New York è piena di topi gourmand, e quest’invasione parla (anche) di noi | Rolling Stone Italia
Ratatouille scansate

New York è piena di topi gourmand, e quest’invasione parla (anche) di noi

Sono loro il simbolo dell'Earth Day: ben pasciuti grazie a tutto il cibo buttato, complice il riscaldamento globale si riproducono a ritmi esponenziali. La Grande Mela è una clinica di fertilità per roditori, tanto da costringere il sindaco a nominare una “zarina” per sbarazzarsene: peccato che quelli che dovrebbero cambiare siamo noi

New York è piena di topi gourmand, e quest’invasione parla (anche) di noi

Foto: Lokman Vural Elibol/Anadolu Agency via Getty Images

La critica ecologista, ormai, non ci vede più. Fomentati dal vero spettro condiviso del ventunesimo secolo – la distruzione di tutto ciò che conosciamo per mano, in buona parte, nostra – ogni scusa è buona per ricordarci, attraverso prodotti culturali e di intrattenimento, quanto abbiamo fottuto il pianeta (o al contrario cavarceli fuori da qualsiasi cosa, questi significati). Mettiamo le mani avanti: meno male che ce ne sono, di quelli che speculano. Il pensiero e la filosofia partono proprio da qui. Ed è indubbio che leggere The Last of Us come racconto morale di come sarebbe meglio evitare di creare le condizioni perfette per la proliferazione di un fungo impazzito ha un suo senso filologico. Le storie, e le metafore, servono proprio a questo: capire il mondo, e noi stessi, con parole diverse. Il rischio di questo volare alto, però, è perdere di vista quello che sta – effettivamente – sulla terra, e il punto del percorso a cui siamo arrivati. Per esempio: se New York è presa d’assalto da una marea incontrollata di topi, ecco, forse è quello il nostro problema. La Grande Mela è sotto assedio (nel 2022, gli avvistamenti di topi sono stati il 60% in più del periodo pre-pandemico), e ora è stata persino eletta una “zarina” per sbarazzarsene.

Il suo nome è Kathleen Corradi, ex-insegnante con esperienza nel “rodent management”, che è un po’ come dire che a Gotham, invece di Joker, Pinguini e affiliati, Batman dovrebbe stare a spazzare via roditori. Riportandolo su sistemi di riferimento a noi più familiari, possiamo leggere il ruolo di Corradi come quello di un commissario speciale. La sua missione: contenere la proliferazione dei topi e assicurarsi che non comportino rischi per la salute della popolazione (i topi, anche se non di fogna, per igiene sono piccioni senza ali). Dico “contenere” e non “debellare”. Perché New York ha sempre avuto una concentrazione decisamente elevata di roditori grigi, pelosetti e con la coda un po’ schifida. Il video virale di Pizza Rat, un topo che “si porta a casa” una fetta di pizza in metropolitana è del 2016. Nel 2014, riporta l’Atlantic, la popolazione di topi newyorchese toccava i due milioni di individui. Nel 1950, quel numero era 250.000, il che vuol dire che, in sessantacinque anni, il boom è stato esponenziale: 800%. Un fatto singolare per due ragioni. La prima è che, al principio, il Rattus norvegicus – nome comune brown rat (ratto grigio, va’ a sapere perché i colori non debbano tradursi direttamente), nome ancora più comune, “topo” – in America non ci doveva proprio stare.

New York City rat taking pizza home on the subway (Pizza Rat™)

La storia del topo grigio è, innanzitutto, una di grandi migrazioni. In questo senso il suo nome ufficiale, norvegicus, trae in inganno. Secondo uno studio rielaborato dal New York Times, infatti, questo genere di topi sarebbe originario di una zona tra Cina e Mongolia, dove, lentamente, si abituò a diventare compagno più o meno benvoluto degli esseri umani. In fondo, non è più comodo rubare il cibo al contadino che andarselo a sgranocchiare con difficoltà in aperta campagna? Da lì, i topi hanno sempre seguito la pista che dettava la pancia, imbarcandosi clandestinamente sui convogli mercantili della Via della Seta, sui vascelli degli esploratori dei sette mari e sulle navi transatlantiche. Finendo per riprodursi senza controllo, diventando infestanti al pari, per esempio, delle nutrie o dei gamberi della Louisiana che, pur non autoctoni, colonizzano ormai i nostri corsi d’acqua e creano non pochi problemi per l’ecosistema autoctono.

