Il coriandolo della discordia: alle radici di un odio (o di un amore) dettato dalla genetica | Rolling Stone Italia
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Il coriandolo della discordia: alle radici di un odio (o di un amore) dettato dalla genetica

Si dice che sui gusti non si debba discutere, ma a volte anche sì. È il caso di ingredienti e sapori che obbligano a una scelta – o di qua o di là – e che dividono peggio di un derby calcistico: qui però non è questione di cuore, bensì di Dna. E la domanda resta: sa di agrumi, o sa di cimice?

Il coriandolo della discordia: alle radici di un odio (o di un amore) dettato dalla genetica

Foto: Jeswin Thomas/Unsplash

Uno su tutti? Il coriandolo, erba aromatica di un bel verde brillante, gli steli sottili, le foglioline sfrangiate che ricordano il prezzemolo. Di intensa freschezza e lievemente pungente, ha un caratteristico sentore agrumato piuttosto piacevole. Almeno, così è per chi lo ama. Perché per altri sa di saponetta, disinfettante, piedi, marciume, pipì di gatto, cimice.

La prima odiatrice celebre fu Julia Child, cuoca, gastronoma e conduttrice ante litteram di show culinari sul piccolo schermo: durante un’intervista con Larry King dichiarò di odiare il cilantro (il nome spagnolo usato nel mondo anglosassone) che, a suo dire, sapeva di morto. Uno dei giudizi più definitivi espressi in merito a questo ingrediente capace di scatenare accesi dibattiti: fa schifo o è delizioso?

Propende per la prima ipotesi Manuel Costardi, chef insieme al fratello Christian del ristorante di Vercelli che porta il loro nome, una stella Michelin. Fra le tante, aderisce al team cimice schiacciata. Inutile chiedergli di cosa sappia una cimice: sostiene che l’odore (fetido) è il medesimo e quindi, per la proprietà transitiva, il sapore deve essere quello. Quando nella vita gliene è capitata per sbaglio anche una sola una foglia nel piatto, non l’ha semplicemente sputata ma ha dovuto lavarsi la bocca e mangiare una manciata di mentine per placare il disgusto.

Foto: Matt McClain per The Washington Post

«Dalla prima volta che sono andato a Bangkok, l’unica frase che ho imparato in thailandese è “No phạkchī”, niente coriandolo», prosegue lo chef. Prendere nota, in caso si viaggi da quelle parti, se non si ama la pianta aromatica usata letteralmente a piene mani nei curry freschi come nelle zuppe, sia in foglie che in semi, invero più gentili ma comunque guardati con sospetto dai cilantrofobici. Preparando per un evento in Thailandia uno dei loro celebri risotti, Costardi è uscito dalla cucina affidando in toto al fratello la preparazione del pesto di coriandolo che, in onore degli ospiti, avrebbe guarnito il piatto.

Il cuoco piemontese è in buona compagnia: “I hate cilantro” è hashtag molto popolare in rete e identifica account che riuniscono nutrite community di antagonisti dell’ambigua erbetta. Che se da noi è, a onor del vero, ancora relegata a curiosità esotica, nel resto del mondo caratterizza cucine assai diffuse: oltre alla thai, per esempio, la vietnamita e la cinese e, dall’altra parte dell’Oceano, quelle sudamericane, Messico e Perù a fare da capofila. Impensabile presentare senza ciuffetti verdi un guacamole o un taco al pastor (sorta di “kebab” di maiale speziato), così come un leche de tigre, la marinata agra a base di brodo di pesce, lime, cipolla e peperoncino che insaporisce il ceviche di pesce crudo.

 

 
 
 
 
 
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La popolarità sui social raggiunta dalla controversia ha ispirato, un paio d’anni fa, la catena statunitense di ristoranti messicani Chipotle che ha deciso di far diventare realtà uno dei meme più condivisi, quello che accosta il coriandolo al sapone. È nata così l’edizione limitata di una saponetta verdissima e profumatissima: «Il nostro Cilantro Soap interpreta il trend di trasformare i momenti digitali in esperienze di vita reale», affermava Chris Brandt, responsabile marketing, in occasione del lancio. «Ogni fan di Chipotle, indipendentemente da quale parte del grande dibattito sul coriandolo si trovi, può apprezzarlo». Sicuro Chris?

 

 
 
 
 
 
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La questione del fastidio suscitato da questo ingrediente ha sollecitato persino l’interesse degli scienziati, che hanno indagato il perché e il per come il coriandolo si ama o si odia. Al netto della futilità di tali studi, ne è emerso un risultato sorprendente: l’essere haters o lovers dipende dal patrimonio genetico di ciascuno. Forse persino legato all’etnia: piace di meno ai caucasici e di più ai latinoamericani e ai popoli dell’Asia meridionale. Sicuramente una condizione innata: se presente, caratterizza entrambi i gemelli omozigoti che condividono lo stesso Dna.

Se ne occupa pure la blasonata Encyclopaedia Britannica che sintetizza così la questione: «Alcune persone trovano il coriandolo rivoltante. Parte di questa antipatia può essere ricondotta a una semplice preferenza, ma per quegli odiatori per i quali la pianta sa di sapone, il problema è genetico. Queste persone hanno una variazione in un gruppo di geni del recettore olfattivo che consente loro di percepire fortemente le aldeidi (sostanze che determinano l’aroma, NdA) nelle foglie di coriandolo. Questa stranezza genetica di solito si trova solo in una piccola percentuale della popolazione, sebbene possa variare geograficamente. I luoghi in cui il coriandolo è particolarmente popolare hanno meno persone con questi geni».

