Abbiamo mangiato la pizza Chicago style. E ne vogliamo ancora | Rolling Stone Italia
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Abbiamo mangiato la pizza Chicago style. E ne vogliamo ancora

In Italia, nulla è sacro come la margherita. Ma anche a Chicago non scherzano, solo che la fanno al contrario. Noi l’abbiamo mangiata a Milano. Il risultato? È tutto tranne che una pizza, e meno male

Pizza-Chicago-Style

Il mondo è abitato da due tipi di persone: quelli che comprano un libro dalla copertina, e chi, prima, lo vorrebbe leggere tutto. Come la maggior parte degli italiani, chi scrive sa di appartenere alla prima categoria: quella di chi si mette nell’angolino, e comincia a borbottare se quando arrivano le lasagne ci vede la sfoglia gialla invece che verde. Quella di chi «eh, ma non è mica un tortellino se è piegato così, ve’!». Perché, al netto di preziosi IGP e via dicendo, italiani hanno un pregio enorme, decisamente sottovalutato: siamo bravissimi a giudicare al primo impatto e con istinto raffinatissimo, da far diventare blu il mago Do Nascimento. Soprattutto, lo facciamo con il cibo. Perché, nel Paese in cui il continuum della pasta ripiena è segmentato per fattori di piegatura e la pizza napoletana ha il cornicione cicciotto e un po’ tronfio, altrimenti non la puoi mica chiamare così, l’aspetto è fondamentale.

Beninteso, alla fine si mangia sempre. Se la suocera ha cannato il tiramisù e ci ha messo i Pavesini invece che i savoiardi, zitto e butta giù (spoiler: è pure buono). C’è un punto, però, su cui siamo particolarmente suscettibili. Uno che vede emigrati e “copioni” mescolarsi senza distinzione all’occhio del purista gastronomico: stiamo parlando della cucina italiana, fatta da quelli che italiani non sono. Parliamo dei famigerati spaghetti meatballs, con le loro polpette annegate in una salsa che è più aglio che pomodoro; di Italian sandwich, inteso come ibrido tra un katsu sando e un panino con pastrami di Williamsburg; ma anche di Chicago style pizza, fatta con (più o meno) gli stessi ingredienti di una margherita, impilati al contrario e chiusi dentro una crosta alta più di cinque centimetri. Come se il fattorino avesse sgasato male in scooter, e quando apri il cartone il ripieno si è mischiato, non si capisce più cos’è, e il pomodoro galleggia sopra lo strato di mozzarella, inglobando il ripieno. Bene, ora la pizza di Chicago è arrivata in Italia, si può mangiare da Hamerica’s in edizione limitata per tutto il mese di marzo, noi l’abbiamo assaggiata in anteprima, e la verità è che – a fare gli schizzinosi – ci perdete voi.

Pizza-Chicago-Style

Come ogni epica che si rispetti (e che coinvolga migranti italiani negli Stati Uniti), la storia della pizza di Chicago o deep dish pizza arriva da molto lontano, e comprende feroci lotte tra clan a colpi di pummarola per aggiudicarsi lo scettro di miglior mappazzone (lo diciamo per quelli che giudicano con le pupille) della città. La prima, più accreditata, teoria è che sia nata nel 1943 alla Pizzera Uno di Chicago, e che il suo creatore sia stato il titolare del locale, l’americano Ike Sewell (alcuni dicono, insieme al suo socio italo-americano Ric Riccardo). Altri, però, tramandano una versione diversa. Nel 1956, un articolo del Chicago Daily News rivelò che, apparentemente, la ricetta originale era stata sviluppata non dalla coppia Sewell-Riccardo, ma dallo chef di allora della Pizzeria Uno, l’italo-americano Rudy Malnati, la cui famiglia aprì un ristorante a nome del capofamiglia (oggi, Lou Malnati’s). C’è di più: nello stesso periodo, Michele Mohr del Chicago Tribune affermava che la pizza “a piatto fondo” era in realtà comparsa nel menù di un altro ristorante italo-americano della città, Rosati’s, fin dal 1926, e che la paternità della ricetta fosse dunque da attribuirsi al titolare Saverio Rosati e ai suoi discendenti.

