Bun Attacks: l’invasione delle brioche scandinave | Rolling Stone Italia
TREND OR FAD?

Bun Attacks: l’invasione delle brioche scandinave

Dal Nord Europa con furore, tutti in fila per fare colazione nella micro-bakery di turno a suon di pastry, roll e specialty coffee. Con un unico dubbio: siamo di fronte all’ennesimo effetto-cronut che verrà dimenticato nel giro di qualche mese?

Bun Attacks: l’invasione delle brioche scandinave

Foto: Getty Images

Scordati cappuccio e cornetto, dì addio al ristretto sorseggiato sbocconcellando una esse di frolla, saluta per sempre spremuta e toast. Oggi, a Milano, la colazione si fa nordica, in locali minimal dal sapore scandinavo, piccoli quando non piccolissimi, una manciata di tavolini (se li hanno) o il marciapiede come improvvisato dehors. Non puoi definirli bar né caffetterie, non pasticcerie né panifici, salvo poi scoprire che, in fondo, sono tutto questo insieme. Dietro ai banconi e nei laboratori a vista si aggira personale Millennial con il consueto corredo di grembiuli di lino o cotone grezzo, fasce e bandane annodate in testa.
Al netto di un’iconografia ormai abbastanza familiare, la tendenza vera è nell’offerta che ruota interamente intorno alla produzione di lievitati e sfogliati, ripieni e farciti, non di rado con dimensioni e peso specifico importanti. I dolci che fanno bella mostra di sé nelle vetrinette hanno nomi suggestivi: pastry (paste), roll (girelle), bun (panini dolci), da accompagnare con specialty coffee, miscele di nicchia che arrivano da microtorrefazioni.

 

 
 
 
 
 
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Del resto, micro è aggettivo caro a molti. È un micropanificio Le Polveri, 50 metri quadrati più il minuscolo laboratorio. Uno spazio così ridotto che sotto Natale, per impastare e cuocere i panettoni senza intralciare il resto della produzione, la titolare Aurora Zancanaro ha lavorato durante la notte. Il locale è talmente piccino da poter servire un solo cliente alla volta. E sì, tocca fare la coda, manco fossimo a New York nel 2013 davanti al tempio di Dominique Ansel. Cosa che lo ha reso all’istante un luogo di culto, meta di pellegrinaggio per gli amanti del pane artigianale e del breakfast lontano dai luoghi comuni: oltre a pagnotte di campagna, baguette rustiche e pan brioche, al termine della fila ci si può aggiudicare una danese (chiocciola di pasta lievitata con creme e farciture) o uno dei bun che cambiano di giorno in giorno: con arancia e sesamo, caffè e cacao, papavero e limone, l’onnipresente cannella. Qui, la colazione del sabato e della domenica è ormai un rito, ma da asporto: non esiste, come detto, una sala. Solo – quando la stagione lo permette – un “salottino” esterno e il caffè take away una vetrina più in là, preparato da Gianni Tratzi (marito di Aurora), che propone estrazioni a filtro con arabiche selezionate da micro (ancora!) torrefattori.

 

 
 
 
 
 
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A suo modo, stiamo assistendo a una piccola rivoluzione del gusto che prende le mosse dalla nouvelle vague gastronomica degli ultimi anni, la cui bussola punta decisamente verso nord. Non per niente, capofila di questo movimento è Loste Café, nato dall’intraprendenza di Stefano Ferraro, pasticciere ex Noma di Copenhagen, con Lorenzo Cioli, professione sommelier. Aperto sette giorni su sette da colazione a merenda (ma alle 17, l’ora del tè, tutti a casa), propone una collezione completa dei succitati bun e affini, ma non disdegna i francesi croissant e pain au chocolat, né i brownie con panna. I dolci profumano di burro e zucchero, cannella, cardamomo e cioccolato. Le creme sono suadenti, le glasse lustre. E il successo della formula è palpabile: conquistare un posto a sedere è abbastanza complicato, soprattutto nel fine settimana e il lunedì (quando, mi spiegano, i coffee shop meneghini sono quasi tutti chiusi). Si può, naturalmente, consumare al banco, curiosamente basso (dettaglio che sembra identificare un nuovo trend di arredo). Ma se chiedi un semplice caffè macchiato ti senti strana, perché qui la specialità è il cortado, ricetta argentina “tagliata” con una maggiore quantità di latte, mentre la versione nobile del cappuccino si chiama flat white, doppio espresso con latte montato. Un lessico tutto da imparare, insomma. Con il quale paiono trovarsi a loro agio i tanti clienti stranieri.

