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Trippa for breakfast: i migliori ristoranti di Barcellona dove fare la “colazione con la forchetta”

Dedicato a tutti quelli che saranno al Primavera Sound e abbandoneranno il Parc del Forum alle prime luci dell’alba: ecco dove andare a ‘esmorzar de forquilla’ e abbuffarsi di panini con filetti di manzo, interiora, casseruole con polpette di carne e seppia prima di concedersi il sonno dei giusti

Foto: Kr eats; eatingwithmybestie; aswallowinacage via Instagram

Il vero amore si vede dal mattino. Fare colazione insieme a qualcun altro può essere una fonte di indescrivibile molestia. Qualsiasi dettaglio rischia di infastidirti, da sentire l’altro masticare a ritrovarti ad ascoltare il racconto di un sogno no-sense a proposito del quale non nutri la minima curiosità. Noi stiamo insieme da anni e siamo uniti indissolubilmente dalla passione per il cibo. Ma  la sfida alla quale ci siamo sottoposti è stata un vero banco di prova anche per una coppia rodata come la nostra: andare a fare un tour dei ristoranti che offrono la colazione salata a Barcellona. Esmorzar de forquilla (fare colazione con la forchetta) è quello che si potrebbe paragonare a uno sport estremo. “Che esagerati!” direte voi, mentre assaporate il vostro toast, ignari di cosa significhi uscire ancora col buio un lunedì mattina, sedersi in mezzo a venti catalani di settantacinque anni e ordinare un bel piatto di trippa in salsa di paprika. E tutto questo farlo con il tuo compagno senza rischiare una congestione.

Ma partiamo dall’inizio: noi ci definiamo carnivori d’occasione, oppure vegani non-strict, onnivoro-curiosi, veganish, flexitariani, mangiatori-occasionali-di-prodotti-animali-solo-quando-usciamo. Insomma, in poche parole cerchiamo di limitare il consumo di prodotti animali. Quindi ritrovarsi davanti a uno stufato piccante di orecchie di maiale alle otto di mattina non è solo una sfida alla sveglia, ma un duello etico-gustativo contro il contenuto stesso.

Tommaso non è il tipo che si sveglia con appetito. Così, quando Diego, che chiameremo Lo Chef, in quanto ex capo di Tommaso, lo invita a fare colazione per la prima volta un mercoledì mattina, si immagina il classico caffè e brioche o, proprio al massimo, un bocadillo che ormai ha imparato ad apprezzare. Nel momento in cui Lo Chef gli raccomanda di arrivare per le otto – «altrimenti rischiamo di  non trovare posto» – inizia a sospettare che ci sia qualcosa di anomalo. Se un catalano ti invita fuori devi andare sì o sì, perché potrebbe non capitare mai più: noi siamo pavesi, quindi ci intendiamo perfettamente sul tema.

Lo Chef in un primo momento rimane misterioso, o forse dà tutto per scontato, e Tommaso non chiede perché non vuole fare la figura del novellino con una persona che stima. La Granja Elena è un baretto all’apparenza anomalo, in una zona fuori dal centro e dai circuiti turistici. L’insegna millanta Alta cocina de barrio (alta cucina di quartiere) e tra poco Tommaso confermerà che, come definizione, calza a pennello. Ha una bella terrazza fuori che affaccia su un meno pittoresco stradone e dentro ci sono dei tavolini, un bancone, insomma un tapas bar de toda la vida. Tommaso arriva timoroso, intorno a lui principalmente pensionati, lavoratori con la divisa che si preparano ad affrontare la seconda parte del turno, spazzini, muratori, nessun impavido peregrino. Tutto regolare a parte il profumo inebriante che arriva dalla cucina nella quale puoi buttare un occhio e avvistare un paio di cuochi indaffarati come se fosse mezzogiorno, tra padelle, pentole, friggitrice già a pieno regime, salse e salsine.

