Scent of a restaurant: e se gli odori che sentiamo al ristorante fossero studiati a tavolino? | Rolling Stone Italia
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Scent of a restaurant: e se gli odori che sentiamo al ristorante fossero studiati a tavolino?

Si chiama marketing olfattivo, e studia le profumazioni adatte a ogni genere di spazio di vendita, locali inclusi. Al limite dell'inganno: meglio un odore reale, che magari ti si attacca agli abiti ma è sintomo di cucina verace, o una fragranza sintetica che simuli un’anima, in contesti che un’anima non ce l’hanno?

Scent of a restaurant: e se gli odori che sentiamo al ristorante fossero studiati a tavolino?

Foto: Disney+

È capitato almeno una volta a chiunque, con fastidio annesso: cenare in una steak house o in una friggitoria, e relativo olezzo. Con la certezza che, una volta a casa, dovrai infilarti in lavatrice insieme ai vestiti. Ma anche – sebbene più rara – la piacevole sorpresa di entrare in locali con odori invitanti, capaci di scatenare l’acquolina, aumentare la salivazione, farti venire voglia di assaggiare qualunque cibo stia sprigionando quel profumino invitante.

Se nel primo esempio potremmo imputare il fenomeno a una certa sciatteria dei gestori, nel secondo spesso si tratta di un mix tra casualità e buone pratiche ai fornelli. Basta che il cuoco grigli senza bruciare, o frigga cambiando spesso l’olio, ed ecco che, come per magia, dal pass si spandono effluvi così efficaci, nel catturare l’immaginario degli avventori, da essere oggetto di strategie di vendita elaborate da consulenti e aziende specializzate.

È il cosiddetto scent marketing, il marketing olfattivo, che studia le profumazioni adatte a ogni genere di spazio di vendita e, più nel dettaglio, ai singoli ambienti che quello spazio compongono e ai diversi momenti dell’esperienza del cliente. Così, parlando di ristoranti, la disciplina ragiona sulla sala ma anche sulle toilette. Stabilisce quali aromi far “filtrare” dalla cucina e quali mascherare e come accompagnare l’ospite, dall’ingresso alla fine del pasto, seducendo il naso oltre – o prima ancora – che il palato.

Grant Achatz, chef molecolare pluripremiato di Chicago (Alinea e Next le sue insegne più famose), deve la sua notorietà anche a espedienti come i “cuscini” gonfi di aria di noce moscata, usati nel servizio delle entrée e forati al tavolo per rilasciare il profumo dolce e speziato dell’esotico seme. «L’aroma è onnipresente in tutti i nostri ristoranti tanto da essere considerato un ingrediente di prima classe. Raramente costruiamo un piatto senza considerarne il ruolo», ha affermato Allen Hemberger, responsabile comunicazione per The Alinea Group, in un’intervista di qualche anno fa al sito americano Restaurant Hospitality.

 

 
 
 
 
 
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Negli States i produttori di profumatori per ambienti hanno rivolto da tempo la loro attenzione al mondo della ristorazione. Secondo una ricerca realizzata da una di queste aziende, la ScentAir di Charlotte (North Carolina), azzeccare la giusta fragranza, oltre a funzionare da “butta dentro”, aumenta il gradimento del cibo. «Se da lontano è lo stimolo visivo che richiama l’attenzione delle persone, da vicino è quello olfattivo che contribuisce a far decidere un cliente esitante», ha scritto Giovanni Ballarini, docente universitario e membro storico dell’Accademia Italiana della Cucina, in un articolo sul sito dell’Accademia dei Georgofili. «L’olfatto è un senso primitivo – ha proseguito Ballarini – I recettori di odori inviano segnali al sistema limbico del cervello dove si generano sensazioni di piacere, suscitando ricordi più persistenti di quelli visivi. Dopo sei mesi solo un quarto della gente ricorda un’immagine, mentre i quattro quinti ricordano un aroma».

Sono passati diversi anni ma ancora mi torna in mente quella volta che, entrando in un ristorante crudista, sono stata avvolta da una fragranza fresca, verde, viva. Chef e brigata stavano approntando la linea affettando, tritando, macinando, frullando, centrifugando. Tutto facevano fuorché cuocere, dato che per definizione il crudismo non ammette che gli alimenti – esclusivamente vegetali – siano sottoposti a temperature superiori ai 42°. Niente vapori, niente fumi, solo ortaggi e frutta a invadere l’ambiente. Ci sarei tornata volentieri, a risentire quei profumi. Peccato abbia chiuso.

