Si può essere femministe felici di dimagrire? | Rolling Stone Italia
la vergogna della fame

Si può essere femministe felici di dimagrire?

Il cibo non è mai solo cibo: è la metafora per eccellenza, uno dei materiali narrativi più grandi a nostra disposizione. E può essere tanto via di emancipazione, che una prigione imposta dall'interno, o dall'esterno

piatto cibo vuoto

Immagine generata con Adobe Firefly

Mi sono messa a dieta e ho deluso le mie amiche. Credo non si aspettassero che il corpo, o meglio le cosce, la pancia, i fianchi, fossero ancora un argomento di mio interesse. Forse pensavano che arrivata a trentacinque anni avessi messo da parte la questione in favore di riflessioni più alte, più dotte, meno superficiali.

E invece no. Io mi sono messa a dieta perché voglio dimagrire. E voglio dimagrire per una pura ragione estetica. Perché così non mi piaccio. Dirlo mi costa fatica. Non per il timore del parere altrui, quello sì che l’ho superato. Il giudizio degli altri sul mio corpo non mi interessa, anche perché nessuno può essere più cattivo di me nel giudicarmi.

Io voglio dimagrire per quell’altra me che mi insulta, che vuole mettersi il vestito a fiorellini viola di due anni fa, per quella me che se non le entrano i jeans ci rovina la giornata. Quella tizia è insopportabile, e alla fine invece di litigarci ho provato ad ascoltarla.

Siamo scese a patti. Io dimagrisco, le ho detto – o forse sarebbe più corretto “mi sono detta” – ma tu la smetti di rivolgermi certi epiteti, di dirmi che potrei essere più bella se solo fossi più magra. L’altra me ha palesemente torto, lo so, ma che ci posso fare se esiste? Se mi abita, se in tanti anni l’unica pace che ho trovato con lei è stata il compromesso?

Quell’altra me è interamente assoggettata alle immagini che vede in giro, al desiderio di assomigliare a quelle immagini, alla convinzione che con un po’ di rinunce potrebbe essere più felice, più soddisfatta di sé. Questo sì che mi fa vergognare: dopo anni di lavoro su me stessa, dopo un libro e centinaia di incontri in cui racconto che il punto non è mai il corpo, mai il grasso, dopo migliaia di like che metto a post Instagram che promuovono una cultura libera dalla dittatura della dieta, dopo lo studio di autrici e pensatrici che mi hanno portato alla convinzione che i canoni estetici sono appunto canoni e in quanto tali non adatti e sufficienti a indirizzare le persone, io sono qui, a mangiare finocchi a merenda e carote bollite per cena.

Sono davvero poche le questioni che mi creano vergogna; quindi, quando ne incontro una non posso fare a meno di spacchettarla, analizzarla, tentare di risalire alla radice. Amati così come sei, dicono. Ma sarebbe opportuno capire prima come si è, e poi, forse amarsi. Il self love non è un’illustrazione quadrata dai colori pastello, ma un percorso. Il corpo è una delle tappe.

Il corpo però è beffardo, è la parte più esposta di noi e allo stesso tempo anche quella che riesce a nascondere alla perfezione ciò che contiene. Il mio corpo contiene un cervello che corre. Questo cervello ogni tanto è così spaventato da quello che gli capita di sentire e vedere che fugge e si ripara nel problema dei chili in eccesso. Io lo so, ma di tutta questa consapevolezza non ci faccio nulla, non ho ancora imparato dove riporla, come sfruttarla per me stessa. E allora mi metto a dieta.

La nutrizionista dice che ho dieci chili in eccesso e che posso tranquillamente perderli in tre mesi. E ha ragione, infatti ci riesco. Ma sono tre mesi orrendi. Quando mi ritrovo con le amiche per l’aperitivo, bevo la mia birra piccola a piccoli sorsi. E invece di ordinare il secondo giro fumo dieci sigarette, perché la Dottoressa ha detto “non più di una birra a settimana”. È lì che comprendo che a loro, alle mie amiche, questa cosa della privazione di cibo non piace. Mi dicono che sto esagerando, che ho appena partorito e devo darmi tregua, in poche parole: mi giudicano. E io mi vergogno.

