Inno alla noia | Rolling Stone Italia
(Not so) quiet luxury

Inno alla noia

Prendi una donna terrorizzata dall’ozio e dal non fare nulla, e portala in un hotel a cinque stelle categoria lusso dov’è costretta a oziare e a non fare nulla. Cronaca semiseria di trentasei ore trascorse ciondolando nel relax (senza manco il conforto di un vibratore)

Inno alla noia

Foto: Il Sereno

Tra le cose che mi terrorizzano di più: i ratti. I clown. Annoiarmi. Il mio perenne “voler fare qualcosa” cozza spesso con l’intento altrui di rilassarsi e, al contrario, non voler fare proprio niente. Io quel niente non lo riesco a riempire, mi frustra, mi ansia, m’infastidisce. Negli anni ho fatto scadere un numero indefinito di pacchetti che mi erano stati regalati per centri benessere, terme, massaggi, hammam e affini; il weekend in una Spa è il mio personale sabato pomeriggio all’Ikea – e comunque, tra i due, sceglierei sempre il secondo.

Quando ho raccontato a un’amica che m’avevano invitata a soggiornare al Sereno («Il più lussuoso hotel sul Lago di Como» secondo Bloomberg), il nostro scambio di battute è stato piuttosto eloquente: «Mi raccomando, portati il vibratore». «No, credo sia meglio lo Xanax». Il che può suonare (nemmeno troppo) vagamente da stronza, ma se mi dici “lago” penso prima alla noia e poi alla morte, il che non mi mette propriamente nello stato d’animo ideale per godere di lusso, attenzioni e nullafacenza alla modica cifra di (minimo) tremila euro e rotti a notte in bassa stagione.

Foto: Il Sereno

Forse la percezione sarebbe stata diversa se il mio accompagnatore fosse stato un uomo – nella fattispecie, uno con cui sei nel magico momento dello stato nascente d’una relazione e non ti levi mai le mani di dosso – ma le circostanze vogliono che il +1 in questione sia un’altra cara amica, ben felice di reggere il moccolo tra me e la mia inquietudine per trentasei ore. In macchina consulto in maniera compulsiva le previsioni del meteo e il verdetto è inappellabile: sabato sarà nuvoloso, e a una certa pioverà. Glielo comunico, lei è di una tranquillità al limite del molesto, e a ogni mio lamento contrappone la frase che per me suona come una condanna: «Tanto andiamo per rilassarci».

Non appena spegniamo il motore e consegniamo le chiavi al concierge – che parcheggerà e laverà l’auto –, nella breve passeggiata che ci porta verso la reception decido di utilizzare la tecnica di Hugh Grant in About a Boy: pianificare le mie attività dividendo la giornata in unità di tempo della durata di non più di quindici minuti (trenta mi pare esageratamente ottimistico), con lo scopo di arrivare più o meno indenne alla cena presso il ristorante stellato interno all’hotel. Aperta parentesi di serietà: il posto è, senza se e senza ma, meraviglioso. Progettato dalla pluripremiata designer Patricia Urquiola, rappresenta la perfetta incarnazione – a livello di spazi, di arredi, di clientela – di quella quiet luxury di cui si discorre ultimamente, dal processo a Gwyneth Paltrow passando per l’ultima (ahimè) stagione di Succession in poi.

Foto: Il Sereno

Leggi, echi minimalisti che s’incastrano con l’estetica perpetrata dall’archetipo dell’old money: il lusso non urlato e non pacchiano di chi coi soldi ci è nato e non deve esibire ori e loghi, uno status assai più esclusivo da raggiungere proprio perché silenzioso e non ostentato sfacciatamente. L’atmosfera, insomma, è la più classica IYKYK (if you know, you know), e mentre attraversiamo la hall e veniamo scortate verso la nostra Grand Suite Lago mi stringo nell’investimento più quiet luxury di quest’anno, il cashemerino che ti fa le quattro stagioni e che se appartieni al club di cui sopra lo sai soltanto guardandolo di sfuggita, che nessuna poliammide è stata immolata sull’altare della produzione.