Il resto è Storia, ma anche pregiudizio. Per esempio: gli studi più recenti condotti a proposito della peste bubbonica suggeriscono che non siano forse stati i topi il principale vettore di diffusione, bensì pulci e pidocchi, che tra 1300 e 1700 abbondavano sulla pelle delle persone. Ciò detto, non bisogna nemmeno paracadutarsi sul versante opposto, e pensare che nascondere un topo sotto il proprio cappello di chef (come in Ratatouille) sia consigliabile. La verità sta nel mezzo: forse i topi non hanno causato una delle pandemie più mortali della storia dell’umanità, ma riescono comunque a inquinare e contaminare a suon di escrementi le dispense (o, francamente, ogni luogo, intercapedini dei muri comprese) in cui si intrufolano. E infatti, sempre l’Atlantic riporta un deciso aumento nei casi di leptospirosi, una delle principali malattie veicolate dai topi, prima una febbre e poi, nei casi più gravi, una meningite. Il che non è esattamente uno scenario ideale.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da The Atlantic (@theatlantic)

La seconda ragione per cui questa proliferazione di roditori appare fuori controllo è che, di natura, il topo ha una vita piuttosto breve. Ancora l’Atlantic: «il topo Tom potrebbe essere stato tirato sotto, il topo Rosco potrebbe esser passato a miglior vita sgranocchiando un cavo elettrico, il topo Calvin potrebbe aver ingerito del veleno». Ma nulla importa finché, al loro posto, rimarranno topine incinta, pronte a sfornare pargoli. Alla fine, la natura ha un solo comandamento: perpetuare la specie, a qualsiasi costo: a questo scopo, i topi intrattengono relazioni sessuali anche venti volte al giorno. Howdy!

Diciamo che, però, il sistema di natura avrebbe pensato anche a questo, imponendo un controllo nascite forzato pure ai roditori. È il sistema più antico del mondo, e si chiama “d’inverno fa freddo, d’estate fa caldo”. Per quanto i topi non vadano in letargo, riprodursi con il freddo vivendo in tunnel e anfratti non è, per loro, consigliabile. Ma, complice il riscaldamento globale, New York sembra ormai una clinica di fertilità per roditori. Nella Grande Mela, questo è stato il secondo inverno più caldo di sempre. E che festa per i topi, che tra sex party e primo nemico naturale (il freddo) debellato si riproducono a ritmi esponenziali.

No, insomma: un veleno ben assestato non basterebbe per liberarsene. Per mettere meglio a fuoco la situazione è utile partire dalle storie di chi, in città, si è trovato a dover sfangare un incontro ravvicinato con questi esserini pestiferi e burloni (sempre dal New York Times). Racconti al sapore di leggenda, o che ricordano il compagno di classe che, alle superiori, torna dallo scambio in Australia e ti dice che si trovava i ragni-padella nel letto. Si comincia da quelli più soft, un incontro fugace sul marciapiede, quasi romantico, il topo che si esibisce in corsa in una piroetta un po’ irruenta sulla tua gamba e se la torna a battere nei suoi cunicoli. A un livello di macabro sopra troviamo bambini che investono ratti peraltro già stecchiti con le ruote dei loro zainetti-carrellino. O automobili da mandare in riparazione perché un topo ha sgranocchiato tutto lo strato isolante dei fili conduttori attorno al motore, fatti di soia e ottimo aperitivo per i piccoli roditori.

