È finita l’epoca del pane incluso nel coperto? | Rolling Stone Italia
Che mangino brioche

È finita l’epoca del pane incluso nel coperto?

Dagli Stati Uniti all’Italia, sempre più ristoranti fanno pagare il classico cestino a parte, trasformando il pane in ciò che non è mai stato: un piccolo lusso per clienti disposti ad aggiungere una riga in più al conto. E privandolo anche del sapore di accoglienza che l’ha caratterizzato in tutta la sua storia

È finita l’epoca del pane incluso nel coperto?

Foto: Tom Williams/CQ Roll Call

Non siamo mai stati così ossessionati da questo genere alimentare che, dall’alba dei tempi, fa scuola a parte e che, come ricorda Pedrag Matvejević nel meraviglioso Pane nostro, ha fondato civiltà, distrutto altre, portato popoli a unirsi e scontarsi, tutto nel nome del chicco di grano foriero di vita e conoscenza. Nei secoli il pane ha diviso identità e assegnato modalità di esistenza: ne parla Dante Alighieri nel Paradiso, Canto XVII, dove la rivalità tra Pisa e Firenze viene resa attraverso la diversità dei pani infornati, l’uno salato (il pisano), l’altro “sciocco” e insipido (il fiorentino). Ma anche la citazione provocatoria falsamente attribuita a Maria Antonietta e comunque passata alla storia – quel «se non c’è pane, che mangino le brioche» – lanciata verso un popolo affamato e in rivolta che collocava il lievitato umile e profumato dalla parte del povero.

Negli anni il pane ha avuto i suoi giri e i suoi ricorsi, confermandosi come l’unica moda alimentare che davvero torna sempre. Solo che, stavolta, il suo percorso ha preso una piega un po’ atipica. Perché quello stesso pane che eravamo abituati a comprare per pochi euro al chilo, o a vederci servito copiosamente al ristorante incluso nel costo del coperto; quello stesso pane che ha sfamato i meno abbienti, che si faceva durare settimane pur di rimasticarlo anche secchissimo e che in tanti piatti della cucina tradizionale italiana; ecco, quel pane è diventato appannaggio dei ricchi. A tutti gli altri rimangono, appunto, le brioche scongelate del bar, o le Nastrine del Mulino Bianco.

NY Times: Restaurants to eliminate free bread | Morning in America

La storia comincia non molto tempo fa, in un’era che sa di Paleozoico ma che era solo 2020: lockdown. Non c’è bisogno di buttarsi nell’archeologia dell’internet per riportare alla memoria i tour de force di panificazione che intasavano i feed dei social network, e la conseguente scomparsa di ogni genere di farina dagli scaffali dei supermercati. Un po’ è stata FOMO; un po’ noia; ma i dati ci dicono che il lockdown è stato un periodo florido per il pane, e un’ottima scusa per uscire di casa almeno una volta al giorno. Al 2020, in Italia si producevano 1,5 milioni di tonnellate di pane annue, il consumo giornaliero pro-capite era di 80 grammi, la sua presenza a tavola era incrementata del 10%, e il pane fresco, artigianale, lievitato molte ore vinceva di ampio margine contro le tipologie “da bustina”: 85% di preferenze. Al 2023, i numeri tengono: si parla di 20.000 panifici artigianali in attività e uguali tonnellate annue, con sempre una spiccata preferenza per le produzioni di qualità. Insieme a questi, però, sbuca un altro dato interessante, che segnala una rapida crescita nelle vendite dei pani preconfezionati (pancarré, panini morbidi da hamburger eccetera). E, per quanto assurgere a correlazioni statistiche pare avventato, una suggestione pare esserci: il pane tiene, ma costa sempre di più. E qualcuno decide di ripiegare su simil-surrogati più economici.

Lo si nota anche negli acquisti quotidiani: a voler comprare il pane fatto per bene, viene piuttosto da estrarsi un rene sul posto e chiuderla lì. Una congiuntura che si trascina dai tempi pandemici a cui l’anno scorso s’è aggiunto il conflitto in Ucraina, con le impennate del costo dell’energia e delle materie prime che ha comportato. Un pane, quello fatto a regola, che diventa dunque sempre più per chi non ha paura a farsi i conti in tasca a ogni passaggio in cassa, e che, inevitabilmente, lascia fuori qualcuno. Lo si vede anche al ristorante, dove il pane sta diventando, zitto-zitto, una portata a parte, capace di influire in modo sostanziale sul totale dello scontrino per la serata.