La disamina della Britannica mette l’accento sul rapporto tra gusto e olfatto. Sarebbe quest’ultimo senso, infatti, il principale indiziato di provocare immediata ripugnanza, con precisi recettori responsabili di “catturare” e trasmettere le sensazioni date dai composti aromatici. Il modo in cui il nostro cervello recepisce queste informazioni dipende dal nostro codice genetico ed è quello che ce lo fa piacere o meno.

Qualcosa di analogo accade con l’amaro, altro gusto divisivo che qualcuno adora e qualcun altro detesta. Anche in questo caso per “colpa” di geni e recettori che, forse, si trovano lì per un motivo specifico: molti veleni sono amari, poterli individuare all’assaggio serve a metterci in guardia. Ciò nonostante, non tutti hanno questa sensibilità innata e nel corso della vita possono imparare ad apprezzare le note amaricanti più o meno spinte.

Foto: Allan Francis/Unsplash

Di contro, la vita degli anti-bitter è difficile perché si tratta di un sapore che potremmo definire primario, si trova letteralmente ovunque e ha l’antipatica tendenza a essere invasivo, coprendo gli altri sentori. Sono amari il Negroni e la birretta, la cicoria ripassata e i lampascioni pugliesi, il cornicione bruciacchiato della pizza e i grill mark impressi dalla graticola sulla bistecca. E potremmo andare avanti e avanti. È amaro il twist che molti cuochi imprimono ai loro piatti, e insieme all’acido è uno dei sapori su cui più si misura la cucina contemporanea e di ricerca.

In alcuni ambiti, infatti, può avere addirittura una connotazione positiva: «L’amaro può essere bello, non sempre viene per amareggiare», sostiene Daniela Ferrando, assaggiatrice di olio extravergine d’oliva iscritta alla sezione lombarda del registro nazionale. «È uno dei tre pilastri descrittori del profilo sensoriale degli oli, insieme al fruttato e al piccante. Una caratteristica retrolfattiva la cui persistenza può essere considerata un pregio. Tanto che nell’apprezzare un olio si può dire, appunto, che ha un bell’amaro».

Al di là della propensione genetica, nell’attività di degustazione entra in gioco, com’è ovvio, anche la soggettività. Così c’è chi, per inclinazione personale, gradisce più o meno l’amaro e chi apprezza o meno il sapore del coriandolo, ma li manda comunque giù senza scappare in bagno a sciacquarsi la bocca.

Più curioso quel che accade con il piccante, che non è propriamente un gusto, ma un dolore. Le sostanze pungenti, come la capsaicina del peperoncino, attivano recettori che, per semplificare, potremmo definire “tattili”: mandano al cervello una sensazione di caldo intenso, di bruciore, come se si stesse toccando qualcosa di arroventato. Per un meccanismo di difesa, vengono prodotte endorfine, che “intontiscono” i nervi allo scopo di evitare inutili “sofferenze”, regalando una blanda euforia. Un meccanismo affascinate per un piacere un po’ masochista.

Foto: Creative Touch Imaging Ltd./NurPhoto

In un vecchio test riportato da Wired Usa, Paul Rozin, ricercatore dell’Università della Pennsylvania, aveva sperimentato le reazioni di un gruppo di consumatori abituali di spicy food, aumentando gradualmente la piccantezza del cibo proposto, fino al punto in cui i soggetti dichiaravano di non poter andare oltre. Quando è stato chiesto loro quale livello avessero preferito, hanno scelto il più alto che potevano tollerare «appena al di sotto del dolore insopportabile». Parafrasando le (buone) pratiche BDSM, l’orientamento era stato sul consumo di peperoncini “sicuro, sano, consensuale” o, per dirla con le parole di Rozin, «un masochismo benigno». Certo, un piacere non per tutti. Only the brave.

Curiosità nella curiosità: la menta attiva i medesimi recettori che però, in questo caso, “sentono” freddo. Ecco perché è una tra le erbe più usate per bilanciare molti piatti piccanti, soprattutto in Nord Africa e Medio Oriente. Insieme, guarda un po’, al coriandolo, storicamente presente in quelle regioni, come in tutto il bacino del Mediterraneo, dalla notte dei tempi.

Le tracce più antiche risalgono addirittura al 6000 a.C., rinvenute in una grotta nei pressi del Mar Morto, come racconta Camilla Marini su JoiMag, magazine di cultura ebraica contemporanea, in un approfondito articolo sulla storia di questa erba: afrodisiaca per gli Egizi, curativa per Ippocrate, ricettata da Apicio, identitaria per i sefarditi di Spagna. Sembra che proprio gli Ebrei, grandi consumatori di semi e foglie sin dall’antichità, dicessero “è come il coriandolo” per descrivere qualcosa che non sapevano bene cosa fosse. E nonostante siano passati millenni, ancora siamo qui a chiederci: di che diavolo sa ‘sto benedetto coriandolo? Agrumi o cimice, a voi la scelta.

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