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Le cinque donne che stanno ridefinendo la ristorazione milanese

Le cinque donne che stanno ridefinendo la ristorazione milanese

Ilaria Puddu, Sara Nicolosi, Aurora Zancanaro, Carola Abrate, Cinzia De Lauri
Foto: Alessandro Treves

In principio fu il vestito-gate, riassumibile più o meno in questi termini: una copertina che vuole celebrare l’empowerment femminile nella ristorazione può imporre un dress code alle sue protagoniste? Non dovrebbero, forse, le suddette protagoniste essere lasciate libere di vestirsi con gli abiti che le fanno sentire a proprio agio e apparire così come sono nella loro quotidianità? Io stessa ho pensato si trattasse di un incaponimento eccessivo, di un capriccio da militante, dell’ennesima occasione in cui – anziché concentrarci sulle cose importanti – preferiamo appigliarci a dettagli di cui fondamentalmente non frega nulla a nessuno. Poi il fondo di verità di ciò che era stato frettolosamente bollato come l’ennesimo grattacapo è venuto a galla a distanza di giorni grazie a un libro. «Hai detto che sono inadatta, frivola, scema. Ti saresti trovata d’accordo con mia madre. Diceva che il Signore mi ha fornita di un bel corpo ma dentro ci ha versato l’acqua minerale. (…) È vero, sono frivola, adoro i vestiti eleganti, i gioielli, le case belle e le auto comode. Sono nata tra gente frivola che la vita se la voleva godere e questo mi hanno insegnato».

La Maria Cristina Palma di La vita intima, ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, sottolinea una delle tante contraddizioni con le quali, spesso, dobbiamo scendere a patti: la vanità è sinonimo d’inconsistenza? Il desiderio di sentirci e di essere esteticamente belle rema in senso contrario rispetto a quello d’essere prese sul serio per quello che facciamo? Ostentare noncuranza di fronte alle cosiddette frivolezze è una scorciatoia per apparire più solide, centrate, autorevoli e affidabili?

Siamo donne, che oltre alle gambe ci sia molto di più ormai è assodato, ma ciò non significa che la strada sia tutta in discesa – in particolare nel mondo della ristorazione. Gli ultimi anni, e con ultimi intendo in particolare dal 2017 in poi, ci hanno per forza di cose obbligato a guardare e analizzare situazioni che, fino a poco tempo prima, non erano al centro del dibattito collettivo e passavano quasi inosservate. I toni sono stati (e sono tuttora) talvolta intelligentemente pacati e aperti ai contrasti, altre volte fin troppo estremi e univoci; in entrambi i casi, però, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, il buono che rimane è che il tema della parità tra i sessi e della presenza femminile in determinati settori sia tornato a generare discussioni, interrogativi, confronti.

Il nuovo Rinascimento del food and beverage milanese ha i volti di Ilaria Puddu, imprenditrice meglio conosciuta come “The Pizza Queen”, founder e proprietaria (insieme al socio Stefano Saturnino) di celebri format gastronomici che vanno dalla pizzeria Marghe, inaugurata a febbraio 2016, a Gelsomina, la pasticceria aperta a novembre 2018 che ha raddoppiato in via Fiamma; dalla pizzeria Giolina del 2019 alla Crocca dell’anno successivo, dove la pizza è sottile e croccante in pieno stile anni Ottanta; fino a Pizzium, diventata una catena di successo che conta trenta locali in Italia.

Aurora Zancanaro, una laurea in chimica chiusa nel cassetto a causa di un colpo di fulmine con la panificazione: tante esperienze in laboratori, panifici e mulini che la portano, a fine 2017, ad alzare la clèr di Le Polveri, micro-panificio di appena cinquanta metri quadrati con piccolo laboratorio a vista all’ombra della Basilica di Sant’Ambrogio. La voce si sparge in fretta: i prodotti sono buoni, strizzano l’occhio alla Scandinavia, su Instagram si moltiplicano le foto di bun, roll, danesi. Morale, Le Polveri si trasforma in una specie di tempietto in cui gli adepti di Aurora si mettono diligentemente in fila qualunque sia la condizione atmosferica per aggiudicarsi le sue creazioni.