 

 
 
 
 
 
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Gli esempi macroscopici di tale tendenza giungono dagli Stati Uniti, sintetizzati in due commenti parecchio interessanti: il primo viene dal New York Magazine, il secondo dal New York Times, e sono entrambi ottime fotografie dello stato-del-pane dell’America. Se infatti, da un lato, i costi della ristorazione si sono alzati verso le stelle, e anche solo ordinare una bottiglia in più o in meno di vino da tenere in-house può far variare sostanzialmente l’ago della bilancia mensile; dall’altro la risposta a tale esigenza di ottimizzazione sembra essere una diffusa premiumizzazione dell’alimento-pane – emblematico l’esempio del ristorante newyorchese Principe, che si avvale di una vera e propria chef de farina, Rebecca Isbell. I prezzi per il bread basket (cestino di pane) del fine dining vanno dai 12-15 fino ai più di 20 dollari, e comprendono – be’, francamente, un botto di roba. Da Dauphine’s, a Washington D.C.: due fettone di brioche alla patata dolce, biscotti salati al latticello, e una mezza baguette. Da Nura, a Brooklyn: due naan belli imburrati, più due panini freschi.

Insomma, se ordini un cestino, forse vuoi davvero pasteggiare a pane, e allora voilà, una nuova moda è servita. Se però vuoi solo due bocconi con cui inframmezzare il resto delle portate, caschi male. Lo si vede anche in Italia, dove il fine dining ha cominciato, a escludere il pane dal coperto e a relegarlo al rango di “piattino”; oppure a non servirlo proprio, eliminando il problema-costo alla radice. Ma non abbassando, anzi, di solito alzando, il costo del coperto.

Il punto è che c’è molta differenza nel mettere il pane su un piedistallo – e darlo magari anche a parte – e non servirlo proprio. Soprattutto quando, fuori dalle mura del ristorante, una nuova primavera dei panettieri è iniziata, a Milano sono tutti affamati di croste croccanti di lievito madre, in Porta Venezia ogni angolo ha la sua bottega, e appena gli dici che in zona Plinio hanno aperto il panificio più piccolo d’Europa corrono a vederlo tipo la Gioconda – spoiler: il pane, TraMa, lo fa pure bene.

 

 
 
 
 
 
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«La nostra proposta di ristorazione non prevede per il pane per una serie di ragioni. La prima è che non ci ispiriamo alla cucina tradizionale italiana, ma guardiamo alla Francia, al Giappone, alla Scandinavia, dove il ruolo del pane sulla tavola è diverso. Poi, il nostro è un menù costruito per la degustazione: una serie più o meno lunga di monoporzioni servite rapidamente una dopo l’altra. Quindi, nel 95% dei casi, non si tratta di piatti conviviali nel senso stringente della parola, perché nessuno dei nostri clienti avrà mai la necessità, per mangiare, di mettere le mano al centro del tavolo. Ancora, fare il pane comporta un costo e una riorganizzazione non irrilevante per un ristorante. Io mi ricordo il pane come alimento povero, con le nonne che andavano a cuocere ognuna la propria pasta nell’unico grande forno del paese. È una tradizione che si è persa nella cultura di oggi».

Pietro Zamuner è socio fondatore del milanese Bites, scopro che apparteniamo alla stessa classe (1995), e nel curriculum stacca Cracco, Joia, Kanpai (sempre a Milano) e poi il fu Fäviken di Magnus Nilsson nella Svezia profonda. È lui che, insieme al socio e chef Andrea Baita, si occupa delle scelte creative di Bites, e quindi, anche, dell’esclusione del pane dal tavolo del ristorante. Zamuner e Bites rappresentano il primo termine dello spettro del pane milanese: lo potremmo chiamare i No Pane, dove Bites è raggiunto da nomi come Spore e Altatto, per fare qualche esempio.

Una categoria che cavalca una linea sfuggente, e cioè quella dei rapporti di forza all’interno del patto di ristorazione: quanto è giusto che il cliente si sottometta completamente alla linea del ristoratore? Quanto è disposto il ristoratore a compromettere la presentazione del proprio menù per tendere una mano al cliente e regalare una piccola gratuità, qualcosa che spesso fa tirare un sospiro di sollievo per l’aroma familiare che si porta dietro, o che rappresenta la vera coccola dell’andare a mangiare fuori? La domanda sembra oziosa, specie alla presenza di attori che offrono solo, o almeno in parte, menù degustazione (Altatto e Spore viaggiano esclusivamente su questa rotaia).

 

 
 
 
 
 
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Ancora Zamuner: «Chi viene da Bites è, nella maggior parte dei casi, preparato all’esperienza. Comprende la nostra filosofia ed è disposto a lasciarsi guidare. Questo, per la nostra proposta, è fondamentale, perché siamo, in Italia, quelli che non servono un carboidrato manco a pagarci… scherzo, ovviamente, però è vero che i carboidrati non sono i protagonisti dei nostri piatti. Se vuoi gli spaghetti, non siamo i tuoi. I carboidrati, anche piuttosto simili al pane, entrano nei nostri piatti come accompagnamento alla proteina. Mi spiego: abbiamo avuto per un po’ di tempo una cialda waffle che accompagnava un piatto a base di manzo, e oggi abbiamo un piatto che è interamente costruito sulla presenza di un French toast, ricavato da un pan brioche che facciamo in casa».

