Fenomenologia di un evergreen: il fresco piatto estivo | Rolling Stone Italia
Cosa resterà di questi anni '80

Fenomenologia di un evergreen: il fresco piatto estivo

È il tormentone in cui si ricasca ogni anno, che arriva inesorabile con l’impennarsi delle temperature. Viaggio tra le insalate di riso, le paste fredde, le capresi, i prosciutti e melone e i carpacci che ci mettono di fronte a un dubbio amletico: stavamo meglio quando eravamo meno gastrofighetti?

Fenomenologia di un evergreen: il fresco piatto estivo

Foto: Bryony Elena/Unsplash

Grande classico gastronomico che ha scandito anni e anni di pranzi e cene agostane, che più cerchi di sfuggirgli e più hai possibilità d’incapparci: maledizione o benedizione? In ogni caso non può che essere lui, il fresco-piatto-estivo, locuzione sempreverde che racchiude un mondo di vivande poco o nulla cucinate, da mangiare appena estratte dal frigo, direttamente dal contenitore – che anche apparecchiare fa caldo –, o da infilare nella borsa termica per la spiaggia e la scampagnata. Anche il fresco-piatto-estivo è sensibile, tuttavia, di fighettismo. Ha avuto una sua evoluzione negli anni e, in alcuni casi, persino un upgrade. Raccontando, di volta in volta, qualcosa di come eravamo e/o di come siamo diventati.

Forse il più iconico tra tutti è l’insalata di riso. Nella versione originale d’antan, i chicchi spesso scotti (no, non di marca, ma di cottura) giocavano a rimpiattino con cetriolini, cipolline, capperi, rondelle di würstel, formaggio coi buchi, piselli in scatola. Poi sono nati i condicosi, in pratica giardiniere miste di verdure e sottaceti. I più arditi li completavano con dadini di prosciutto cotto, tonno sott’olio, tocchetti di pomodoro. I più attenti negli ultimi anni hanno scoperto l’esistenza del riso parboiled che non scuoce. I più “creativi” (virgolette d’obbligo) il riso Venere nero e gli straccetti di salmone affumicato.

 

 
 
 
 
 
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Tutto ciò fino alla rivoluzione hawaiana, il poke: un’insalata di riso che non ce l’ha fatta (a essere mescolata). Altro assunto: il poke non si fa, si compra. In localini dai colori sgargianti con varia ambientazione tropicale. Detto che le più famose catene del settore rappresentano case history di successi imprenditoriali, dalle parti di Honolulu si tratta essenzialmente di pesce crudo marinato, il riso aggiunto nella versione commerciale in bowl (che fa più figo che dire “ciotola”).

Nel poke come (purtroppo) lo conosciamo noi, il riso è legittimato a essere scotto perché, nella ricetta base, è della tipologia da sushi. Per sua natura si spappa in cottura per poi agglomerarsi, quando si raffredda, in un blocco unico (da cui l’impossibilità di mescolarlo con gli altri ingredienti). Su questo solido basamento giacciono gamberi lessi, si sdraiano fettazze di salmone e avocado, si annidano chicchi di mais e fagioli di soia edamame, si insinuano anelli di cipolla cruda, piovono mandorle in granella o anacardi interi, per l’immancabile tocco crunchy.

 

 
 
 
 
 
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Nei nuovi poke, come nelle care vecchie insalate, possono cambiare i chicchi. Nascono così tutta una serie di variazioni sul tema a base gli uni di esotica quinoa, le altre di rustico farro o di simpatico orzo. Che per i più pigri si trovano ormai bell’e fatte in qualunque supermercato.

Capitolo a parte per il cous cous che, nella versione fredda, è spesso a sproposito denominato tabulè. Quest’ultimo sarebbe un’insalata di bulgur, grano spezzato mediorientale condito con verdure crude a dadolini, erbe e spezie. Mentre il cous cous, costituito da granelli di semola, nelle regioni di origine (Nord Africa e Sicilia) si serve come accompagnamento a piatti caldi in umido. Chiarita l’interessante (?) questione, quel che ci troviamo di fronte al bar, al banco del fresco o per la cena in terrazzo “ognuno porta qualcosa” è il solito mischione tra carboidrati e ortaggi. Sebbene la ricetta originale del tabulè libanese, con menta e tantissimo prezzemolo, pomodori, cetrioli, cipollotti e limone, dovrebbe a mio parere diventare patrimonio dell’umanità.

E veniamo a lei: la risposta italiana alla fame quando fuori fa caldo, sua maestà la pasta fredda. Orgogliosamente estratta dai Tupperware sotto millemila ombrelloni (ma anche su millemila scrivanie in pausa pranzo). Farfalle, fusilli, penne (eccole di nuovo!) i formati più gettonati. La versione più semplice e, in fondo, abbastanza gustosa è con pomodorini e basilico, tutt’al più qualche pezzetto di mozzarella, che però fa acquetta sul fondo. La più dozzinale si attesta quella con i condicosi “pasta edition” e quel loro insopportabile fondo acetoso.