Forse senza saperlo, i proprietari del ristorante raw avevano in mano un’arma preziosa del cosiddetto neuromarketing, l’insieme di tecniche di vendita che punta a stimolare i sensi. Secondo questa disciplina, il profilo olfattivo può diventare marchio di fabbrica. Una case history in tal senso è quella di Cinnabon, catena statunitense che ha basato la sua fortuna sui rolls alla cannella. Nei punti vendita, i forni sono aperti sui locali, piuttosto che chiusi nei laboratori, e mantenuti in funzione giorno e notte, così da diffondere aroma di zucchero e cannella fino in strada e attirare all’interno i clienti. Ai quali basta annusare l’aria per capire dove si trovano: riconoscono il brand.

 

 
 
 
 
 
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Qualcosa di simile è stato studiato da Pan’, bakery giapponese di recentissima apertura, a Milano. Qui, i soci Yoji Tokuyoshi e Alice Yamada hanno deciso che il forno doveva stare all’ingresso del locale, accanto al banco di vendita. Nulla di nuovo, dirai: è da sempre che non sappiamo resistere passando davanti ai fornai, tappa irrinunciabile – anche notturna – nel nostro vissuto.

Certo, con pane, pizza e dolci si vince facile: deliziosi di per sé, se “sfuggono” più o meno volontariamente da forni e laboratori sono un acchiappaclienti formidabile. Entrando da Vuolo, pizzeria napoletana verace a Verona, si viene dapprima investiti dall’aroma delicato della pasta lievitata e dei pomodori, subito seguito da quello robusto della legna che arde, e non vedi l’ora di avere tra le mani una fetta delle sue celebri marinare.

 

 
 
 
 
 
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Resta una sfida gestire gli odori più pungenti: dai soffritti al pesce, dalle frattaglie alle cipolle. Che, al contrario, sarebbe meglio restassero dove sono, ovvero in cucina. Gli odori respingenti sono un grosso problema specie nelle sempre più numerose cucine a vista, letteralmente aperte sulla sala. In questo caso, si potrebbe dire che la qualità dell’aria è la prima e più importante sfida da affrontare per chi progetta gli spazi destinati alla preparazione del cibo.

«Quello degli odori che si formano in una cucina è un tema centrale, che ha a che fare con il comfort degli operatori e con quello dei clienti», conferma Cosimo Palmisano di Icaro Milano, azienda che progetta e realizza cucine professionali. «Richiede investimenti importanti già in una cucina chiusa, e in quelle a vista si alza l’asticella a livello di complessità». La soluzione è in un gioco di equilibrismi tra pressioni diverse (semplificando, bassa nella zona cottura, alta in sala), oltre a una canna fumaria efficiente. Tutto si fa per uno scopo: parafrasando la celebre regola del Fight Club, trattenere in cucina quello che accade in cucina.

Tra gli ultimi progetti realizzati da Icaro, oltre al già citato Pan’, c’è Verso, il ristorante dei fratelli Mario e Remo Capitaneo in piazza del Duomo a Milano. Qui la cucina è – letteralmente – nella sala, gli ospiti seduti in faccia al bancone davanti ai cuochi, forni e fornelli subito alle loro spalle. La formula è estrema, il design e gli arredi ricercati di conseguenza. Ma l’impostazione dell’intero spazio, per Palmisano, non è partita dall’idea degli chef, né dagli spunti degli arredatori, bensì dall’impianto di areazione.

 

 
 
 
 
 
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Sta poi ai cuochi stessi ragionare su quali e quanti odori portare sul bancone per farli arrivare ai commensali: «Con la preparazione e la finitura direttamente sul tavolo, alcuni aromi iniziano a ingolosire già prima che il piatto sia finito», racconta Mario Capitaneo. Nella vita privata, è grande esperto di profumeria, in particolare di essenze “animalier”, intense e persistenti. Naturalmente non indossate in orario di lavoro: «Il profumo forte, quale che sia, può danneggiare il piatto», dice. La sua passione si riflette nella concezione del locale e finanche sul servizio: al momento del dolce, da Verso viene cambiato il tovagliolo con uno nuovo che, a seconda delle stagione, è leggermente aromatizzato: con un essenza di fave di cacao in inverno, di violetta e rosa in primavera e di agrumi in estate. Per definire uno stacco tra il pasto e il dessert.