La prima ora di permanenza viene equamente scomposta in quattro frazioni di quindici minuti: tour della camera (più grande delle nostre rispettive case, ma ci vuol poco); apertura della parecchio apprezzata bottiglia di Bollinger che troviamo in fresco con annessa breve euforia; dimostrazione di quanto la sottoscritta sia maldestra (anziché azionare lo sciacquone premo un pulsante che si rivela essere il potentissimo getto del bidet: mi lavo io, si lava il bagno, attimo di ilarità); aperitivo in terrazza. Avanti veloce: rapido giro a Torno; tentativo di ordinare un toast all’unico bar aperto in paese; stizza di fronte alle pizze surgelate servite agli avventori; ritirata nella nostra oasi di pace e ripiego sul room service per un pranzo tardivo a base di club sandwich, patatine fritte e champagne. Guardo l’orologio: le tre e mezza. Comincia a piovere. La mia amica prenota la Spa a uso privato alle sei e mezza. La cena è alle otto. Davanti a noi, il nulla cosmico: lei non pare affatto turbata, io inizio a dare segni di cedimento psichico. Mettiamo su un film che non guardiamo e c’imbustiamo nel letto gigante, soffice e pieno di cuscini. Stacco.

Foto: Nicolò Brunelli

Credo che all’inferno esista un girone speciale per le persone che, come me, resistono due minuti in una sauna, tre in un bagno turco, a cui l’idromassaggio fa prurito ovunque e che bramano un bagno caldo pieno di bolle salvo poi lamentarsi della pelle che diventa una prugna secca in trenta secondi. Morale: tra una frustrazione e l’altra arriva l’agognato momento della cena. Al Ristorante Il Sereno Al Lago capitanato dallo Chef Raffaele Lenzi, una stella Michelin, siamo le uniche italiane. Intorno a noi, gruppi e coppie di spagnoli, svedesi, russi, americani, a conferma del fatto che il Lago di Como per gli stranieri è ancora tappa obbligata di un grand tour che include diverse località, in ognuna delle quali è normale godere del lusso senza voler o dover essere visti. Non si viene qui per vantarsi di essere stati qui: ci si viene semplicemente perché si può. Non si tratta di un investimento, di un regalo, di uno strappo alla regola o di una follia legata a un momento speciale: è la consuetudine, il che – per me, per noi che la guardiamo dall’esterno – la rende più inafferrabile e affascinante.

Contravveniamo alla regola non scritta secondo la quale in uno stellato occorra optare per il menu degustazione, selezioniamo un paio di piatti a testa da quello à la carte e non ne rimaniamo particolarmente colpite, anzi. Nonostante un vino delizioso – una Lugana Riserva Sergio Zenato del 2008 – i piatti non convincono come si converrebbe a un’insegna che vanta una stella Michelin: la volontà di portare avanti un concetto simil-fusion che strizza l’occhio all’Asia può risultare vincente per un palato straniero, ma spesso fatica a stare in piedi. A parte un antipasto col salmerino e un lavarello alla plancha, il lago è un grande assente; i primi non sono equilibrati (negli spaghetti, il burro di pistacchio ammazza i ravanelli fermentati e nel risotto la limezza è talmente persistente da sovrastare il caciocavallo); i dolci deludono, soprattutto il babà bagnato allo Strega con polvere di gelato allo zafferano – di cui ne viene servita soltanto una metà.

Foto: Nicolò Brunelli

Il lato positivo è che sto facendo effettivamente qualcosa – ossia mangiando – e mi dimentico di essere nel luogo che nel mio immaginario fa rima con la morte – ossia il lago. Quando sbircio l’orologio e vedo che è quasi mezzanotte tiro un respiro di sollievo: la bottiglia di vino che ho in corpo mi assicurerà il sonno dei giusti, distraendomi dal desiderio incontrollabile di sezionare in tanti piccoli pezzettini le scelte compiute negli ultimi sei mesi osservando una distesa d’acqua piatta, scura e senz’onde. Prima d’addormentarmi, l’ultima spinta vitale che ho in corpo mi fa ordinare la colazione in camera: voglio avere uno scopo, e che questo scopo sia ingozzarmi di egg benedict con salmone, pain au chocolat e macedonia ai frutti di bosco annaffiati da abbondante caffè americano alle 10, grazie.

