maglietta d’ordinanza su cui campeggia scritto “Sicilia tropicale”.

«I frutti tropicali che nascono in Sicilia sono migliori di quelli che provengono dall’altra parte dell’oceano. Questo per diversi fattori. Il primo è che qui si parla di piante nuove, anche per gli insetti e le malattie che potrebbero aggredirle, e non esistono parassiti in grado di infestarle. Questo permette di non usare pesticidi e di attuare coltivazioni biologiche piuttosto facilmente. Altro punto: il clima della regione nord-orientale non è propriamente un clima tropicale, per quanto ne mutui alcune caratteristiche. Per esempio: non piove ogni giorno, e questo crea una sorta di stress nella pianta che è costretta a trasferire più nutrienti al frutto che genera il seme», racconta non celando un certo orgoglio.

Questa vera e propria  passione non nasce dal nulla per Francesco, ma anzi unisce il suo presente con il passato. Il giardino della casa di famiglia è una giungla fatta di alberi di avocado, un sottobosco di monstera deliciosa e piante tropicali di ogni genere che si aggrovigliano in un meraviglioso disordine, curato da sua madre finché è rimasta in vita e ora divenuto il mausoleo del retaggio antico delle vecchie famiglie aristocratiche siciliane. Queste infatti, durante la dominazione spagnola e sotto il regno borbonico, come ostentazione di ricchezza compravano piante esotiche da esporre nei propri giardini. Oggi questo hobby nobiliare si è trasformato in un vero e proprio business, che sta portando una piccola rivoluzione in queste terre dominate da un certo tradizionalismo e dove ancora si litiga per il nome dell’arancin*. Ma è lo stesso Verri a indicare l’uomo che probabilmente è stato il vero punto di svolta dietro a questa metamorfosi. 

Questi è Natale Torre, anche chiamato l’ultimo “cacciatore di piante”, folta barba bianca e le mani di chi non si è mai eradicato dalla terra. Durante i suoi viaggi in giro per il mondo, Torre ha introdotto e importato in Italia (e nel suo vivaio) oltre 2.000 specie di piante e circa 5.000 varietà, contribuendo alla nascita di un nuovo settore agricolo. Nelle sue serre, gli operai agricoli innestano migliaia di piante di avocado e papaya, ma anche di black sapote o caki nero, nel tentativo di renderle sempre più resistenti e abituarle ai climi invernali siciliani.

Nell’isola il clima è mite, certo, ma non paragonabile alle regioni di provenienza di questi prodotti, dove raramente si scende sotto i 18C°. Ci ha raccontato il suo impegno pluridecennale, e l’amore per le piante tropicali che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Ma non è sempre stato come adesso, un tempo c’era molta diffidenza verso questi prodotti: «Finalmente, l’interesse da parte degli agricoltori e dei consumatori è schizzato alle stelle. Anche le istituzioni oggi si muovono velocemente e recuperano il tempo perso. Verso la fine degli anni Ottanta, quando si iniziava a parlare di frutti esotici, sono stati elargiti dei finanziamenti a livello della Comunità Europea, ma l’Italia è stata totalmente assente e abbiamo dovuto restituire tutti i finanziamenti stanziati. I colleghi spagnoli invece stati più intelligenti, hanno usato i loro fondi e poi anche i nostri. Oggi la Spagna è il primo paese in Europa nella produzione di frutta esotica, mentre noi siamo ancora al palo».

Un ritardo causato non solo dalla consueta lentezza con cui si muove la politica italiana, ma anche dalla continua frizione fra presente e futuro, tradizione e avanguardia, che caratterizza il nostro paese.

Natale Torre, l’ultimo “cacciatore di piante”, è uno dei simboli di questa atavica lotta. Tuttavia, mentre l’interesse verso i frutti esotici “italiani” cresce, è essenziale che la Sicilia adotti pratiche agricole sostenibili per preservare il suo patrimonio unico. Il cambiamento climatico si manifesta in modo tangibile attraverso eventi estremi, mettendo a dura prova un’identità agricola che andrebbe comunque preservata. Chef come Giuseppe Saitta e persone come Francesco Verri si ergono come pionieri di un movimento culinario che sfida le convenzioni. La loro audacia nel proporre piatti inediti, unita alla promozione di colture esotiche, evidenzia la tensione tra la conservazione delle tradizioni e la necessità di adattarsi ai cambiamenti ambientali.

Tuttavia, dietro questa innovazione culinaria c’è un pericolo concreto. Il rischio di perdere antiche tradizioni agricole e gastronomiche è reale, e in questo senso l’avanguardia tropicale può rappresentare sia una risposta creativa che una presa di coscienza delle necessità ambientali. Torre, mentre effettua il suo ultimo giro di controllo nel vivaio verso sera, pensa al futuro della sua terra. «Oggi ho l’acqua per annaffiare ognuna di loro», spiega, «ma domani, se il pianeta continua in questa direzione, non so proprio come farò».

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