Una volta seduti, Lo Chef, candido, prende il menù e propone di iniziare dividendosi un xuxo – cioè una sorta di brioche fritta che straripa di crema che da sola è calorica come una cena di Capodanno. «Mi aspettavo qualcosa di più», pensa Tommaso tra sé. Non sa che lo Chef ha appena iniziato. Per continuare, ordina un panino di calamari fritti con maionese piccante. Ok, va bene, un panino, che sarà mai? Poi, e a quel punto Tommaso inizia a tentennare, un altro bocadillo, ma con pepito de ternera (panino con filetto di manzo). «E», prosegue imperterrito lo Chef, «un bell’uovo poché con il granchio». Tommaso ha gli occhi fuori dalle orbite quando Lo Chef, prima di chiudere il menù con soddisfazione, aggiunge, «ovviamente non puoi non provare la tortilla di baccalà». A quel punto, una bottiglia di cava (uno spumante locale tipo Prosecco) può solo accompagnare.

Quel giorno ricevo un vocale di tre minuti durante il quale Tommaso, su di giri, decanta un’incredibile esperienza culinaria alla quale non posso sottrarmi, ma a proposito della quale non fornisce nessuna indicazione. Mi viene concesso solo un invito, che sembra più una minaccia: colazione. Venerdì. Ore otto. Già di per sé sembra un’esperienza un po’ al limite, comunque accetto la sfida. Ed è così che la mattinata di sabato inizia con una sonora imprecazione al primo squillo di sveglia. Appena apro gli occhi immagino salti tutto, che è impossibile che… e invece trovo Tommaso già pimpante, chihuahua già scesi, caffè in mano.  Mentre mi infilo la felpa sopra al pigiama e valuto seriamente di lasciarlo, Tommaso non fa che ripetere cose come «incredibile questa città, assurdo una roba così mai vista». In qualche modo arriviamo al Can Vilarò.

Da fuori, una bodega classica nella parte del centro pettinata di Barcellona con tavoli in legno arredamento anni ‘70 e, si nota subito, clientela affezionata. Parlano tutti catalano, hanno tutti più di settant’anni, il proprietario siede al centro della sala come il migliore degli anfitrioni e chiacchiera con tutti mentre finisce di fare colazione. Su ogni tavolo troneggia una bottiglia di vino bianco meticolosamente versato in un porron e alle otto e mezza c’è un profumino da leccarsi i baffi. Chi viene a prenderci l’ordinazione è un’elegante signora catalana sulla settantina che accenna un sorriso scettico.

In carta per questa mattina c’è lingua con le fave, trippa e butifarra (una sorta di salsiccia) con i ceci. Pensa di impressionarci, ma Tommaso ormai si sente un pro e ordina tutti e tre, mettendo a tacere i pregiudizi della signora. Spazzoliamo ogni piatto guadagnandosi la stima degli altri clienti, al punto che anche il proprietario viene a conoscerci. Unica nota tiepida, non siamo ancora pronti per il vino e accompagniamo la trippa con il caffellatte, come un tedesco seduto in piazza San Marco che pasteggia a carbonara e cappuccino. Alle nove sono già al computer, un po’ assonnata per l’esattezza, ma l’esperienza ha pizzicato le corde più intime della mia morbosità culinaria. E ora non penso ad altro.

Ora anch’io sono nel tunnel, niente può fermarci. Alle otto di un qualsiasi giorno della settimana siamo comodamente seduti al tavolo di qualche tapas bar, o bodegas, e ordiniamo con nonchalance panini con la tortilla con il pesce, le nostre preferite con seppie, o baccalà, ma anche con i carciofi, e l’olio tartufato. Sempre per rimanere in tema uova, un altro piatto molto comune sono le uova rotte, huevos fritos e cioè all’occhio di bue con l’aggiunta di jamon classico, o foie gras perché qui in Catalunya l’influenza francese si sente, soprattutto nei piatti. Per i più impavidi non mancano mai gli stufati, oltre a quelli già citati anche un ottimo Cap i Pota, letteralmente “testa e piedi”, uno stufato con carne e marcata parte grassa, denso di collagene, fatto appunto con testa e piedi di vitello. Se lo ordini prima delle nove ricevi una coccarda.

Insomma ci diamo dentro, un sabato mattina al Gelida ordiniamo: immancabile trippa, una tortilla di carciofi dalla sensuale cremosità, un bacalao a llauna (un baccalà fritto e poi messo in salsa) e, perché no, un bello stufato di manzo che si rivela il piatto stella della giornata, perfettamente eseguito ma senza fronzoli. La carne si scioglie in bocca e i funghi trombetta aggiungono sapore e consistenza. Una festa per le papille gustative. Beviamo cava a fiumi. Appena torniamo a casa ci mettiamo a letto, felici e ubriachi, non solo di emozioni.