Ilaria Puddu. Foto: Alessandro Treves. Abito: Art Dealer

Le chef Sara Nicolosi e Cinzia De Lauri, sacerdotesse della cucina vegetale femminile – entrambe formatesi al Joia di Pietro Leemann – che con il loro Al Tatto, nel quartiere di Greco, hanno creato nel 2015 un’oasi che parla di sostenibilità, stagionalità e territorio. Quaranta coperti, un luogo informale che richiama sia un’affezionata clientela veg-friendly, sia carnivori e flexitariani curiosi di provare non la solita cena vegetariana dal sapore punitivo. I menu degustazione cambiano mensilmente e valorizzano non solo le sfumature più profonde e meno scontate di ogni ortaggio, verdura e frutto, ma anche la cultura gastronomica mediorientale, la sperimentazione (leggi: la creazione di formaggi veg) e la cantina, grazie alla selezione di vini biologici e biodinamici di piccoli produttori.

Carola Abrate, barlady – anzi, barmaid – classe 1992, storica (per quanto risulti paradossale associare l’aggettivo “storica” a una ragazza di trentun anni) presenza dietro il bancone de La Drogheria di piazza Vittorio Veneto a Torino, dove è approdata dopo diversi anni da cameriera delle Langhe e nel capoluogo piemontese. Seconda classificata al Barawards 2018 (categoria Bartender dell’anno) e terza nel 2019; finalista italiana della Bacardi Legacy Cocktail Competition 2018; dopo l’esperienza da Cera a Milano (nel 2021 all’ottantacinquesimo posto della classifica World’s 50 Best Bars), è in procinto di aprire Dirty Milano – «bar nudo e crudo» – insieme a Gianluca Tuzzi e Mario Farulla.

Un poker d’assi, volendo considerare Cinzia e Sara un’entità unica, cinque donne che vengono da percorsi ed esperienze differenti, che operano in ambiti differenti del medesimo settore, diversissime tra loro eppure unite da un intento comune: lasciare un segno e ritagliarsi uno spazio in un mondo a prevalenza maschile non per via dei gameti femminili, non perché «le quote rosa sono notiziabili», ma in virtù della propria bravura, lungimiranza, tenacia e determinazione.

Cinzia De Lauri e Sara Nicolosi. Foto: Alessandro Treves. Abito: Zara, giacca: Twin Set; Tuta: Wolford, giacca: Autentica 504

Chiacchieriamo mentre loro sono al trucco: il vestito-gate non è che un vago ricordo archiviato sotto abiti a palloncino, piume, scollature a cuore, lurex, ferri arricciacapelli, blush illuminanti e lipstick scintillanti. Sembra un episodio di Actress Roundtable con, al posto di Jennifer Lawrence, Michelle Yeoh, Michelle Williams e compagnia bella, queste donne che stanno ridefinendo la ristorazione meneghina con idee e obiettivi piuttosto chiari. Uno su tutti, la ricerca di una sostenibilità che non può più essere soltanto millantata, bensì concretamente perseguita: «I clienti, vuoi perché le conseguenze deleterie del cambiamento climatico sono diventate parte della conversazione, ora sono molto attenti al prodotto, da dove arriva e come viene usato; perciò seguono e premiano i ristoranti e le attività che hanno fatto una scelta dal punto di vista dei fornitori e della sostenibilità», puntualizza Cinzia.

La sensibilità verso tematiche legate alla sostenibilità e all’ecologismo «ha cambiato la cucina», aggiunge Ilaria. «La direzione è sempre di più il vegano, il vegetariano, il tracciabile,  le intolleranze. Lo vedo già nei nostri locali: è un continuo trovare prodotti senza lattosio, senza glutine, per vegani, stagionali. Il futuro sicuramente sarà quello, a prescindere poi dal tipo di ristorazione che andrai a fare: i clienti ora decidono in base a questi aspetti, che non possono più essere trascurati. Poi, secondo me, ci sarà anche una tendenza verso un gourmet meno estremo, un ritorno a una gastronomia più tradizionale, ma fatta bene. Perché se ci pensi, come dico sempre, lo spaghetto al pomodoro a Milano lo sanno fare in pochi: il gourmet alla fine è anche quello, il saper scegliere le materie prime e non fare per forza il piatto eccessivo o concettuale».

