Quella meravigliosa ossessione chiamata “verdura” | Rolling Stone Italia
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Quella meravigliosa ossessione chiamata “verdura”

C'è chi la mangia perché "fa bene", chi l'ha usata per assoggettare i membri di una setta e chi per far filosofia. Ad alcuni, miracolosamente, piace e basta. Quel che è certo è che, della verdura, non ne abbiamo mai abbastanza

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Credits: LOIC VENANCE/AFP via Getty

A ventott’anni, Michel Onfray, filosofo francese oggi ultra-mediatizzato, ebbe un infarto. Contro ogni statistica medica e spaventando tutti, perché se a quell’età il corpo è forte, fortissimo è l’infarto. Si ritrovò dunque sotto osservazione per settimane, condannato a una dieta ospedaliera insopportabile. Solo la sera prima aveva preparato una spalla d’agnello con funghi orecchioni e sedano per sei commensali, mentre ora faceva i conti, letteralmente, con la dietologa che gli prescriveva cibi ipocalorici, ipoglicemici e ipocolesterolemici. Più verdure, più erba! Lui disse che avrebbe preferito morire mangiando burro che «economizzare la sua esistenza con la margarina». Lei rispose che burro e margarina erano la stessa cosa. «Come si fa a essere così privi di retorica?», pensò lui. E chiuse il confronto dicendo che, se erano la stessa cosa, allora preferiva il burro.

 

Onfray racconta questo aneddoto nel Saggio di autobiografia alimentare che apre il suo primo libro del 1989 Il ventre dei filosofi. Critica della ragion dietetica (Ponte alle Grazie, 2011). Ora è più impegnato su progetti intellettuali di conservatorismo autocelebrativo, ma ai tempi scriveva di edonismo e teorizzava una gaia scienza alimentare che metteva in risalto proprio la retorica, la sfumatura, l’equilibrio, il gusto, tutti quegli aspetti del cibo, e in generale del nostro rapporto con il mondo, che non sono riducibili a quantità, micronutrienti e prescrizioni. L’analogia sarebbe questa: il gusto assomiglia alla retorica. Se la verità non fosse mai in dubbio, la retorica sarebbe inutile; se il piacere fosse solo una somma di gesti controllabili, il gusto sarebbe inutile. Ma la verità è quasi sempre in dubbio, così come il piacere (o il benessere) è sempre molto difficile da controllare.

 

Perciò, insomma, mangiare le verdure solo perché fanno bene è in sostanza un errore. Un errore che diventa necessario solo se è temporaneo, se ci serve, cioè, come strumento psicologico per cambiare il nostro paradigma alimentare e trovare un nuovo equilibrio in cui le mangiamo perché ci piacciono. Per il resto, ogni privazione perpetuata troppo a lungo può creare solo infelicità. E contare le cose che mangiamo ci fa diventare bravi a contare, ma non a mangiare. Almeno, però, pare che noi italiani abbiamo un vantaggio storico con la verdura: sembra che ci piaccia più che agli altri e da più tempo, e che ci piaccia per ragioni di gusto, prima che di ogni altra ideologia, penitenza o riduzionismo dei micronutrienti.

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Nel suo ultimo libro, Amaro. Un gusto italiano (Laterza, 2023), Massimo Montanari ricostruisce proprio questa tradizione «tutta italiana di considerare la dieta vegetale esclusivamente in termini di gusto». Un po’ per disponibilità climatica, un po’ forse per semplice propensione culturale, gli italiani dimostrano, lungo la Storia, di avere un debole per le verdure, anche per quelle amare. Tra le ricche e sfiziose fonti citate da Montanari troviamo tantissime testimonianze di questa tipicità italiana. C’è il primo trattato inglese sull’insalata del 1699 di John Evelyn, Acetaria (che indica alla latina tutto ciò che si condisce con l’aceto), in cui le citazioni «in lingua diversa dall’inglese sono sempre in italiano. Quando porta italiani e francesi a esempio di frugalità vegetariana, spiega che “[they] accept and gather ogni verdura”». Un paio di secoli prima, allinizio del ‘500, Francesco Berni scrive un inno al cardo (sì, proprio al duro, amaro e umile cardo) che si apre sul gusto, dicendo che i cardi «sono quasi migliori del pane e del vino», e si chiude con l’economia, raccomandando di non farsi scoraggiare «anche se fossero troppo cari, “perché non è onesto che patischino i ghiotti per gli avari”. Lascia piuttosto l’olio, il pane, il vino, la carne, il sale, il lardo; lascia tutto ma “per l’amor di Dio dacci del cardo”».

