Sbirre, Pentite, Maskalzoni: galeotto fu il luppoleto | Rolling Stone Italia
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Sbirre, Pentite, Maskalzoni: galeotto fu il luppoleto

Nel carcere di Alessandria, la rieducazione dei detenuti avviene anche attraverso il cibo (e la birra). Il merito è della cooperativa Idee in Fuga. Dietro c'è (anche) lo zampino di Teo Musso di Baladin

sbirre carcere Alessandria

C’è un detto banale: chiusa una porta si apre un portone. Poi ci sono portoni che si chiudono, dietro loro decine di altre porte destinate a restare serrate a lungo, mentre fuori qualcuno urla di buttare la chiave. Scardinare il meccanismo si può. Non con la classica lima nascosta nel dolce. Ma con una birra (ci torniamo dopo), un biscotto e sì, anche con una torta.

Idee in Fuga è la cooperativa che ha aperto portoni e cancelli dei due istituti di pena di Alessandria (la casa di reclusione “San Michele” e la casa circondariale “Cantiello Gaeta”), creando opportunità di lavoro per detenuti ed ex-detenuti. Perché, lo ricordiamo, il fine ultimo della detenzione è la rieducazione: non è la fissa di una certa gauche buonista, ma un principio scritto nella Costituzione.

Tutto è partito alcuni anni fa da un incontro casuale tra Carmine Falanga, operatore del terzo settore, oggi presidente della cooperativa, ed Elena Lombardi Vallauri, allora direttrice degli istituti che venivano da un lungo periodo di inattività: «Quando in carcere non si fanno attività, gli animi non sono proprio distesi», osserva Falanga. «Portare iniziative culturali e ricreative ma, soprattutto, lavoro, aiuta tantissimo».

carcere Alessandria

Il primo progetto è stato Social Wood, sviluppato nel contesto della casa circondariale. La falegnameria già presente, usata per scopi formativi e didattici, è stata trasformata in laboratorio produttivo, il tutto all’insegna della sostenibilità ambientale e sociale: recuperare legno di scarto per recuperare persone considerate scarto della società. «La prima commessa, 10.000 pezzi di un packaging in legno, arrivò da un imprenditore illuminato di un’azienda molto sensibile a questi temi», ricorda Falanga. Quell’azienda era Baladin, la brewery di Teo Musso, destinato a diventare deus ex machina degli sviluppi successivi.

Un ulteriore esperimento fu l’aprirsi all’esterno attraverso una bottega di oggetti in legno, installata in due garage dismessi nella cinta muraria del carcere, ma con accesso dalla piazza antistante. «Flop totale – confessa Falanga – oggi i mobili la gente li compra al Mercatone». I locali c’erano, gli scaffali pure. Per capire con cosa riempirli è servito guardare alle altre carceri d’Italia. Dove si produce di tutto: caffè, frutta secca, vino, dolci, pasta. Prodotti che si potevano acquistare da altre cooperative sparse nel Paese e mettere in vendita, assegnando ai detenuti la gestione dell’attività e del negozio, ribattezzato Fuga di Sapori.

Next step: acquistare materie prime da altre strutture, affidarle a realtà artigianali e creare una linea “a marchio”, partita con la spalmabile al caffè arabica lavorato nel carcere femminile di Pozzuoli. Da lì, l’evoluzione inevitabile: perché non iniziare a produrre direttamente? E perché non iniziare proprio dalla birra?

birre carcere Alessandria

Detto che – come qualunque altro alcolico – la birra non può essere consumata né tantomeno prodotta in un istituto di pena, «avevamo scoperto tutta una serie di ingredienti che avremmo potuto procurarci: spezie, erbe aromatiche, agrumi. E siamo andati da Teo a chiedere di fare insieme una birra. Ci rispose di no». Non perché non credesse nel progetto, tutt’altro. Ma perché la strada giusta, secondo lui, non era appoggiarsi a un birrificio grande, ma – ancora una volta – a un piccolo artigiano.

Insieme a Musso, e grazie alle sue dritte, è stato individuato un produttore nel cuneese (il Birrificio Trunasse) ed è nata la prima, non poteva essere altimenti, Sbirra. E anche il primo dei tanti (troppi?) giochi di parole che da quel momento avrebbero identificato le bionde, le rosse, le ambrate (c’è la Pentita, per esempio) e il resto del catalogo: i taralli Maresciallo, il liquore Malandrino (al mandarino, sic!), il miele Galeotto raccolto nell’apiaro all’interno del carcere (il progetto si chiama Ora d’Arnia) e così via, fino al panettone Maskalzone.

luppolo carcere Alessandria

Galeotto si chiama anche il luppoleto, impiantato nel post-Covid grazie a un crowdfunding in un’area incolta ai margini della casa circondariale di San Michele, fuori città. Un luppoleto ha piante che raggiungono sei, anche nove metri di altezza. Quello di San Michele si estende su mezzo ettaro di terreno e si vede dalla strada, svettante e rigoglioso. Troppo piccolo per poter dare una quantità di luppolo significativa, almeno ai fini di una produzione avviata come quella di Sbirre & co, è diventato palcoscenico (sempre con lo zampino di Musso) di un evento “campestre”, una cena en plein air a scopo benefico: grandi tavoli tra i filari, allestimento e servizio in capo ai detenuti.