Pensare al Noma e alla decisione di René Redzepi di chiudere nel 2024 per via dei costi e dei ritmi lavorativi non più sostenibili è quasi automatico. Per Sara «è anche una questione di marketing: devi sempre cercare di fare qualcosa di nuovo, e il primo ristorante al mondo non può stare fermo per più di quattro, cinque anni. C’è bisogno di un rinnovamento continuo: hanno fatto i pop-up in Messico, in Giappone, la nuova sede a Copenaghen, adesso il laboratorio di sperimentazione, poi s’inventeranno qualcos’altro». «Infatti non chiude», precisa Ilaria, «sta modificando il suo business per avere meno costi, è quello che imprenditorialmente ha più senso fare».

Aurora Zancanaro. Foto: Alessandro Treves. Abito: Pinko

La pressione, le aspettative, l’impossibilità di tirare un respiro e godersi i risultati ottenuti – «la clientela è cambiata, una volta andava nei ristoranti e sapeva quello che trovava; ora vuole sempre qualcosa di nuovo, e per noi diventa stressante inventare sempre qualcosa» (Cinzia) – sono le costanti con cui chi lavora nella ristorazione deve imparare ad avere a che fare. «Ci sono aspettative più alte da parte del pubblico, oltre a quelle, già alte, che tu nutri nei tuoi confronti», chiosa Aurora. «Io credo che la gente non voglia più essere fregata», interviene Carola, «meglio poco ma fatto bene, meglio semplice ma buono. Il che significa tornare allo stato di natura degli ingredienti e avere più qualità, non creare fuffa dietro un piatto o dietro a un cocktail perché le persone non sono più disposte a spendere cifre astronomiche per il nulla cosmico. Un drink diventa buono quando ne vuoi ordinare un altro, ed è lì che un bartender capisce d’aver fatto un bel lavoro: ha dato al cliente la possibilità di bere qualcosa dietro a cui sicuramente c’è una ricercatezza, che a lui però è risultata comprensibile e immediata».

C’abbiamo girato intorno, potremmo anche bellamente ignorare la-domanda-che-va-fatta-alle-donne, ma decidiamo di affrontarla comunque. «Mi è venuta in mente un’intervista a Bruno Barbieri», ricorda Aurora, «dice qualcosa tipo: “No ma le donne sono brave, in alcuni ruoli sono pure meglio degli uomini: io la pasticceria la do in mano a loro”. Se questa è l’evoluzione da maschilismo di livello uno a maschilismo 2.0, non è che abbiamo fatto tutti ‘sti passi avanti: siamo abilitate, ma ovviamente alla partita dei dessert, toh! Che poi i commenti sessisti manco arrivano sempre e per forza dagli uomini: il “siete tutte panettiere, che carine!” l’ho paradossalmente sentito in bocca a parecchie donne. Questo per dire che non è che il maschilismo appartiene soltanto al maschio…».

Sara, che è incinta al nono mese, racconta d’essersi a lungo cullata nell’utopia della parità genitoriale, ma quando il suo compagno le ha detto che prenderà due settimane di congedo alla nascita del figlio, «ho capito che finché la società non si adatta e non permette di distribuire meglio i ruoli è davvero difficile conciliare carriera e ambizione con il desiderio di genitorialità. Se non avessi una socia, se non avessi Cinzia con cui posso alternarmi al ristorante, come avrei potuto assentarmi dalla mia impresa?». È il vecchio adagio che ritorna: nel 2023 una donna si trova comunque davanti alla solita scelta, la carriera o i figli. «È folle. Io non voglio scegliere: voglio essere un’imprenditrice, voglio avere successo nel mio lavoro, voglio anche essere madre. Non è che una cosa debba escludere l’altra». È possibile avere tutto? Ridono all’unisono. «Io spero di sì, ma è la società a dover cambiare».