 

Sempre del ‘500 è la testimonianza più suggestiva del legame tra gli italiani e la verdura, talmente stretto da portare i primi a non poter concepire nemmeno Ulisse (cioè, l’Odissea) senza un po’ d’insalata. Quando Ferrante Carafa traduce un passo dell’Iliade in cui Odisseo cattura un cervo e lo mangia insieme ai suoi compagni, scrive che c’era anche un contorno «d’alcun erba fresca che condita l’havean con vin fatt’agro» (aceto). Il problema, scrive Montanari citando Massonio che commenta quel passo, è che l’insalata non c’è in Omero, è un’aggiunta del traduttore italiano. Che poi, aggiungiamo noi, più che una correzione irriverente al grande poeta, la si può vedere anche come ulteriore e definitiva attestazione di stima: Omero era troppo grande, avrà pensato Carafa, per aver dimenticato che con il cervo ci va almeno un po’ di verdura. Sarà stato un refuso, meglio rimediare e non fargli fare la figura del rozzo. 

 

Naturalmente non si può dire che solo gli italiani nella storia abbiano apprezzato le verdure, ma Montanari sottolinea «il rapporto di estrema naturalezza, di dimestichezza che gli italiani intrattengono con quelle modalità di approccio al cibo, senza forzature e senza ideologismi, nel segno di una confidenza familiare, di una cordialità quotidiana. Sempre in una prospettiva che mette in primo piano l’abitudine e il gusto. Non si tratta, voglio dire, — continua Montanari — di azioni intellettuali, ma di scelte propriamente gastronomiche. L’amaro tutti lo rispettano e lo stimano perché fa bene, ma quando ci si rivolge al contesto italiano questa dimensione (solidissima nell’immaginario collettivo e nelle convinzioni individuali) è affiancata e sopravanzata da quella dell’apprezzamento gustativo. Il buono si sovrappone al salutare, il piacere alla salute». Si sovrappone, verrebbe da dire, trasformando un’impersonale condotta dietetica in uno stile di vita. E lo stile, come tutti gli altri strumenti della felicità, non è quantificabile, non è riproducibile seguendo prescrizioni o ideologie o ricette. Anzi, sembra che queste creino più confusione che altro.

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E infatti Vincenzo Corrado, ricordato come il primo cuoco a mettere per iscritto la dieta mediterranea e autore del celebre Il cuoco galante, nel 1781 scrive un altro libro che lo rende celebre, Del cibo pitagorico, in cui tesse le lodi del vitto erbaceo, rifacendosi, almeno nel titolo, al grande filosofo greco. Pitagora, nonostante avesse una paura matta delle fave, è tradizionalmente considerato il padre spirituale del vegetarianesimo, perché insegnava a considerare la vita di ogni essere vivente allo stesso livello e condannava chiunque uccidesse un animale per cibarsene. Ma se dal titolo del suo libro sembra che Corrado voglia sposare questa dottrina, promuovendo appunto l’etica vegetariana, leggendo più a fondo si scopre che le sue intenzioni erano diverse; più italiane, diremmo a questo punto. Nel testo di Corrado, infatti, come nota Montanari, non c’è in realtà nessun presupposto ideologico. Anzi, con «Pitagora, invece, Corrado polemizza, rammaricandosi che si fosse perso in vane fantasticherie come la trasmigrazione delle anime, così da trasformare la bella idea del mangiare verdure “nel sinistro senso di una superstiziosa venerazione, ch’egli avesse per gli animali” […] Furono — continua Corrado — quelle bizzarre idee sulla trasmigrazione delle anime e sulla fratellanza universale dei viventi a far sì che Pitagora avesse “la somma disgrazia di non essere da tutti inteso”. […] Se si fosse limitato a parlare di gusto, quel filosofo avrebbe avuto molti più seguaci…». Insomma, l’idea alla base del suo libro, usando le sue parole, si riassumeva in: “Basta con la sofisticata e pesante cucina di carne”! Tutto qui. Che è un lamento che tutti comprendono e da cui si può partire senza traumi per cominciare ad apprezzare, di gusto, ogni verdura. Il resto sono titoli efficaci e fantasticherie.

 

Negli stessi anni, Voltaire, il più grande intellettuale del suo tempo, diventa vegetariano, anche lui vantando un’erudita affiliazione a Pitagora, e scrive e pubblica per dimostrare che mangiare verdure è virtuoso, mentre uccidere pollastre e capponi è terribile. Voltaire, l’uomo più celebre, più in voga e con le idee più influenti di tutta Europa, dà voce agli animali e ne mostra la sofferenza in un dialogo famosissimo che si chiama, appunto, Dialogo del cappone e della pollastra (1763). Il cappone descrive minuziosamente come verrà torturato e ucciso e, una volta cotto e servito, perfino deriso dai commensali. Ma poi, in un passaggio successivo, dice una cosa che fa pensare che la condanna di Voltaire sia più alla violenza in generale, che alla dieta carnivora. Il cappone, parlando degli uomini, dirà alla pollastra: «Sappiate, per consolarvi (se è possibile), che questi animali, che sono bipedi come noi, e che sono molto al di sotto di noi, poiché non hanno piume, hanno usato questo metodo molto spesso con i loro simili». Il metodo a cui si riferisce è quello della tortura, di cavarsi gli occhi a vicenda e di arrostire i propri simili. Cosa che abbiamo fatto a più riprese nella storia, provandoci anche un certo gusto.

