C’è del lurido in Danimarca | Rolling Stone Italia
THERE’S METHOD IN THIS MADNESS

C’è del lurido in Danimarca

Arrivare a Copenhagen per la New Nordic Cuisine, rimanerci per gli hot dog lerci da sbafare leccandosi le dita a qualsiasi ora della notte e del dì. Nessuna regola, solo un consiglio: rémoulade doppia, grazie

Isted Grill

Credits: Francesco Pattacini

Copenaghen. Babilonia del fine dining. Quattordici ristoranti stellati, almeno il doppio che ci provano. Difficile, se non impossibile, non essere tentati dai coloratissimi progetti pop-up, dalle taquerías viste su Ugly Delicious (il programma Netflix con David Chang), o da uno degli altari di questa religione chiamata “alta ristorazione”.

“Sarebbe un sogno”, ti dici, “provare qualcosa di questo tipo”. Non ti illudi ma, magari, su un hamburger da POPL, il burger-progetto della “Noma family” di Redzepi, ci fai un pensierino. Poi però arrivi all’aeroporto, prendi un caffè al Seven Eleven (di macchinetta, per volare basso), e son quattro euro: allora sai che non avverrà nulla di tutto questo. Ti ritrovi invece fuori dal mercato di Torvehallerne, piove, o forse sei tu che piangi, e in mano hai un sacchetto di aringhe al curry. Capisci che, se vuoi mangiare, devi seguire le tracce di una Copenaghen alternativa. E che, più che una necessità, ti è capitata un’occasione.

Rene Redzepi

Credits: THIBAULT SAVARY/AFP via Getty

Ogni città ha il suo lato oscuro. Spesso, è quello che ne conserva il carattere autentico in maniera incontaminata, selvaggia e, anche, lurida. In Turchia questi anfratti si chiamano salaş, intendendo qualcosa di logoro, sporco e vero, perché lì la dittatura dell’interior design e dalla lotta batteriologica decadono. Esistono per dedicarsi sommessamente al cibo, ai sapori senza fronzoli. Per Copenaghen questi luoghi rappresentano una resistenza e, in qualche modo, un esercizio di memoria collettiva.

La lurida Copenaghen può essere, forse, l’ultima immagine di un’epoca spazzata via dalla rivoluzione gourmet, e il suo ricordo passa attraverso il gusto acidulo della rémoulade. Nata nei laboratori della Corona negli Anni ’60 per rispondere al dominio francese nel campo delle salse, la sua composizione oppone ai classici insaporitori ittici (sardine per la Francia, gamberi per la Lousiana, ad esempio) un mix vichingo di curcuma, cetriolini e cavolo, carote e cipolle. Il risultato è un giallissimo composto dal sapore d’aceto e di spezie, a metà fra la tartara e l’aioli, ed è fra i più sacri e controversi elementi della tradizione culinaria danese.

Credits: Lars Ronbog / FrontZoneSport via Getty

«La maggior parte di noi danesi sa che la rémoulade che compriamo nei negozi e che viene usata agli stand degli hot dog probabilmente non è della migliore qualità. Sappiamo anche che potrebbe essere un po’ schifosa», mi narra Lars Bjerregaard, food writer di Copenaghen, quando gli chiedo cosa significhi per lui la rémoulade. «Nonostante questo, ha semplicemente un sapore giusto. Ha il sapore di qualcosa che c’è sempre stato nella tua vita e che, quindi, ti dà una sorta di conforto». Infatti, la rémoulade è dappertutto. Sul pane degli smørrebrod (tartine imburrate ricoperte di verdure e proteine). Sul fish and chips. È l’elemento che permette alle polpette di pesce ipercompresso di non incagliarsi lungo la gola. Ed è, di fatto, la base per la composizione dell’hot dog scandinavo: wurstel sottile, pane rigorosamente moscio, rémoulade, senape, maionese, ketchup, cipolle fresche e fritte, cetriolini. Perché, sì, in Scandinavia (Danimarca in particolare) gli hot dog sono una cosa seria. Sono loro i protagonisti delle crepe luride in cui stiamo per addentrarci.

La massima espressione della rémoulade si trova, probabilmente, da John’s Deli. Nome piuttosto newyorchese, ma tutti i chioschi di hot dog, a Copenhagen, prendono il nome del loro proprietario (usanza rimasta dalle prime licenze per l’apertura di questi banchetti, che dovevano essere intestati a qualcuno che non avrebbe potuto svolgere altro lavoro nella società). Da John’s non ci sono sedie. È un piccolo chiosco sul piazzale della stazione, mangi questo hot dog marca Steff Houlberg (tipo il Gregg’s inglese, tipo la Simmenthal: questionabile, ma chissene) sulle scale, ti sporchi, e guardi la gente mettersi in fila dopo di te (da John’s ci vanno proprio tutti, popolo, star e chef). All’origine di tutto questo apprezzamento, della magia che dà armonia a questa composizione, c’è un atto impuro. Nella sua rémoulade, John aggiunge semi di coriandolo che la rendono quasi piacevole, sicuramente edibile: «È fantastico quello che fanno a John’s Deli, ma penso che la maggior parte dei danesi – e con questo, intendo la maggior parte dei danesi fuori Copenaghen – probabilmente penseranno che sia troppo elegante», dice Bjerregaard, «ed è perché la rémoulade è semplicemente perfetta per posti come questo. In un certo senso, sarebbe impossibile per me fermarmi a un chiosco di hot dog e non mangiarla. Sarebbe completamente fuori luogo. La rémoulade è una parte importante, voglio dire, è ciò che lega tutto insieme».