Per finire in bellezza non potevamo farci mancare la mitica Cova Fumada, che a parte essere il ristorante che ha inventato l’iconica bomba di Barcellona (una sorta di polpetta di carne e patate fritta accompagnata da una generosa, quanto mortale, cucchiaiata di maionese all’aglio aji e oli), è anche uno dei pochi che offrono un menu di pesce per gli intrepidi colazionari. Si trova in una graziosa piazzetta alla Barceloneta, a  due passi dal mare. Quindi si deve arrivare presto, e noi viviamo esattamente dall’altra parte della città. I piatti obbligatori sono, oltre alla bomba, qualsiasi mollusco o crostaceo. La cosa migliore? Che quando finisce il pesce fresco, la Cova Fumada chiude e buonanotte al secchio. Se arrivi dopo le nove aspettati una fila infinita. E comunque se arrivi dopo le nove, che colazionaro sei?

Nel frattempo Tommaso consolida l’amicizia con altri catalani, e ora lui e il suo collega e amico Luis si trovano ogni mercoledì alle otto e un quarto a fare la loro riunione alla Bodega Montferry, un localino senza pretese vicino alla stazione ferroviaria di Sants. Lì si sfondano di cazuelas (casseruole in terracotta dove vengono serviti piatti sugosi), le star indiscusse sono una quella con albondigas, le famose polpette di carne e seppia, e l’altra con il fricando’, uno stufato i cui ingredienti principali sono manzo e funghi e una nota dolceamara di mandorle tritate. Per iniziare al meglio la loro giornata lavorativa, però, normalmente si steccano anche uno dei vari  dei boquadillos contundentes (ossia calorici). Uno dei migliori per un giovedì mattina qualunque: bacon, brie e soppressata.

Morale, ‘sta cosa della colazione con la forchetta ci prende la mano, diventiamo dipendenti. Iniziamo a provare tutti i posti come posseduti, svegliandoci sempre prima, per andare sempre più lontano, mangiamo sempre più pesante, digeriamo sempre dopo, sfidiamo il peggior abbiocco post colazione mai esistito, abbandoniamo il cappuccino, ormai accompagniamo i nostri pasti con vino bianco di pessima qualità alle otto di martedì, siamo senza controllo, senza ritegno. Non parliamo d’altro con i nostri amici catalani che ci guardano straniti come se conoscessi un cinese che ci è rimasto sotto con la pizza.

Durante le nostre peregrinazioni, scopriamo un po’ di retroscena: il primo, che la colazione con la forchetta nasce come una tradizione popolare. A mangiare ci andava chi si era svegliato alle quattro e aveva già lavorato tre o quattro ore. Ancora oggi parte integrante della fauna rimangono spazzini, muratori e postini o qualunque lavoratore si svegli presto (cioè non noi), oltre ai pensionati. Pare che durante il franchismo le persone avessero due lavori per mantenersi e attaccassero la mattina presto con il primo e si fermassero a fare colazione tra uno e l’altro. Per questa ragione si tratta di un pasto poco costoso, con ingredienti sostanziosi ma poveri come le parti di scarto del maiale – vedi l’immancabile trippa – e il vino che si versa negli appositi porron perché è talmente infimo che così si evita di sentirne l’odore.

Purtroppo è una tradizione che potrebbe scomparire, ma fino a quando ci saremo noi la manterremo in vita, nonostante non ci svegliamo alle quattro per trasportare sacchi di cemento e quindi tutte le calorie extra di un moderata colazione con la forchetta finiranno ad alimentare la nostra, di trippa. Ci appassioniamo a questa usanza che ci fa sentire ancora più parte di questa città, che ora chiamiamo casa, e della sua ricca cultura gastronomica. Ma in tre settimane prendiamo due chili: la colazione con la forchetta non è per tutti, non puoi improvvisarti catalano da un giorno con l’altro, e dobbiamo darci una regolata, ché ne stiamo facendo un uso spropositato. Il bello delle tradizioni, d’altronde, è che esistono per una ragione. Quindi torniamo a fette biscottate e cappuccino con il latte d’avena, e ci prepariamo per la prossima sfida. In conclusione siamo soddisfatti, a livello personale, che la nostra relazione abbia resistito alle seppie agliate alle otto di mattina, perché se dopo riesci anche solo ad abbracciarti è vero amore, ne puoi essere certo.

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