Sono terminate anche le cene a base di pizza con il mio compagno, o l’hamburger che prendiamo alle nove e mezza di sera di un qualsiasi martedì, quando finiamo di lavorare tardi, dobbiamo ancora fare il bagnetto a nostro figlio, e di cucinare non ne abbiamo voglia. Adesso cuciniamo; facciamo bollire i broccoli, mettiamo il cavolo nero in friggitrice ad aria così la consistenza mi dà l’illusione di mangiare le patatine che tanto amo.

È un tormento. Cambiare le mie abitudini alimentari ha cambiato anche le abitudini delle persone che mi circondano. Un’amica mi scrive “Ti direi di vederci a cena ma so che sei a dieta” e io capisco che la scelta di un regime tanto rigido influisce anche sui miei rapporti sociali. Mi sento a pezzi. Voglio davvero che il cibo abbia tanto potere nella mia vita? La risposta è no. Ma allo stesso tempo se è vero che con l’altra me riesco a parlare e trovare un compromesso, con il cibo è più complesso.

Inizio ad annotarmi quando mi viene voglia di mangiare gli alimenti più calorici; quando sono stressata, quando sono stanca, quando discuto per lavoro, quando mi sento triste.  E quindi capisco che il cibo ha sempre avuto potere nella mia vita e forse adesso sto solo cercando di indirizzare la sua forza.

Sono felice di aver perso peso ma non so a chi dirlo, così comincio a chiedermi se sto facendo la cosa giusta. Mi interrogo: si può essere femministe felici di dimagrire? Posso fare la dieta senza riflettere sulla mia grassofobia interiorizzata?

Non è mai solo cibo. Il cibo è la metafora per eccellenza, uno dei materiali narrativi più grandi a nostra disposizione. Nessuno racconta storie come il cibo! Eppure, ogni tanto sarebbe bello se fosse solo pasta, solo farina, solo lievito. Sarebbe liberatorio non sovraccaricare di significato ogni scelta alimentare che facciamo. Non vorrebbe dire rinunciare alla consapevolezza, al contrario, ma saperla dosare. E anche fare i conti con ciò che siamo.

Smetto di raccontare alle persone che sono a dieta. Quando vado da un cliente per lavoro e mi offre un cioccolatino, dico semplicemente no. Quando esco a bere, dico semplicemente, stasera non mi va l’alcool, prendo solo dell’acqua. Decido che posso provare a mangiare bene senza rinunce eccessive, ma adesso che sono dentro questa tabella alimentare, incastrata nelle sue linee e caselle, quando esco dal foglio mi sento affranta, incapace di resistere, una nullità. Con dieci chili in più non ero felice, ora che li ho persi sono ossessionata dall’idea di riprenderli. La dieta ha fallito. Ma non ho fallito io.

Una mattina di qualche giorno fa, era molto presto ed ero sola con mio figlio in cucina, lo osservavo in contemplazione e a un certo punto mi sono domandata; chissà se mi trova bella. E poi mi è venuto da piangere. Ho pianto per quella parte di me che ha ancora bisogno di sapere se è bella, che ne ha così bisogno che si interroga addirittura sul parere di un neonato. Ma invece di cacciare quel pensiero doloroso, l’ho messo lì, sul foglio del mio piano alimentare e insieme ci ho unito tutti i pensieri di questi mesi.

Ho tentato di smembrare la vergogna della mia fame: la fame che sento e quella che faccio. Non sono ancora riuscita a capire cosa la alimenti, ma in questo lavoro di osservazione microscopica delle mie debolezze, in questa costante analisi dei miei atteggiamenti favorevoli alla dittatura della magrezza, io sto provando a non odiarmi, a non odiare la mia testa che cede al desiderio di un’immagine estetica più vicina ai canoni.

Il cambiamento c’è stato, in fondo. Ho imparato a non disprezzare il mio corpo e ho capito che il problema non stava lì. Adesso devo imparare e non detestare il mio pensiero.

Chissà come andrà, è ancora troppo presto per le risposte. 

Altre notizie su:  cibo