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Perché abbiamo bisogno di un ristorante casalingo

Per combattere il gastro fighettismo abbiamo bisogno di locali informali, popolari, con una cucina di sostanza più che di apparenza: insomma, quel genere di posti dove, appena entri, sai che hai già iniziato a prenderti cura di te

Perché abbiamo bisogno di un ristorante casalingo

Foto di David Lees/Getty Images

Tra gli addetti ai lavori si percepisce una certa stanchezza: che siano giornalisti, critici, a vario titolo foodwriter o content creator, all’ennesima visita a un ristorante gastronomico sono sempre in più a sbuffare. Ne scrive Alex Jung su Grub Street, blog culinario del New York Magazine, in un articolo in cui lamenta l’invadenza di Resy, app di prenotazioni che lo sommerge di avvisi segnalando tavoli liberi nei ristoranti più cool della città e slot temporali per accaparrarsi i posti più ambiti.

Aggiudicatosi un tavolo da Torrisi, nella parte bassa di Manhattan, racconta di un sequestro durato 4 ore, trascorse tra «piccoli cuscini di felicità» (leggasi: tortellini al pomodoro), linguine in salsa di vongole rosa e scalloped potatoes (sorta di gratin di patate). «La cena è stata tecnicamente abbagliante, stravagante, costosa», scrive Jung. «Il giorno dopo ho avuto un’indigestione», lamenta.

La reazione a quello che potremmo definire gastro-overload è sintetizzata nel titolo del pezzo di Jung: «La necessità e l’utilità di un ristorante casalingo», dove “casalingo” è la traduzione di home-base, locuzione che in questo caso può unire diversi concetti e rimandare a locali informali, popolari, con una cucina di sostanza più che di apparenza. Ma anche, semplicemente, a quelli che ci accolgono mettendoci a nostro agio, a prescindere dal tono e dall’impostazione.

Il ristorante siffatto, scrive ancora Jung, è «più confortante di un normale locale di quartiere e solo leggermente meno familiare del mio divano». In sintesi, il pezzo racconta del bisogno di scappare dal fine dining a tutti i costi in cerca di “posti sinceri”, per citare l’account Instagram che cataloga «b͏o͏c͏c͏i͏o͏f͏i͏l͏e͏, t͏r͏a͏t͏t͏o͏r͏i͏e͏ e͏ c͏i͏r͏c͏o͏l͏i͏n͏i͏ d͏i͏ Mi͏l͏a͏n͏o͏».

«Nei quarant’anni di cui ho memoria nel mio quartiere è cambiato tutto e niente, ma se dovessi dare un senso alla parola identità parlerei di Gabry. Che fa le stesse pizze, gli stessi fritti, con le stesse insegne e la stessa persona al banco. E lo stesso identico sapore»: così racconta, in un post su Facebook, Adriano Aiello – romano trapiantato nel milanese, giornalista, scrittore e oggi agente di vino. Oggetto del post la pizzeria sotto casa nella zona di Roma in cui è cresciuto.

Non è dunque una coincidenza che Sottocasa sia il nome scelto da Luca Arrigoni, ex attore e oggi ristoratore, per le sue pizzerie a Brooklyn, Williamsburg e Harlem. Quest’ultima, gestita dalla milanese Elena Della Volpe, è recensita da Yelp come il miglior ristorante della Grande Mela: «Educo gli americani alla vera pizza italiana», ha dichiarato Della Volpe in una recente intervista al Corriere della Sera. E lo fa con tutti i crismi del caso, compresi il forno a legna, i tovaglioli che sembrano canovacci, la parete di mattoni a vista. Cliché apprezzati dai newyorkesi d’Italia e da qualche celebrity di passaggio, da Lucy Liu alla nostra (ex) Suor Cristina.

 

 
 
 
 
 
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Poco conta che dietro questo progetto ci sia un preciso intento imprenditoriale (Della Volpe viene da un passato di manager in aziende informatiche e oggi Sottocasa fattura un milione e 700mila dollari all’anno a suon di margherite e capricciose): la clientela, local o expat che sia, riempie la sala felice di sentirsi, davvero, sotto casa.