Ma si può, qualche volta, compromettersi, e aprirsi ai capricci dello stomaco del commensale? Mi sta bene affidarmi, ho fatto un patto. Però ti chiedo di farmi sorridere, e di non intellettualizzare troppo la mia esperienza. Come annota Tammie Teclemarian sul New York Magazine, il ristorante, forse, dovrebbe anche sorprenderci, e non solo nel sapore. Il pane gratis può essere uno dei molti modi per farlo. Su questo punto, Zamuner puntualizza che «per quanto crediamo che il nostro menù si possa gustare tranquillamente senza pane, certo, se un cliente lo chiedesse saremmo felici di venirgli incontro, per esempio servendo il pan brioche che citavo sopra, o alternative senza glutine che abbiamo sempre in dispensa». Ma questo porterebbe a una nuova riga sullo scontrino? Lui risponde con una piccola risata: «No, assolutamente no».

Proviamo a procedere nello spettro della milanesità. Dopo i No Pane, incontriamo chi il pane lo dà, ma un po’ a mezzo. Un esempio ne è Stadera, gastronomia zona Crocetta, dove il primo cestino di pane è compreso, dal secondo in poi lo paghi un euro e cinquanta. Politica che intercetta un altro aspetto notevole del pane contemporaneo: la quantità che, giornalmente, ne viene sprecata, cioè 13 quintali. Lo dice Biova Project, startup che recupera e trasforma il pane invenduto e gli dà nuova vita, per esempio nella forma della birra (ce lo insegna, ancora, Matvejević: la differenza tra il pane e la birra è la quantità di acqua nell’uno e nell’altra). Il suo Co-Fondatore, Franco Dipietro, qualche tempo fa mi diceva che spesso il pane non lo prendono nemmeno le mense di carità o le associazioni di sostegno alimentare, perché ne hanno già troppo. Chissà quindi se quel secondo cestino di pane si sarebbe potuto dare gratis, anziché buttarlo come invenduto a fine giornata.

Il prossimo passaggio in questo spettro è Pane Sì, ma a pagamento. Da Onest, per esempio, con prezzi che vanno dai due euro ai tre: dipende se lo prendi con o senza l’olio. Un altro esempio si trova, curiosamente, a Bologna, dove, da Ahimè, il pane è servito con o senza burro al ginepro, e a seconda può costare sei o due euro. Ma anche a Reggio Emilia, per continuare, il plant-based Interno Tre propone l’aggiunta a un euro di una focaccina artigianale in accompagnamento a un piatto di verdure, salse e falafel senza, a non sganciare l’obolo, la minima presenza di carboidrati.

 

 
 
 
 
 
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Il tema, allora, si biforca. Perché se si paga il coperto, allora il pane è diventato un genere di consumo per avventori disposti ad aggiungere una riga in più al conto. Il fatto è che il coperto – andando a includere le spese per lavaggio piatti, posate, bicchieri, tovaglioli, e in parte i costi del servizio – si paga, sempre. E, se non è esplicitato sul menu, lo si trova spalmato nei vari rincari per le singole portate a cui tutti siamo avvezzi. Mettere il pane a pagamento è una scelta che, dal punto di vista del business, tanto di cappello. Ma che priva questo genere di conforto del sapore di accoglienza che l’ha caratterizzato in tutta la sua storia.

Conclude Zamuner. «Una cosa è innegabile: il pane fa subito casa, fa subito coccola. Quando ne addenti una bella fetta fragrante, per esempio, magari scaldata, un poco tostata. E fa parte, credo, del bello dello stare insieme, del mangiare insieme. Da Bites cerchiamo di conservare sempre questa componente di piacevolezza, e infatti è per questo che piatti come il French toast arrivano circa nel mezzo della degustazione, per far riprendere il respiro e donare quell’aria di casa».

Nel frattempo, nel deserto composto dalle briciole del pane che avremmo voluto mangiare ma di cui non possiamo godere, alcuni optano per le vie di mezzo. Per esempio Remulass e Propaganda Alimentare, sempre a Milano, che affrontano la questione proponendo rispettivamente pane e burro (speziato, buonissimo) più acqua al costo di due euro, e la stessa combinazione meno il burro a tre euro e cinquanta. Voi direte: sì, ma costano come in quell’altro posto che li proponeva divisi, ed è innegabile. Includerli però tra i beni di necessità dell’ottimo pasto e ancor più dell’ottimo servizio (come l’acqua) sembra, perlomeno, una mano tesa per non trasformare il pane in un vezzo per ricchi, da sgranocchiare annoiati sentendosi un erede della famiglia Roy. Mentre tutti gli altri ruminano Pan Bauletto e si beccano l’acidità di stomaco.