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Storia breve di Elaine’s, il ristorante-simbolo della scena culturale di New York

Woody Allen tra i clienti fissi, il bagno «a destra dopo Michael Caine», le risse con i paparazzi: citato in film e canzoni, per anni è stato il ritrovo delle star e degli intellettuali della Grande Mela

Foto: Robin Platzer/Twin Images/The LIFE Images Collection/Getty Images

Le note di Rhapsody in Blue di Gershwin si inseguono tra le immagini in bianco e nero di Manatthan. Sembrano delle foto in movimento, un po’ come quelle che ora vanno di moda su Instagram. Una voce fuori campo prova l’attacco di un romanzo, «Capitolo primo: adorava New York, la idolatrava smisuratamente… ah no è meglio, la mitizzava smisuratamente». Le immagini continuano a scorrere. «New York era la sua città. E lo sarebbe sempre stata». La scritta Broadway lampeggia a tutto schermo, i fuochi d’artificio perfettamente accordati con le note della big band che continua a suonare la Rapsodia in Blue, piano piano si spengono con la fine della canzone e le immagini dei grattacieli sfumano nell’insegna di un ristorante: Elaine’s. La macchina da presa ci porta nel locale: un cameriere, con il gesto teatrale dell’avambraccio, spolvera la tovaglia a quadretti e fa accomodare una coppia. L’inquadratura sorprende quattro persone a un tavolo, l’atmosfera è fumosa parlano di arte e talento.

Sono i primi cinque minuti circa di Manhattan di Woody Allen, una poesia dedicata a New York, alla sua vita, alle sue contraddizioni, alle sue storie d’amore e alla sua mitologia. Una poesia in cui non poteva mancare Elaine’s, il ristorante dell’Upper East Side che negli anni ha ospitato grandi scrittori, registi, attori, musicisti newyorkesi: ovviamente Woody Allen e con lui Norman Mailer, Tom Wolfe, Carrie Fisher, Richard Dreyfuss, Liv Ullmann, Jackie Kennedy Onassis, Hunter S. Thompson, Jack Nicholson, Kurt Vonnegut. Qui, come scriveva il New York Times, parte del gioco è anche far finta di nulla se si è seduti vicino a qualche divo, «questa era New York, dopotutto» e poteva capitare che chiedendo dove fosse il bagno ti venisse risposto: «gira a destra dopo Michael Caine». Un gioco che però aveva delle eccezioni, come quando tutto il locale si ammutolì all’ingresso di Mick Jagger o si alzò in piedi ad applaudire Luciano Pavarotti.

Quella S alla fine del nome, come gli chez francesi o i da italiani, a emancipare chi gestisce il locale al di sopra di ogni arredo e ogni menù. Elaine Kaufman, la proprietaria di Elaine’s, viene definita da John Eilpern in un’intervista su Vanity Fair del 2009, «la quintessenza del newyorkese e del saloonkeeper», “dell’oste” diremmo noi.

Nasce il 10 febbraio 1929, si diploma in una high school del Bronx e svolge i lavori più disparati finché non conosce Alfredo Viazzi. Alfredo arriva negli Stati Uniti da Savona, nel 1946, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale durante la quale ha combattuto come partigiano, un’esperienza che racconta nel romanzo The Cruel Dawn. Nel 1957 al Greenwich Village apre Portofino, un ristorante italiano dove il lunedì mette anche in scena spettacoli teatrali. Due anni dopo, conosciuta Elaine, i due uniscono le forze. Portofino viene frequentato da scrittori e poeti scapestrati e squattrinati, per tutti c’è un piatto caldo e un conto aperto.

Quattro anni dopo la storia d’amore finisce e così l’esperienza di Elaine da Portofino: prende le sue pentole e le sue padelle e decide di aprire il suo ristorante. L’Upper East Side del 1963 non è ancora quell’Upper East Side, ma Elaine non può permettersi un locale al Greenwich, così con un socio – per 10.000 o 12.000 dollari – acquista un ristorante austro-ungarico in una zona del quartiere che, parole sue, «era la Siberia». Otto anni dopo sarà l’unica proprietaria. Il locale è subito frequentato da scrittori come Gay Talese, George Plimpton e Peter Maas. Poi arrivano gli editor e, in una sorta di videogioco a livelli, personalità del teatro, del cinema e della tv che portano con sé le star dello sport, della musica e della politica.

La divisione dei tavoli è castale: lungo the line, la linea dei coperti accanto alla parete destra, si siedono gli habituè, in Siberia chi non va a genio a Elanie e finisce sul retro. Da Elaine’s si mangia italiano ma fughiamo ogni dubbio: non si mangia bene. A detta di Woody Allen nella sua biografia A proposito di niente «I tortellini erano una delle poche cose mangiabili che offriva Elaine’s, sempre che non si pretendesse che sapessero di qualcosa». Chi frequenta il ristorante d’altronde non va lì per la cucina, ma per vivere la scena culturale di New York e scovare qualche faccia conosciuta. Neanche l’arredo è particolarmente ricercato, ma composto da mobili e suppellettili scovati nei rigattieri. «È decorato come un’auto rubata» è il commento del comico Alan King.

Elaine è molto protettiva con la sua masnada di artisti, tanto da diventare il terrore dei paparazzi come plasticamente raccontato dall’Intelligencer: Ron Galella negli anni Settanta è il principe dei paparazzi. È un tipo che difficilmente si fa intimorire e il suo curriculum parla per lui: Marlon Brando gli ha spaccato la mascella con un pugno e Sean Penn gli ha sputato in faccia. Nel giugno del 1978 è fuori da Elaine’s a fotografare tutte le celebrità che varcano la porta. La signora Kaufman, stufa della situazione e pronta a difendere la sua clientela, esce dal ristorante e gli tira il coperchio di un secchio dell’immondizia a mo di lancio del disco. Non lo colpisce, ma viene immortalata in una delle sue foto più iconiche.

Foto: Ron Galella/Ron Galella Collection via Getty Images

Foto, film, canzoni – Big Shot di Billy Joel è ambientata qui – e soprattutto i racconti di chi ha vissuto, mangiato e bevuto, negli anni hanno costruito una leggenda in cui Elaine e l’Elaine’s diventano una cosa sola, metafora unta e frizzante del mito di New York. Una simbiosi tra proprietario e locale talmente forte che alla morte della signora Kaufmann nel 2010, il ristorante ha resistito solo pochi mesi.

Foto: Ron Galella/Ron Galella Collection via Getty Images

Nella scena finale di un altro capolavoro di Woody Allen, sempre con New York sullo sfondo, il protagonista, interpretato ovviamente dal regista, racconta la storia di un pazzo che va dallo psichiatra dicendo che il fratello pensa di essere una gallina. Quando il medico gli dice di farlo internare lui risponde «e poi a me le uova chi me le fa». Per Allen questa barzelletta diventa la metafora dei rapporti tra uomini e donne, «assolutamente irrazionali e pazzi e assurdi, ma che continuano perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova». Un po’ come le uova di cui avevano bisogno i clienti di Elanie’s.

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