A ogni modo, il risultato non cambia. Come la Chicago style pizza, che non è mai mutata negli anni, ancora preparata come quella prima volta, sia stata nel 1926 o nel 1943: bordi altissimi e friabili fatti d’olio e burro (con buona pace degli impasti a lenta lievitazione e alta digeribilità) e tirati a un’altezza di cinque e più centimetri. Poi, mozzarella, in strato spessissimo, a volte mischiata con formaggio filante. Sopra, la fidanzatina d’America di tutti i ripieni: pepperoni (aka salamino piccante) e salsiccia. Infine, marinara sauce, sugo di pomodoro denso e speziato, con qualche scaglia di Parmigiano, abbrustolito nel forno per una pellicola sottile e croccante. Il tutto cotto dentro a un padellone di ghisa che, etichetta vorrebbe, non viene mai lavato con acqua e sapone, bensì solo ripulito con qualche straccio.

 

 
 
 
 
 
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Non proprio, insomma, qualcosa che ordinereste a Napoli centro. Una crostata quasi, sul modello degli spessi pie anglosassoni. Ed è naturale che, davanti a questa circostanza, le fazioni si dividano. Due nomi su tutti: Anthony Bourdain, che aveva affermato senza mezzi termini che la deep dish pizza fosse un abominio, spezzando il cuore di tutti gli abitanti della Windy City. E Marshall Eriksen (Jason Segel) di How I Met Your Mother, il quale, dal canto suo, non aveva esitato a definirla uno stralcio di Paradiso: «Iniziamo dal primo morso. Oh, fragrante! E c’è la passata… e il sapore del pomodoro e dell’origano così ben accoppiati ti conquistano. Sei innamorato! E poi… arriva lei, e ti prende: la bianca signora, voluttuosa e lasciva. La mozzarella». Ivan Totaro, founder di Hamerica’s, ne è consapevole. E, mentre mi racconta l’avventura della nuova entrata in menù, mi dice che si aspetta ben più di una shitstorm per questa non-pizza. A dover scommettere, la cosa è estremamente probabile.

Ivan continua: «Quest’anno abbiamo deciso di avere un nuovo approccio al nostro menù, e quindi, ogni mese, offriremo uno speciale. Quella della Chicago-style pizza è una sfida a cui tengo molto, è stata uno dei piatti più difficili a cui abbiamo lavorato, c’era sempre qualcosa che non ci soddisfaceva. E adesso che abbiamo trovato la ricetta perfetta mi piacerebbe magari inserirla in menù, vedremo. Speriamo di riuscire a passare il nostro messaggio: che questa non è un’alternativa alla pizza, perché alla fine non lo è. Per noi è un piatto conviviale, una strada per scoprire qualcosa di diverso e concedersi uno sfizio. Le critiche arriveranno, è garantito. Ma questo è quello che siamo: un ristorante di cibo americano».

 

 
 
 
 
 
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Nel mentre arriva la mia pizza, e io mi sento uno di quei presentatori televisivi che deve chiedere silenzio e concentrazione agli spettatori a casa per rendere il momento solenne. Perché qui, signori, siamo davanti a qualcosa di inaudito. Innanzitutto: c’è un contorno di patatine fritte, un grande e deciso punto a favore. Make pizza & patatine great again, avrete il mio voto. Bando alle ciance: afferro forchetta e coltello, batto con circospezione sul bordo. È dorato come un biscotto, intuisco che non riuscirò mai a tagliarlo a fette. Va bene, la mangio con le posate (onta e sconfitta). Affondo al centro: è lava, ha la consistenza di una crema. Mi sbavetto con il sugo, e il formaggio, e tutto quello che tiro su, il piatto gronda e aspirare la mozzarella mi pare questione di ottima creanza. Noto la bottiglia di ketchup di fianco a me e per un attimo è lì, un lampo, mi passa attraverso gli occhi, intingerci la crosta. Ma poi, vabbè, non lo faccio, forse per timidezza. Ci arrivo quasi in fondo. Ivan sorride e dice che, in America, la porzione che non sono riuscita a finire sarebbe un antipasto per uccellini. E io lo so: in fondo sono una mezza calzetta.

Lo ammetto: ne esco malconcia. Però con alcune certezze fondamentali: che le cose si devono addentare, altrimenti poi ti ritrovi in uno di quei video in cui credi di star magnando orecchiette con le e cozze e vien fuori che è latte e biscotti. Quindi, assaggiare sempre, specie le pizze fatte al contrario che non sembrano pizze, prima di giudicare. Poi, che la Chicago style è una bomba. Non credo sostituirà il mio amore incondizionato per la pasta alta, soffice e lievitata, no, credo sia impossibile. Anche se, devo dire, lo schizzo di immergerla nel ketchup mi è rimasto. Potrei ripassare presto, anche perché vorrei approfondire la conoscenza con quella cheesecake che mi salutava dal menù dei dolci.

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