 

 
 
 
 
 
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La più insolita è lo spaghetto. Luca Leona Zampa di Immorale Milano qualche anno fa lo proponeva “alla poraccia”: un trito di erbe miste (tante, molto finocchietto), un soffritto di cipolla e zenzero, peperoncino e cacioricotta grattugiata. Inedita anche la versione fredda della puttanesca, proposta da Incuso, azienda agricola “diffusa” che, tra Sicilia e Campania, produce olio, olive, capperi, pomodori top quality. La versione estiva del celebre condimento napoletano sminuzza – appunto – olive, capperi e pomodorini in conserva formando una salsa grossolana che va ad avvolgere una pasta di grande formato (noi abbiamo assaggiato dei fusilloni).

Non solo primi e piatti unici, anche gli adepti del filone low carb hanno i loro evergreen estivi. Prosciutto e melone, per dire. O meglio, l’immutabile prosciutto e melone. Perché, diciamocelo, non è che si sia mai evoluto granché. Chi vuole fare storytelling a ogni costo cita Ippocrate e Galeno, padri di tutti gli abbinamenti dolcisalati della storia, e scova una citazione del piatto niente meno che in Pellegrino Artusi. In realtà, si fa da sempre, anche un po’ a caso, e nessuno sa bene perché. È molto amato dagli stranieri: sul sito statunitense di Eataly ha una pagina tutta per sé dove viene definito «No-cooking-required, two-ingredient, throw-together kind of meal».

 

 
 
 
 
 
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Noi al massimo ci arrabattiamo per capire se il melone che stiamo per comprare – Cantalupo o Retato le principali varietà estive – sarà o meno dolce tastandolo e annusandolo nelle parti intime, ovvero dalla parte opposta al picciolo, in pratica il sedere del “popone” (come è chiamato in Toscana). Solo qualche foodie si spinge a sperimentare barattieri e caroselli, frutti pugliesi a metà tra meloncini e cetrioli ciccioni, così come prosciutti blasonati tipo gli spagnoli jamòn Serrano, Bellota o Pata Negra.

Stessa filosofia “zero sbatti” anche nella composizione della caprese. Tutt’al più i gastro-radical si ingegnano nella selezione della materia prima, cianciando di pomodori costoluti, Cuore di bue, Marinda, mozzarella di bufala campana vs fiordilatte pugliese, ma soprattutto che sia di giornata – e a Torino, Bologna, Bolzano arrangiatevi! Qualche foglia di basilico, un filo d’olio e il pranzo è servito. Con altrettanta facilità la combo si fa poverella: per esempio quando finisce su uno spiedino di legno che alterna mozzarelline sciape e ciliegini che Pachino (rinomata patria di diverse varietà Dop) non l’hanno vista neppure in cartolina.

 

 
 
 
 
 
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Proseguendo nel mondo delle proteine, c’è il filone delle carni crude: le francesi tartare e l’italianissimo carpaccio. L’aneddoto che riguarda quest’ultimo è cosa nota. Long story short: Harry’s Bar di Venezia, anni Sessanta, Giuseppe Cipriani, contessa affamata, mostra a Palazzo Ducale del pittore Vittore Carpaccio. A fare la differenza la “salsa Cipriani”: maionese, panna, senape, Worcestershire Sauce e brandy. Perché negli anni questa elegante cremina sia stata sostituita da rucola e grana resta un mistero.

La tartare, in accordo alla spesso pasticciata cucina d’Oltralpe, nella sua versione classica è stracondita con capperi, cipolla, tuorlo crudo e salsette varie. Al di là del rischio salmonella legato al tuorlo crudo, la stagione calda inviterebbe a soluzioni più leggere, sicché evviva la battuta piemontese che ai dadolini finissimi di manzo aggiunge qualche granello di sale e tutt’al più un giro d’olio.

 

 
 
 
 
 
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Abbasso, invece, i “finti” carpacci che si possono pescare in busta nella Gdo, pallide imitazioni dell’anzi ottima carne salada trentina, salatissimi e plasticosi. Nonché quelli pronti di pesce, come lo spada e il tonno, che sono in realtà salati e/o affumicati, ormai si trovano in molti menu di ristoranti di ogni ordine e grado e nulla hanno a che fare con quello che potrebbero essere fettine sottilissime di pesce fresco (abbattuto, per carità!).

E chiudiamo con lui, il vitello tonnato. Eccezione alla regola del poco o nulla cucinato, perché purtroppo la carne va lessata o arrostita, si preferisce ordinarlo bell’e pronto al ristorante o in gastronomia. Spesso – tuttavia – con gran soddisfazione, perché è diventato uno dei piatti su cui si misura l’abilità di molti chef. La nouvelle vague del “vitel tonné”, come lo chiamano le madamin torinesi e le sciure milanesi (che se ne contendono la paternità, o la maternità?), recupera la ricetta originale della salsa: non una banale amalgama di maionese in barattolo e tonno in scatola, ma una crema preparata con il fondo di cottura del vitello e le sue acciughe, tonno sott’olio di buona qualità, tuorlo sodo per legare, capperi per aggiustare la sapidità e limone per bilanciare.

 

 
 
 
 
 
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Soprattutto, il vitello tonnato del terzo millennio ha detto addio alla carne stracotta, drammaticamente grigia e stopposa, per un punto “al rosa”, appena più cotto di un roast beef: così, la polpa resta morbida e succulenta. Grado di cottura ammesso anche per la versione low cost con filetto di maiale, alternativa a buon mercato della fesa di vitello e ormai sdoganata. Sperando solo che, nella cena in terrazzo “ognuno porta qualcosa”, non anneghi miseramente in una salsa tonnata industriale pronta.