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Credits: Jason Fochtman/Houston Chronicle via Getty

La dieta carnivora è da sempre associata alla violenza, suggerendo che chi si nutre di carne tende a essere iracondo, mentre chi si nutre senza uccidere sarà più docile. Non sembra ci sia certezza sulla coerenza dietetica di Voltaire, sul fatto cioè che davvero non mangiasse mai carne, ma pare che con i suoi servitori non fosse tanto docile. Nell’autunno del 1765, Adam Smith andò a trovarlo nella sua tenuta vicino a Ferney (oggi Ferney-Voltaire), un paesino a pochi chilometri da Ginevra, dove Voltaire riceveva gli ospiti che da tutta Europa viaggiavano per incontrarlo. Ne La vita di Voltaire di Evelyn Beatrice Hall (1908) è riportata la testimonianza di una cena di quell’autunno: «La cena consisteva in due portate e veniva consumata su piatti d’argento con lo stemma del padrone di casa, mentre per il dessert i cucchiai, le forchette e le lame dei coltelli erano d’argento dorato». Ma la parte divertente viene da Madame De Genlis, una nobildonna virtuosa dell’arpa, che descrive così una cena a casa del filosofo: «Durante la cena, M. de Voltaire non era affatto piacevole; sembrava essere continuamente arrabbiato con i suoi servitori, chiamandoli a voce così alta da farmi trasalire». La Madame trasalisce, con buona pace delle virtù calmanti delle verdure.

 

Un altro filosofo di Ginevra, ancor più convinto che luomo buono fosse fatto di cibi semplici e rustici, era Rousseau. I piatti sofisticati sono prodotti del lusso, sosteneva, una delle più bieche espressioni di una civiltà che ha corrotto la genuinità dell’uomo naturale. E andando ancora più indietro in questa allegorica indagine storica, si può addirittura far risalire il principio della perdizione al passaggio dallo stato frugivoro a quello carnivoro. La carne è civiltà, la civiltà è guerra, ergo la carne è guerra. Il ginevrino prediligeva dunque il latte, le uova e le verdure. Onfray, ne Il ventre dei filosofi, sottolinea unironia: «dovremo stupirci di trovare nella galleria dei vegetariani illustri dei celebri amatori di sangue e di carne fresca? Due esempi di celebri erbivori: Saint-Just […] Secondo vegetariano celebre: Adolf Hitler. È il caso di dilungarsi?».

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Il punto, naturalmente, non è dar contro ai principi virtuosi dell’etica pitagorica, ma semplicemente far notare che pretendere una coerenza dietetica, pretendere cioè che uno sia sempre fedele alla sua dottrina, che trasformi un principio virtuoso in dogma, e che, per capirci, non sgarri mai, è un errore di valutazione. Le strade cieche, lo stiamo vedendo, sono tre: la penitenza (religione), la privazione (etica e ideologia) e la dietetica (medicina). Sono cieche perché sono temporanee, servono per fare ammenda, per darsi un contegno o per curarsi, ma finiscono presto. Sembra davvero che ognuna abbia la sua degna funzione, ma che nessuna serva per imparare a mangiare bene. Il gusto, invece, è una strada infinita e, per dirla con Corrado, attecchisce prima e più in profondità del «sinistro senso di una superstiziosa venerazione per gli animali». Chi va avanti per gusto (funziona anche in senso figurato), va avanti da solo, anche quando si stanca, o si dimentica, delle prescrizioni. E l’etica virtuosa rimane virtuosa anche se il filosofo ogni tanto si mangia un cervo, o striglia un servo. 

 

Gli esempi contemporanei, utili al nostro discorso, sono innumerevoli, molti divertenti, qualcuno più inquietante. Il più inquietante è la storia della setta NXIVM, che alla fine degli anni ’90, promettendo successo e ricchezza, costringeva i suoi adepti, oltre che a indicibili nefandezze, a nutrirsi solo di verdure, non superando le ottocento calorie al giorno. C’è chi l’ha provata, per immedesimarsi nelle vittime, e ha confermato che è una dieta pensata solo per indebolire e rendere tutti facilmente condizionabili. A conferma di questo, una delle manipolazioni psicologiche della setta consisteva in un semplice e pericolosissimo ribaltamento della percezione di sé: alle vittime veniva detto che ogni volta che si sentivano male, ogni volta che il loro corpo dava segnali di malessere, loro dovevano resistere, perché quel dolore non era un allarme, ma anzi un segnale che stavano diventando più forti. Il dolore è sempre tossico e la penitenza è sempre pericolosa.