Il locale casereccio tira, rassicurante in quel suo essere sempre uguale a se stesso e/o a quel che ci si potrebbe aspettare. Seppure con una sua evoluzione. Sempre a proposito di Roma, ricordo un pranzo di primavera di tanti anni fa in questo posticino a piazza del Fico, consigliato da un amico che abitava nel vicolo adiacente: le paste veraci, i saltimbocca, la cicoria ripassata, i tavolini sghembi sui sanpietrini, un calice di vino… e chi t’ammazza?

L’Osteria Da Francesco (così si chiama) è ancora lì. Oggi sul sito dichiara, un po’ pomposamente, che «la cucina si basa su prodotti del territorio, provenienti anche da piccoli artigiani, frutto di un’attenta ricerca il cui fine ultimo è sempre la qualità e la genuinità dei sapori di un tempo. Il mercato e le stagioni sono il filo conduttore per assaggiare i grandi classici della cucina romana tradizionale». Un po’ bla bla ma la sostanza, in «un’atmosfera conviviale e familiare», non pare cambiata.

«La vecchia trattoria si rinnova», osserva Arcangelo Dandini, chef e imprenditore capitolino con un poker di proposte che vanno da L’Arcangelo, osteria gourmet in zona Prati, al cibo di strada di Supplizio in pieno centro, da Chorus, american bar e ristorante in via della Conciliazione, a Garum, recente apertura londinese. Come tanti suoi colleghi, quando sveste i panni del ristoratore gourmet Dandini va in cerca di relax e cucina onesta. Possibilmente, a portata di passeggiata.

Dunque, il suo home-base restaurant ideale incarna la “nuova” cucina romana «interpretata con criteri di contemporaneità, un po’ sgrassata, ma sempre familiare fra trippa, coratella e compagnia. Roba da sentisse male, insomma!». Tra gli indirizzi prediletti La Tavernaccia da Bruno a Testaccio, a un passo da Trastevere, dove non mancano piatti ruspanti come i rigatoni con la pajata e la gricia, la minestra di ceci, il castrato cotto nel forno a legna, la coda alla vaccinara.

Altra segnalazione di Dandini, Cesare al Pellegrino, già Settimio, rione Parone, vicinissimo al suo Supplizio. La storia di questa osteria è emblematica. Gestita per decenni da Mario e Teresa Zazza, in passato – come ricorda il sito Puntarella Rossa – aveva servito Alberto Sordi, Renato Guttuso, Mario Monicelli, proponendo (anche) patate bollite tra i contorni e mele cotte fra i dessert: più casalingo di così si muore.

 

 
 
 
 
 
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La chiusura di Settimio, lo scorso anno, aveva gettato nello sconforto decine di aficionados. Tra tanti, niente meno che il direttore di La7, Andrea Salerno, che con un tweet annunciava mesto: «Mario e Teresa hanno mollato. Un pezzo di Roma che se ne va. Le polpette più buone del mondo», cui era seguito persino il cordoglio dell’editore Urbano Cairo. Avran tirato tutti un sospiro di sollievo alla notizia della riapertura (che risale a pochi mesi fa), affidata dai due anziani coniugi a Leonardo Vignoli, già titolare di un’altra trattoria, Cesare al Casaletto. Tra una minestra di broccoli e arzilla (razza), i rigatoni con il sugo degli involtini e il picchiapò (lesso ripassato al pomodoro), le mele al forno sono sparite ma restano le polpette di Teresa e la crostata con le visciole. Che se sei nato all’ombra del Cupolone fanno subito casa.

Chi non ne può più della cucina tipica della sua città è lo chef torinese Marcello Trentini, che professionalmente si divide tra lo stellato Magorabin e il “gastrobistrot” Casa Mago. «Rispetto ai miei concittadini, mangiatori seriali di vitello tonnato, agnolotti e plin, non ho il guilty plesure della piola (come si chiama la trattoria torinese, nda)», ammette. Seppure gli sia passata da tempo anche la “fregola” del fine dining a tutti i costi. «Ormai da 4 anni a questa parte ho abbassato le mie pretese. Sono finiti i tempi in cui, in tre giorni a Copenhagen, collezionavo 9 stelle (nel senso di ristoranti Michelin, nda). Oggi, preferisco un approccio più rilassato e, da amante dei vini naturali, scelgo soprattutto in funzione della carta dei vini».