Anche queste piccole attenzioni possono completare l’esperienza a tavola. Da Autem, altra nuova insegna milanese, il patron Luca Natalini fa cadere una goccia di crema alle erbe aromatiche sul dorso delle mani dei commensali. Un modo per predisporre all’assaggio dei suoi menu carte blanche «dove sono gli ingredienti a dettare le regole». Perfettamente coerente il suo signature dish: uno spaghetto in bianco fin pallido alla vista, ma che colpisce per l’aroma deciso del brodo di alloro bruciato e quello dolce del vermouth alle prugne e del burro di Normandia, che aleggia lieve già sul marciapiede, prima ancora di varcare la soglia del ristorante.

 

 
 
 
 
 
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«Tutti i profumi in cucina sono buoni se ben gestiti per non annoiare l’olfatto – osserva ancora Capitaneo – Siamo noi che decidiamo quali far percepire: la tostatura di un’ostrica cotta sui carboni può essere molto seducente». È in cerca di sensazioni forti – anche – olfattive che i gourmand prenotano, nei ristoranti che lo prevedono, lo chef’s table, l’ambito tavolo in cucina. Se è davvero (come dovrebbe per definizione) apparecchiato tra le postazioni dei cuochi, non c’è modo di tenere il commensale lontano dai vapori odorosi. Sebbene, come osserva Palmisano, facciano essi stessi parte dell’esperienza a 360° che l’appassionato si aspetta di provare. Se non ci fossero, si perderebbe qualcosa.

Nel suo vecchio ristorante meneghino in via Victor Hugo, il tavolo dello chef di Carlo Cracco era chiuso in una sorta di cabina trasparente: potevi guardare fuori, sbirciare a tuo piacimento il lavoro di chef de partie e commis, ma senza odori risultava tutto un po’ asettico, come guardare un film o un programma di cucina in tv. In nome di un’esperienza immersiva, ci sono locali che nemmeno ci provano a mascherare la loro robusta identità olfattiva. Degli hot pot, i ristoranti cinesi dove al centro del tavolo troneggia una “vasca” di brodo fumante, più che il sapore del cibo (spesso roba surgelata), restano impressi – pure sugli abiti – gli effluvi di aglio, cipollotto, sesamo, coriandolo che si sprigionano dai pentoloni. Così anche nei teppanyaki giapponesi, dove si cena intorno alle piastre su cui sfrigolano carne e ortaggi, a seconda delle formule grigliati da uno chef o dagli stessi commensali.

Fuori da un minimarket dalle parti di via Padova, a Milano, c’è un avviso: «L’odore che si sente simile al gas non è gas ma è il durian, tipico frutto thailandese», così penetrante che si può paragonare alla puzza che esce dai cassonetti o a quella del cestino dell’umido dimenticato al sole in estate. Eppure, c’è chi lo apprezza ed entra apposta per comprarlo. Al netto di questi casi limite, i posti dove si smerciano cibi normali, con cotture consuete, possono favorevolmente catturare l’attenzione dei clienti grazie a fragranze ad hoc studiate a tavolino dalle aziende del settore.

 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Nish | Food & Travel Recs (@foodie_nishi)

I Profumatori, società laziale con sedi da Milano alla Puglia, in Svizzera e a Belgrado, promette a ristoratori e barman di stimolare l’appetito e la voglia di bere dei clienti e accendere una “atmosfera di eccitazione e spensieratezza” con essenze per ambienti dai nomi suggestivi: Barbecue, “il mix affumicato di spezie che ricorda serate estive”, Pizza al salame, “fresco e gratinato, è così che amiamo il profumo della pizza”, Caffè, “un profumo che risveglia i sensi”, Rosso divino, “un nettare dal gusto pregiato di uva e frutti di bosco, che sfuma in accenti di vaniglia”.

C’è solo da domandarsi se, alla fine, siamo d’accordo nel sottoporci a questa sorta di inganno olfattivo. Per i gestori, sarebbe sempre meglio fare di tutto per evitare al cliente sensazioni sgradevoli, offrendo il loro opposto. Ma è meglio un odore reale, che magari ti si attacca agli abiti ma è sintomo di cucina verace, o una fragranza sintetica che simuli un’anima, in contesti che un’anima non ce l’hanno?