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Il mondo dentro un bicchiere di tequila: oltre agli shot c’è (molto) di più

Andrea Benvegna, vincitore della finale italiana 2022 della competizione Patrón Perfectionist, ci guida in un viaggio che parte da Jalisco e arriva fino al bancone del bar, per (ri)scoprire questa pietra miliare dei distillati partendo dal suo nome. Che è “il” tequila, non “la” tequila

Se diciamo tequila, cosa vi viene in mente seduta stante? Azzardiamo un’ipotesi: gli shot di tequila bum bum o di tequila sale e limone ingurgitati inconsapevolmente da ragazzini nel pre-discoteca. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, uno shot che ti scendeva in gola, bruciava un po’ e tu stemperavi con la fetta acidissima di limone. Oppure ancora, il tequila sunrise, quel cocktail che veniva assemblato con succo d’arancia scadente e granatina o sciroppo dolciastro alla fragola – che più che un cocktail pareva un intruglio per la tosse. E poi ancora, il re di tutti i misunderstanding: non è “la” tequila, bensì “il” tequila, che basterebbe solo questo per posizionarlo tra i distillati più bistrattati e sottovalutati del passato.

«È sempre stato una pietra miliare dei distillati, ma solo ultimamente c’è la volontà da parte delle persone di coglierne la vera essenza. Oggi, grazie soprattutto alla passione di chi lo produce, il pubblico sta imparando ad apprezzarlo e amarlo: noi ragazzi dietro il banco abbiamo fatto un grandissimo lavoro per quanto riguarda la comunicazione, sviando chi chiedeva lo shot per fargli degustare un tequila liscio. Nel nostro locale per esempio lo offriamo in abbinamento a scaglie di Parmigiano Reggiano, una combo molto umami e interessante. Per dirottare il pubblico dal concetto dello shot bisogna istruirlo facendogli capire che dentro quel bicchiere c’è un mondo: si spiega l’approccio alla bevuta, i sapori che possono essere rintracciati con naso e bocca e soprattutto si racconta il prodotto, le sue origini, ciò che differenzia le produzioni dei brand in termini di trattamento e cottura dell’agave, illustrando i fattori che portano a dare delle diverse sfumature di gusto».

A parlare è Andrea Benvegna, classe 1991, vincitore della finale italiana dello scorso anno di Patrón Perfectionist, la competizione di Tequila Patrón che riunisce i migliori barman del mondo per creare il cocktail più innovativo a base di tequila. A marzo, Andrea ha rappresentato il nostro Paese nella finale mondiale che si è tenuta a Jalisco, in Messico, nella suggestiva cornice dell’hacienda Patrón. Il coinvolgimento di Andrea nei confronti del tequila è palpabile, così come il senso di “responsabilità” che sente nei suoi confronti: «noi bartender siamo l’ultimo anello della catena che lega il distillato al consumatore, quindi è compito nostro presentarlo e renderlo “appetibile” agli occhi di coloro che poi decideranno di ordinarlo. Ci sono alcuni concetti che è cruciale trasmettere: che si tratta di un distillato premium; che rispetto agli altri – per i quali, se si toglie l’invecchiamento, generalmente basta un processo di un anno per avere una bottiglia – è l’unico che necessita di parecchio tempo per essere preparato. Si parla di un periodo che va dai quattro agli otto, nove anni affinché un agave sia maturo e pronto a livello zuccherino per essere raccolto, fermentato e infine distillato».

Il suo primo approccio col tequila risale al 2011, quando dalla Liguria si trasferisce a Londra per lavorare al Connaught Bar presso il Connaught Hotel a Mayfair. «La moglie del mio mentore (Ago Perrone, Nda) è messicana, dunque il tequila costituiva la bevuta per eccellenza. Lì ho iniziato a interessarmi, informarmi, viaggiare, e mi sono buttato in una specie di “nuovo mondo”, distante da noi non solo geograficamente ma pure culturalmente. Il tequila è un qualcosa di ancestrale, che viene tramandato, che richiede pazienza e devozione: visitare una distilleria in Messico rappresenta un’esperienza capace di cambiare per sempre il proprio vissuto rispetto a questo spirito».

In seguito a Londra, un anno a New York nel team del team del 432 Park Avenue Condominium, poi di nuovo nella capitale britannica gestendo e concentrandosi sulla drink list dei quattro bar all’interno dell’hotel The Mandrake, nominato al Tales of the Cocktail tra i dieci migliori nuovi cocktail bar a livello globale. Dopo aver rappresentato il Regno Unito nella competizione Havana Grand Prix a Cuba, due anni fa decide di tornare in Italia e di iniziare una collaborazione con lo chef e migliore amico Ivan Biancardi, insieme al quale inaugura a Imperia SURF, locale che unisce appunto cocktail e cucina.

«Avevo già intercettato Patrón Perfectionist anni fa, ma per vari motivi non ero mai riuscito a iscrivermi; una volta tornato in Italia, per mettere in luce l’attività nonché per sfida personale mi sono informato, ho letto il brief e mi sono sentito eccitato e ispirato. L’obiettivo era esaltare i prodotti locali in un drink: ti posso assicurare che per una persona come me che è stata lontana tanto tempo, tornare in Italia equivale a una sorta di vera e propria estasi e riscoperta. Esiste una varietà e una qualità di prodotti che non ha eguali da nessuna parte, per cui creare un cocktail che ne mettesse in luce uno in particolare equivaleva a un invito servito su un piatto d’argento».