L’orrore vero comincia con un malcapitato sprofondato in un buco nella strada, pieno zeppo di topi. Per poi raggiungere il suo climax con i toilet rats, topi che sbucano dallo scarico del gabinetto meglio che sommozzatori alla Fossa delle Marianne. Aneddoto degno di nota: uno dei testimoni dei toilet rats ha combattuto il nemico chiudendo poderosamente il coperchio del water e ficcandoci sopra il peso più grosso che aveva a portata di mano: l’autobiografia di George Orwell. La cultura aiuta, sempre. Insomma, sembra che la zarina troverà pane per i suoi denti. Ora, però, è il momento di sollevare il velo della “metafora”, sbirciare al di sotto e capire che cosa ci stia dicendo il caso dei topi impazziti di New York. Perché, come annota Bethany Brookshire in un articolo su Slate, «non è sufficiente mettersi solo ad ammazzare i topi. Bisogna cambiare le persone».

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Margalit Cutler (@margalitties)

La vicenda dei topi di New York si sviluppa infatti sia dal riscaldamento globale, ma anche da un secondo, grande non detto. Sotto la vetrina dello scandalo e delle giuste preoccupazioni per i potenziali rischi igienici sta, ancora una volta, un problema sistemico e profondo. Come già ribadito, la migrazione dei topi dalle steppe asiatiche è cominciata per questioni di cibo. E, ancora oggi, i topi si raggrumano attorno a fonti di nutrimento facili. Quale invito a nozze migliore di una metropoli abitata da otto milioni e passa di persone, piena zeppa di ristoranti chioschetti fast-food diner deli che dir si voglia, in un Paese in cui la porzione media supera di gran lunga le ragionevoli potenzialità dello stomaco umano? Insomma, se i topi stanno dove sta il cibo, è probabile che ci siano parecchie grane nel modo in cui la società tratta e smaltisce i suoi rifiuti.

Intervistato da Xochitl Gonzalez per il pezzo dell’Atlantic, il rodentologo Robert Corrigan ha spiegato che i sacchetti della spazzatura di plastica, contenenti «dagli escrementi di cane ai pranzi mezzomangiati» sono uno dei principali fattori di attrazione. Senza contare i giganteschi sacchi di rifiuti misti che i ristoranti scodellano sul marciapiede ogni notte. I denti dei topi sono rinforzati con molto ferro, e potrebbero, potenzialmente, bucare anche il cemento. Figurarsi se si perdono un ghiotto banchetto chiuso in semplice, morbida plastica.

Allo stesso tempo non ci si può esimere dal ribaltare il ragionamento, e domandarsi se non ci sia qualcosa di sbagliato nel modo in cui, innanzitutto, produciamo i nostri rifiuti. Se non siano troppi, e che quel “troppo” non abbia a che fare con il modo in cui siamo abituati a trattare il cibo: come un’ovvietà, un’onnipresenza (se lo butti ne trovi dell’altro) e, insieme, come grumo concettuale attorno a cui esercitare il nostro diritto alla sopravvivenza e alla prevaricazione (anche se ho tanto cibo, ne vorrò sempre di più; se posso avere una porzione più grande, allora la voglia immensa). Spoiler: andiamo incontro a un futuro che non promette grandi scorte di cibo per tutti; e che, anzi, potrebbe davvero portarci a litigare per decidere a chi andrà quell’ultima fetta di pizza, quella che, nel 2016, sarebbe finita a Pizza Rat.

In conclusione, le metafore sono molto belle; The Last of Us è una serie (e prima ancora un videogioco) meravigliosa, distopica e iperbolica; la critica ecologista dice cose stupende, che mi arricchiscono ogni giorno. “Tutto bello”, come dice chi bazzica Milano e c’ha il cinismo iniettato in vena. Tutto bello, ma forse dovremmo ricordarci che, oltre alla poesia, esiste una realtà. Fatta di fisico, odori, pianeti che vanno a scatafascio, denti di topi che sgranocchiano nel buio e che, dalla soffitta, ti tengono sveglio la notte. Che ci parla ad alta voce, sempre, e che ci indica la strada per salvarci prima di far evolvere malamente il Cordyceps (o un ratto iper-sessuale e iper-sazio). Fosse anche attraverso una fetta di pizza che un roditore si porta dietro in un divertentissimo video su YouTube.