Carola Abrate. Foto: Alessandro Treves. Completo: Veronica Iorio, collana Radà

Le basi si stanno lentamente, faticosamente, costruendo: «quando ho iniziato, undici anni fa, di donne ce n’erano veramente poche», interviene Ilaria. «Negli ultimi anni sono venute fuori imprenditrici, chef, bartender: questa è la parte bella della ristorazione e sarà anche il futuro. Stanno capendo che si può fare, e si può fare bene». Venivi guardata con circospezione in quegli anni? «Più che con circospezione, si chiedevano a chi l’avessi data». Ridono tutte. «Per lo meno, i commenti agli articoli che uscivano avevano quel tenore perché all’epoca era una cosa rara, oggi è ormai una cosa normale». Quindi non può che migliorare? «Assolutamente. Ma per la parità in generale occorreranno altri centotrenta anni: possiamo sempre farci congelare e vedere se sarà effettivamente così». 

«Ricordiamoci anche che fino a non troppo tempo fa la Guida Michelin aveva il premio speciale per la migliore chef donna, manco fossimo una categoria protetta», precisa Aurora. Un premio che veniva vissuto come di Serie B, «perché un conto è se stessimo parlando di una competizione sportiva dove le differenze fisiche tra uomo e donna sono un dato oggettivo, ma questo è un mestiere: esiste un “miglior chef”, che può essere un uomo come una donna», le fa eco Sara. Sogghigniamo un po’ pensando a quei giornalisti food in stile The Menu che esprimono giudizi con fare finto-saccente del tipo “Si sente il tocco femminile”, “Si sente che in cucina c’è una donna”: «Ma da che cosa, poi? Esiste una sensibilità individuale, certo, che però trascende il sesso» (ancora Aurora).

I capelli sono in piega, gli ombretti sfumati, le labbra sapientemente disegnate: leggi, siamo alle ultime battute della nostra chiacchierata. Cosa si augurano Ilaria, Aurora, Carola, Cinzia e Sara per il futuro? «A me manca quello che c’era prima del Covid: il fermento di idee fatte con la testa e non da gente che investe nel food un po’ a caso, non capendo che non si tratta di un lavoro in cui ti basta alzare la serranda e cucinare due piatti» (Ilaria). In generale, sono concordi su un punto: maggiori tutele per imprenditori e dipendenti, affinché la ristorazione torni a essere un settore apprezzato da chi ci lavora – ossia da coloro che durante la pandemia si sono visti abbandonati, scoraggiati e hanno visto lo sporco venire a galla. Tradotto: un aggiornamento e un adeguamento di contratti collettivi nazionali ultra-datati; perseguire una formula che sia sostenibile in tutti i sensi; rifiutarsi di sfruttare le risorse con stage gratuiti e stipendi da fame (no pun intended); stabilire giorni di chiusura, orari e turni che permettano a chiunque di avere una vita oltre il lavoro.

Foto: Alessandro Treves

«Non avrei mai aperto un posto la cui dimensione mi avrebbe schiavizzata: ho trascorso gran parte della mia vita negli stellati, e lì non conduci un’esistenza normale. Pochi ci pensano, ma lavorare in cucina ti porta a essere isolato socialmente, perché vivi in una brigata senza alcun contatto con la realtà. Ora preferisco tenere chiuso il weekend e far pagare di più un cliente: non sta scritto da nessuna parte che se ami questo mestiere devi lavorare tutto il tempo mentre gli altri si divertono». Sara è categorica, le altre annuiscono: le nuove generazioni vivono il mondo del lavoro come un luogo di diritti, e non possiamo che essere felici si rifiutino di sgobbare gratis dodici ore al giorno senza che queste dodici ore siano realmente formative.

Truccate o struccate, spettinate o con la messa in piega, in lungo o in corto, in nero o multicolor: sì, l’empowerment femminile può (e deve) passare anche attraverso le frivolezze, la vanità, le contraddizioni e l’essere così, dolcemente complicate ma sempre più determinate. Nella ristorazione come in qualsiasi altro settore. E quel «mi raccomando, levami le rughe in post» rivolto al fotografo un attimo prima di salutarci è la quadratura del cerchio di un vestito-gate sventato per miracolo.

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Foto: Alessandro Treves
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Gabriele Bassetto
Stylist: Lori Girgenti

Make-up artist: Vanessa Forlini per Making Beauty
Hair styling: Christian Vigliotta per Making Beauty
Assistente MUA: Camilla Guadagnoli per Making Beauty
Photographer Assistant: Giuseppe Mosca

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