John's deli

Credits: Francesco Pattacini

Non ci sono regole nella Lurida Copenaghen, solo consigli. L’uso delle mani è incentivato, anche perché di posate non c’è mai traccia. Il principio, però, è questo: la rémoulade la puoi mettere su quello che vuoi. Su tutto ma non, forse, sui Børge di Harry’s Place, aka salsiccioni master fatti a mano che contengono l’equivalente di 1,5 salsicce di taglia media – e perché? Perché il carcere di Copenhagen chiese al titolare di sviluppare una salsiccia che coprisse l’intero fabbisogno di carne di un detenuto, che superava la singola salsiccia e creava zuffe per la divisione del rancio.

Ma dicevamo: niente rémoulade da Harry’s, però non è questione di papilla. Potrebbe guastare l’equilibrio all’interno della struttura a container del chioschetto. Potrebbe perfino costringere le persone che mangiano in piedi attorno al bancone a parlarsi fra loro. Da Harry’s tutto ha il suo ritmo, il via vai dei clienti, i movimenti decisi con cui la cuoca spara le salse sul foglio di carta alimentare. Altro motivo per cui si dovrebbe accettare senza fiatare la salsa della casa: come si scoprirà, la salsa signature di Harry’s – piccante, in danese krudt – ha il compito di contrastare l’imponente quantità di grasso di un Børge, ed è così amata che su Reddit si cerca di trafugarne la ricetta, naturalmente segreta.

harry's place

Credits: Francesco Pattacini

Per tutte queste ragioni, Harry’s Place è un pilastro della lurida Copenaghen. Alle pareti, di fianco alla foto dell’originale Harry (Löfvall), inventore del salsiccione, stralci di articoli di giornale e autografi dei clienti. Obbligatorio passarci con una combriccola del posto, cercare di emularli mentre sbafano il Børge, e acquistare, morso per morso, questa confidenza che assomiglia al peccato. Finalmente, senza pensarci più, lo inzuppi nelle salse e lo divori, lasciando che il gusto, potenziato dalla krudt, ti inglobi.

Tutto naturale, in questa zona d’ombra gastronomica che ormai ti ha assorbito, sfamandoti, anche a tarda notte. Ma c’è tempo per un’ultima tappa: Isted Grill chiama a raccolta con l’insegna accesa a metà e il suono delle fette di maiale che sfrigolano sulla piastra. Siamo al cospetto del flæskesteg, arrosto con la pelle croccante e speziata dei pranzi di Natale, il piatto probabilmente più intimo della cucina danese. Da Isted Grill, dal 1980, te lo servono dentro una pagnotta da hamburger, potenziandolo con rémoulade, pickles e cavolo cappuccio in agrodolce. C’è il sacro. C’è il profano. Ci sono i tavolini fuori e una fila ordinata, in cui, magari, qualcuno fatica pure a restare in equilibrio. Ma anche loro, quando escono, rinascono. Hanno il sorriso di chi sta per riempire un vuoto, non solo chimico, non solo fisico.

isted grill

Credits: Francesco Pattacini

È qui che si forgia il carattere culturale della lurida Copenaghen. È resistenza unta e svogliata. Ha il ruolo – a volte inconsapevole – di difendere le proprie radici, anche se distanti anni luce dall’iperspazio della scena gastronomica della città. «La Danimarca non è mai stata un paese con una particolare cultura del cibo. Eravamo un popolo contadino ed eravamo abituati essenzialmente a vivere di carne di maiale. Tutta questa cosa intorno a Copenaghen come centro dell’universo godereccio, ma con il mignolo alzato, è molto nuova. Prima del Noma nessuno è mai venuto in Danimarca per il cibo, e quindi ci sono alcuni elementi che resistono, come la rémoulade. Questo è in opposizione a tutto ciò che è diventata la scena della ristorazione danese, no?», racconta Bjerregaard.

«Il flæskesteg racconta qualcosa della reale cultura della tavola danese degli Anni ’60, ’70 od ’80, prima di questa esplosione del gourmet. Prima del Noma la cucina era prevalentemente francese, i ristoranti non erano molti e, o erano francesi, o erano pizzerie scadenti. La “New Nordic Cuisine” è diventata quello che è diventata, ma c’è stato contemporaneamente un movimento che ha riscoperto e mantenuto quello che c’era una volta. Il flæskesteg, i chioschi degli hot dog e posti del genere, sono qualcosa che ci fa ricordare e sentire orgogliosi. Voglio dire, le persone comuni in Danimarca andranno nei ristoranti di alta fascia forse una volta all’anno. Quindi c’è sicuramente anche un movimento verso questi altri posti. E poi quello che succede è che, come posso dire, in un certo senso apprezzi quello che c’era una volta, perché è reale, se capisci cosa intendo. Non è uno show culinario a cui assistere, non è qualcosa di raffinato. È proprio quello che vedi, è quello che è stato negli ultimi cinquanta anni e che, semplicemente, funziona. Perché è rimasto se stesso».

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