 

Gli esempi più divertenti sono su Netflix. Uno è uscito da pochissimo, Sei ciò che mangi: gemelli a confronto, una docuserie in cui alcuni scienziati prendono diverse coppie di gemelli omozigoti e testano su di loro la differenza tra una dieta onnivora e una vegana. Basti dire che nella prima puntata, quando vengono assegnate le diete, tutti quelli che pescano l’onnivora esultano, quelli che pescano la vegana si rattristano. Uno che di lavoro fa il formaggio dice molto teneramente: “Come farò senza formaggio? Come? Io adoro il formaggio…”. Sempre su Netflix c’è la storia di Sarma Melngailis (Bad Vegan: fama, frode e fuggitivi), vegana invasatissima che cominciò a raggirare e frodare finché, dopo una breve fuga, fu beccata dalla polizia perché fece l’errore di ordinare a suo nome una pizza da Domino’s. C’è chi dice che non ci sono prove che l’abbia davvero mangiata, come a cercare di difenderne almeno la coerenza dietetica. Magrissima consolazione, nonché solito vecchio errore: sostituire la lenta e impegnativa scoperta di un gusto personale con una statica e impersonale coerenza dietetica a cui si delega la propria felicità.

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Credits: Soumyabrata Roy/NurPhoto via Getty

A proposito di scoperta di sé, chiudiamo con un breve saggio di autobiografia alimentare. Qualche anno fa, chi scrive avrà avuto ventott’anni, per pranzo si fermò per caso in una sgangherata trattoria di Brisighella con il proprio padre. Lui, dopo i tortelloni della casa e la grigliata un po’ secchina, ordinò una zuppa inglese dall’aspetto molto poco raffinato. Chi scrive lo guardò, e sospirando disse: “Ah, finisce così? È ufficialmente finita?”. “Cosa?”, chiese l’altro. “La formazione, la lunga ed estenuante formazione al mangiar bene, alla scelta oculata delle pietanze, alle strategie per non cascare nelle trappole dei menù… Dopo una vita intera, finisce tutto con una coppetta di zuppa inglese che straborda di alchermes di quarta categoria”.

 

Il padre sorrise, e fingendo di non capire disse: “È buona, è buona”. Era un po’ come stare a Ginevra nel 1767 o in un ospedale francese nel 1989. Pensare che l’uomo non avrebbe mai mangiato un dolce dozzinale in una trattoria era come pensare che Onfray volesse davvero mangiare il burro il giorno dopo il suo infarto, o che davvero Voltaire non avrebbe mai dovuto mangiare nient’altro che vegetali solo perché scriveva pamphlet in lode dello spirito animale. Quei pamphlet, come la lunga ed estenuante formazione di un padre, servivano ad allenare la ragione, a imparare a pensare, a svelare i principi dietro le abitudini, a indicare un equilibrio possibile; poi, se uno vuole mangiarsi una zuppa inglese proprio davanti al proprio figlio (che affronto!) o una salsiccia proprio davanti ad Adam Smith, è irrilevante per il destino del mondo come per la felicità dell’individuo.

 

Era un po’ come stare a Ginevra nel 1767, solo che invece di Ginevra era Brisighella, invece di Voltaire c’era un padre e al posto di Adam Smith c’era l’autore di questo pezzo. Che è un po’ come quella vecchia battuta che dice che la zuppa inglese è come la bistecca, solo che al posto della carne c’è il pan di Spagna e al posto del sale c’è la crema. Finita anche l’ultima goccia di alchermes, una cameriera con una retina in testa venne a ritirare i piatti e ci chiese se era tutto buono. “Tutto comme il faut, tanto dobbiamo morire”, disse il padre. La cameriera non parlava francese ma sapeva che dobbiamo tutti morire, così disse: “Eh, dicono che bisognerebbe mangiare più verdure, più leggero… Anche qui ormai la gente ci chiede se abbiamo i dolci vegani”. “Lei li faccia chiedere, ma non risponda mai”, disse il padre sornione. Lei: “Guardi, io non ne capisco, ma dicono che alla fine sono la stessa cosa”. “Se sono la stessa cosa — rispose l’autore — preferisco quelli non vegani”. Ma rise solo lui, perché loro non sapevano come sarebbe iniziato questo pezzo.

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