Alla prima edizione, nell’estate del 2022, non volle mancare l’allora Ministro della Giustizia Marta Cartabia, autoinvitatasi mandando in subbuglio gli addetti alla sicurezza. La seconda, quest’anno, è stata ribattezzata “Be(e) free”, perché le arnie sono proprio accanto, vicino all’Orto della Buona Condotta. La birra, neanche a dirlo, scorreva a fiumi. In tavola, specialità del territorio e prodotti sfornati nel laboratorio di pasticceria del carcere (al quale di recente ha collaborato la blogger Sonia Peronaci). Nel frattempo, l’emporio in città si è allargato e oggi ospita il Bistrò, la cucina affidata allo chef Luca Gatti che guida la brigata di detenuti in forza ogni giorno, da lunedì a sabato in due turni, pranzo e cena.

sbirra Alessandria

Tra loro c’è Michele. Nome di fantasia, Michele è un ragazzone sorridente. In carcere da qualche anno, qualche altro ancora davanti, lavora in cucina da poche settimane (il locale ha aperto i battenti a fine novembre) ma non smette di dire che «qui c’è un sacco da imparare, per me è tutto nuovo. Lo chef è “di fuori” (la dicitura giusta per i “civili” è “liberi cittadini”, ndr) e ci insegna un sacco di cose. È bellissimo lavorare all’esterno del carcere, avere contatti con la gente, ricevere complimenti». C’è entusiasmo sincero, pura e semplice voglia di riscatto: «Desidero davvero dimostrare alla mia famiglia e a me stesso che sono cambiato in meglio. E da uomo libero mi piacerebbe poter restare».

È quello che ha fatto Davide, fisso in sala al Bistrò anche dopo essere “uscito”. Lui è superstiloso, capelli e barba nerissimi, completo total black, unghie smaltate di celeste e turchese. Lo vedresti bene dietro il bancone di un cocktail bar alla moda, e infatti tra i suoi progetti c’è quello di imparare l’arte della miscelazione, magari acrobatica, visto il suo passato da artista di strada: beveva petrolio bianco e sputava fiamme ai crocicchi di Torino.

La sua è una storia come tante. «Sono sempre riuscito a vivere facendo il giocoliere e l’animatore. Avevo una certa dipendenza dall’erba, ma non ho mai avuto bisogno né di spacciare né di rubare. Fino al Covid. Stavo riprendendo in mano la mia vita con una compagna e un figlio in arrivo quando tutto si è fermato, non c’erano più feste, è arrivato uno sfratto, sono andato fuori di testa e ho dato retta alla persona sbagliata. Mi ha proposto una rapina. Ho detto di no, ma ho detto di sì a un furto. E per fortuna è andata male. Con i delitti, se va bene e fai tanti soldi, magari continui. Io sono contento sia andata male da subito, almeno ho avuto una pena minima».

 

 
 
 
 
 
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Le offerte di lavoro vengono fatte, a discrezione del personale carcerario, ai detenuti che dimostrano di seguire un percorso di recupero. Meglio ancora se hanno esperienza nel settore specifico. Davide aveva studiato all’alberghiero: «Quando mi è stato proposto di entrare in bottega, ho accettato al volo». Ma qual è la differenza tra lavorare stando dentro e stando fuori? «Prima ero più libero, al momento la mia nuova prigione è questa», ride. «La verità è che agli inizi del carcere sogni la libertà, ti svegli, ti ritrovi ancora rinchiuso e ti prende malissimo. Viceversa, quando esci succede la cosa contraria: sogni di essere ancora in galera e quando ti svegli e ti ritrovi a casa provi come un disagio. Riprendere la libertà alle volte ti lascia quel senso di “troppo”: dentro avevi un guscio, fuori all’inizio non sai più cosa fare».

Il lavoro rimane comunque una “terapia” sicura per evitare le recidive: fondamentale durante la detenzione e, a maggior ragione, dopo di essa. Per questo la cooperativa ha attivato una seconda falegnameria “fuori”, in cui poter reinserire gli ex-detenuti nel mondo produttivo. Secondo i dati ufficiali del Ministero, riportati da Falanga, a livello nazionale il 70% delle persone rilasciate tornano in cella nel giro di 12 mesi: «Dal 2017 a oggi non abbiamo mai avuto, tra quanti hanno lavorato per noi, nessuno che sia rientrato in carcere: su 28 detenuti che hanno fatto parte dei nostri progetti, la recidiva è pari a zero».

L'inaugurazione del Bistrò Fuga di Sapori

Credits: Fabio Passaro

«Se provi a chiedere a un bambino di disegnare la città, farà la chiesa, il parchetto, il supermercato, la scuola, l’ospedale. Il carcere no», conclude Falanga. Però forse un giorno un bambino di Alessandria, tra il bar e la pizzeria, abbozzerà anche l’ingresso di un bistrot. E davanti ci sarà qualcuno con una birra in mano.

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