Foto: Nicolò Brunelli

Complice il sole, dopo un’abbuffata che entrerà negli annali ci trasciniamo nell’inifinity pool strategicamente riscaldata (trenta gradi, c’informa il pool guy che si rivelerà una preziosa fonte d’informazioni) dove, insieme a noi, c’è una coppia che disquisisce circa la soluzione migliore per raggiungere il Principe di Savoia, a Milano. La discussione è avvincente – lui vuole che decida lei, lei vuole che decida lui –, vince la private car per una somma indecente di denaro, ma il problema non erano affatto i soldi, bensì a chi spettasse il verdetto finale (spoiler: alla moglie). La noia è attutita dal people watching dei nuovi clienti che prendono ad arrivare intorno a ora di pranzo: è un po’ come essere allo zoo, solo che qui guardi ciò che resta dell’old money e che non è stato risucchiato dalla cafonaggine e dalla pacchianeria. Salvo un paio di eccezioni la gente è come attutita, felpata; ha le valigie di Vuitton e aborrisce gli abiti fascianti e attillati; la messinpiega non si scompiglia anche se soffia il vento e i fluidi tailleur color crema s’abbinano perfettamente alle borse Goyard e ai Tank Française in oro giallo.

Foto: Il Sereno

Riusciamo a scucire al pool guy qualche gossip: quello più succoso, quando nel 2019 una Miley Cyrus «sempre fatta come un drago» venne paparazzata in vacanza con la sorella maggiore Brandi e l’allora fiamma estiva Kaitlynn Carter nella stessa piscina in cui io combatto la mia noia galoppante. Lei si era appena separata da Liam Hemsworth dopo un matrimonio-lampo durato otto mesi, che aveva deciso di archiviare con l’ex moglie di Brody Jenner – fratellastro di Kendall e Kylie. La storia dura quanto la scoreggia d’una farfalla, ma Miley e Kaitlynn sono comunque andate avanti: la prima con tale Maxx Morando, batterista con più capelli che anima; la seconda con Kristopher Brock, dal quale ha recentemente avuto un figlio.

Questo doppio happy ending mi conduce verso considerazioni più profonde a proposito della mia condizione d’individuo essenzialmente loud, che pure con tutti i cashemerini del mondo non è capace d’ingannare sé stessa e trarre dall’ozio e dal relax quel sottile piacere che soprattutto chi appartiene alla bolla della quiet luxury sa apprezzare. Ho letteralmente ciondolato per trentasei ore, dormendone almeno più della metà: tradotto, mi sono seduta a tavola con una delle cose che temo e rifuggo di più – la noia – e l’ho fissata, muta, per un tempo per me interminabile. Lei, di rimando, mi ha sorriso beffarda domandandomi se la mia paura fosse quella di essere una persona noiosa, più che la noia in sé e per sé. Una situazione vagamente nietzschiana, un’epifania quantomeno bizzarra pensando allo scenario che le fa da sfondo – uno splendido hotel cinque stelle categoria lusso in una delle località più famose e rinomate del mondo – ma non starei a sottilizzare.

Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, ho avuto l’opportunità di fare un’esperienza da celebrity hollywoodiana che dubito bisserò da qui a breve; ho assaggiato un minuscolo morso della vita di Siobhan Roy; ho poggiato il sedere sullo stesso morbidissimo lettino toccato dalle chiappe di Miley Cyrus; ho fatto una delle colazioni migliori della mia vita; sono giunta alla conclusione che forse dovrei imparare ad annoiarmi un po’ di più. E mentre ci spariamo quarantacinque minuti buoni di coda serale per tornare a Milano, sia la mia amica che io capiamo che ci manca anche la scaltrezza tipica degli adepti della quiet luxury: quella che ti fa partire presto, per evitare di annoiarti davvero a vuoto.