EVO, il cocktail a base di Tequila Patrón con cui Andrea Benvegna ha vinto la competizione Patrón Perfectionist

E lui, quell’invito l’ha non soltanto colto, ma ci ha costruito sopra una storia. La sua. «Ho pensato alla base del tutto, e sono partito da lì. Da ligure, ho chiuso gli occhi e mi sono domandato: qual è la prima cosa che ti fa venire in mente la Liguria? Per me è l’olio, perché la pianta di olivo dà letteralmente da mangiare alla nostra regione, è uno stile di vita e una cultura che coinvolge chiunque. Ho deciso di dedicargli un inno, partendo dalla pianta, passando per il frutto fino al derivato del frutto. Il drink si chiama EVO – non come extra virgin olve oil, ma come evoluzione appunto della pianta: viene servito in un bicchiere fatto da artigiani locali in legno d’olivo; il suo DNA è sulla linea di un classico Margarita con base Tequila Patrón Silver, succo di lime e una parte dolce costituita da sciroppo di zucchero, che in bocca regala più persistenza e fa viaggiare maggiormente i sapori sulle papille gustative. Dopo aver lavorato sull’albero mi sono concentrato sul frutto: ho denocciolato le olive taggiasche, le ho frullate ed estratto un succo che dona il punto sapido (interno) che solitamente nel Margarita viene dato dalla crosta di sale esterna. Infine, ho aggiunto un modifier – un ingrediente che lega gli altri senza predominare – scegliendo lo sherry, un vino spagnolo che può essere o il più secco o il più dolce del mondo a seconda di come è fatto. Viene prodotto soltanto in un piccolo triangolo della Spagna, nella zona dell’Andalusia, ed è parecchio caratteristico: da un punto di vista gustativo si abbina perfettamente all’oliva e soprattutto mi ha fornito un ponte con la cultura del tequila. Il Messico ha un profondo background spagnolo ed è da esso inscindibile, quindi ho desiderato creare questo legame che rimandasse alle radici del Paese».

Quali consigli daresti a coloro che quest’anno affronteranno la competizione italiana? «Il segreto è essere il più genuini possibile: fermarsi, pensare a ciò che si vuole comunicare, non copiare cose già fatte e avere un punto di vista e una voce unici. Solo così è possibile parlare in maniera schietta, sincera, e lasciare un segno. In tal senso, diventa fondamentale trovare un appiglio personale: io ho preso le mie origini, mi sono lasciato ispirare da quello e ho raccontato una storia reale. Altri consigli che mi possono venire in mente sono avere una forte personalità – che si riallaccia comunque a quanto dicevo prima: quando si è nel contesto di una finale, tutti i drink sono buoni; ciò che fa realmente la differenza è la comunicazione che riesci a instaurare con le persone che hai davanti ed essere capace di fargli arrivare al 110% il messaggio che intendi trasmettere».

Ma l’Italia non è che il primo step per arrivare in Messico e a quella che lo stesso Andrea definisce «una lifetime experience. Nessun’altra competizione mondiale che ho affrontato è paragonabile a Patrón Perfectionist: già solo il fatto di poter rappresentare il tuo Paese in una finale mondiale è molto figo; in più hai l’opportunità di avere a che fare con persone, provenienze e culture distantissime dalla tua, di fare networking e arricchirti in uno scenario senza pari, all’interno di un’azienda incredibile. In una finale italiana come dicevo prima tutti i drink sono buoni, immaginati in una finale mondiale: è qui che occorre davvero tirare fuori il fattore wow. L’unica paura che avevo era nei confronti di me stesso, nel senso che temevo di non riuscire a comunicare al meglio il messaggio che volevo arrivasse».

La Tenuta Patrón a Jalisco

In una circostanza del genere, paragonabile per certi versi alle Olimpiadi, «se inizi a guardare le tempistiche degli altri, quanto in lungo hanno saltato eccetera, finisci per avere un’altissima pressione psicologica e a non concludere nulla. Si tratta di uno switch mentale: non devi pensare a come essere migliore degli altri, ma a come raggiungere la migliore versione di te stesso. Occorre partire dal presupposto che chi ti giudica non ti conosce, quindi ti devi assicurare che ciò che vuoi dire, il messaggio che vuoi trasmettere, arrivi in maniera forte, chiara e incisiva: è impossibile tagliare un traguardo simile se non si fa un grosso lavoro a livello introspettivo, trovare i propri punti di forza e metterli in evidenza affinché rappresentino al meglio la propria unicità. In tal senso è determinante chiedere sempre dei riscontri e cogliere i feedback che vengono forniti».

Un’esperienza da ripetere, insomma? «Assolutamente. Sponsorizzerei questa competizione a chiunque lavori nel nostro settore: al di là della vittoria di per sé, che passa quasi in secondo piano, è un’occasione per assorbire del sapere, creare delle connessioni, mettersi in gioco. Essere in un ambiente in cui vige l’eccellenza rappresenta l’esperienza più stimolante della vita».

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