 

 
 
 
 
 
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Il format sembra infatti piacere, e molto, ai turisti che giungono dall’estero nella più internazionale tra le città italiane. Secondo Natalia Nikitina di Signor Lievito, che ancora non se ne capacita, il motivo è da ricercare nel successo riscosso tra gli influencer che, sui social media, hanno decretato come molto instagrammabili i suoi bulka, dolcetti fotogenici annodati o arrotolati, importati dalla natìa Lettonia nelle versioni ai semi di papavero o alla cannella. Impastati con lievito madre (originario di San Giorgio a Cremano, ha più di 120 anni e lo ha ricevuto in dono cinque anni fa), a un mantovano o a un bresciano potrebbero ricordare la torta di rose, mentre per Natalia sono la madeleine che la riporta agli anni della scuola, merenda per l’intervallo infilata in cartella. Com’è tradizione nel suo Paese, la pasticceria di Natalia è ricca di spezie: zenzero, chiodi di garofano, noce moscata, anice stellato. I dolci si dividono la piccola vetrina con le fragranti pagnotte di frumento, integrali o di segale, i pīrādziņi (rotolini salati) e le italianissime focacce.

 

 
 
 
 
 
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Difficile, infatti, rinunciare a un tocco tricolore. Non lo fanno da Fòla, locale che si definisce “pasticceria, gastronomia e bottega di quartiere” nel cuore di Nolo, l’amato-odiato neighborhood di Milano est. Qui, la produzione è di ispirazione belga come la titolare Tine Devriese che, insieme alle socie Luna Ferrari (conosciuta all’università di Scienze gastronomiche di Pollenzo) e Claudia Gerini (omonima!), impasta artigianalmente e sforna tanta sfoglia lievitata – la cosiddetta viennoiserie. Specialità i baulus, spirali di pasta brioche tipiche delle Fiandre, ma anche la focaccia barese, dedicata al fidanzato pugliese di Luna, con pomodorini e olive o contaminata con lo zahatar, miscela di spezie mediorientale. Forte il legame con la comunità (si può lasciare anche un pasto sospeso), così come l’attitudine a sostenibilità, zero sprechi e approvvigionamenti da piccoli produttori, il più possibile locali. Poche, invece, le concessioni alla moda: al momento, c’è un’unica proposta di caffetteria, una miscela 100% arabica di Sevengrams, torrefazione al femminile, e solo con l’estate torneranno ice coffee e cold brew (caffè filtrato a freddo).

 

 
 
 
 
 
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Colpisce come molti dei locali che propongono lo stile nordico contemporaneo siano nati a cavallo del lockdown o immediatamente dopo. Mentre mezza Italia impastava e lievitava per noia, qualcuno lo ha fatto buttando giù un business plan. Come Ludovica Camozzi e Ylenia Bitetti di Dosa, pasticceria piccina picciò dove – accanto a monoporzioni e mignon di foggia classica – compaiono cake rustici alla frutta, mentre le titolari non escludono di affiancare in futuro persino lo smørrebrød, il pane di segale a pasta acida tipico scandinavo buono per tutte le occasioni, comprese colazioni e spuntini.
Sarà vera gloria? Presto per dirlo. Troppe meteore si contano nel mondo dei foodies. Si è esaurita la moda dei cronut, improbabili (seppur geniali, da un punto di vista di marketing) incroci fra croissant e donut tutti glasse e zuccherini colorati, ormai relegati a pochi locali che ancora fanno cake design o alle ricette sui blog amatoriali. Certo, qualcuno aspetta paziente il suo turno fuori da Mr. Dick per muffin e waffle a forma di pene o vagina, ma con intenti più goliardici che gourmet.

I lievitati di qualità giocano un altro campionato e possono vincere facile sulle brioche surgelate rinvenute nel fornetto elettrico dei bar cittadini di ogni ordine e grado. Ma se la devono vedere con l’alta pasticceria nostrana, dai sapori rassicuranti e conosciuti ai più – che nel nostro Paese ha una tradizione consolidata, e a Milano, nonostante il suadente richiamo del precotto, resiste quasi stoicamente. Senza contare che la suddetta qualità ha un prezzo. La sfida è, dunque, convincere la clientela che valga la pena spendere 7, 8 euro per una colazione che al caffè all’angolo ne costa in media meno di 3. E fare la fila per potersela accaparrare. Cosa che la rende innegabilmente irresistibile agli occhi di foodie e gastro-fighetti, sì, ma per quanto tempo?