Così, per un calice e un piattino Trentini va al Luogo Divino, mentre l’indirizzo giusto per una cena con la fidanzata è Razzo, giovane realtà che promette «tradizione regionale italiana, spunti francesi e asiatici». Un mix tra contemporaneità e contaminazioni che affascina non poco il “Mago”: tra le altre dritte anche Donburi House, izakaya (osteria) giapponese firmata dall’imprenditore Max Chiesa, che prende il nome dalle bowl (ciotole) di riso, pesce e ortaggi antesignane del poke. Per lo spuntino al volo, infine, ci sono gli esotici bao di Bao Lab e i più che nostrani trapizzini di Trapizzino.

Spostandoci dalla Mole al Ponte Vecchio, incontriamo Marco Stabile, il cuoco fiorentino che ha chiamato Ora d’Aria il suo ristorante: se il nome si è ispirato alla vicinanza con Le Murate, ex carcere oggi polo culturale, l’intento è quello offrire una fuga gastronomica a clienti che sono spesso anche amici («A volte capita persino che vada a cucinare a casa loro», racconta). Con i quali trovarsi a bere una cosa in Manifattura, primo (unico?) cocktail bar con solo bottiglie italiane.

In cerca del mare, il posto prediletto di Stabile è Da Vivo (che fa parte di un gruppo invero snob, nato a Capalbio e presente anche a Milano, a City Life), in cucina lo chef sino-fiorentino David Chen: «È a 30 metri dal mio ristorante», precisa Stabile. «Il pesce arriva fresco dall’Argentario, ha il giusto prezzo e sanno perfettamente cosa mi piace e cosa no». Zero sbatti in atmosfera cozy. Più vicino ancora ‘Ino, bottega accanto all’Ora d’Aria, in via dei Georgofili: «Fanno panini con prodotti di alto livello. Il mio preferito: salame rosa, che è una via di mezzo tra salame cotto e mortadella, gorgonzola e salsa agrodolce di peperoni». Apperò.

La cara vecchia cucina tradizionale seduce, nel tempo libero, Roberto Di Pinto, chef partenopeo a Milano con Sine (e di recente anche in Alta Langa con l’Orangerie, all’interno del Relais Le Due Matote). In cerca di specialità meneghine, si spinge poco lontano dal suo ristorante, in viale Umbria, per raggiungere la Trattoria del Nuovo Macello, a ridosso dei Mercati Generali, grande classico per gli amanti del risotto giallo e della cotoletta di vitello, alta e rosata, comme il faut. Altro place to eat sui Navigli, l’Osteria al Coniglio Bianco: «Giampiero (l’oste, nda) ha una proposta milanese vecchio stile affiancata da una cucina moderna, creatività e grande materia prima. Penso al pane burro e acciughe, ai salumi, alla pasta fresca, ai tortelli: sono bravissimi».

 

 
 
 
 
 
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Tuttavia, i veri locali home-base per Di Pinto non possono che essere a Napoli. Il luogo del cuore è gourmet, Palazzo Petrucci di Lino Scarallo, primo stellato del capoluogo campano, alta cucina con vista sul Vesuvio. Per il pesce, si spinge a Bacoli, nei Campi Flegrei: al Testardo, locanda “atipica” affacciata sul mare dove la sostenibilità è reale. «Quando c’è il fermo pesca, la cucina diventa di terra, carne e vegetali», racconta Di Pinto. Che non manca di indicare indirizzi più pop: per la pizza, 50 Kalò di Ciro Salvo a Mergellina (già “One of the best pizza in Italy” secondo il New York Times), per le frittatine di pasta la friggitoria Friggipizza di Davide (che di cognome fa Meer, ma non lo sa quasi nessuno) a Fuorigrotta: «Mondiali», secondo Di Pinto.

Torniamo a Milano per farci svelare la mappa dei casual dining di Tommaso Arrigoni, che di recente ha spostato il suo ristorante-giardino Innocenti Evasioni dalla sede storica di via della Bindellina (vicoletto nel quartiere Cagnola) ancora più in periferia, a Dergano. In pratica, attraversa tutta la città per raggiungere Latterie 1952, in Conca del Naviglio, amato anche da Elio, ex compagno di scuola del patron Mimmo Russo. «Sono amici», conferma Arrigoni, «mi accolgono, i piatti sono semplici ma molto ben fatti e in qualunque ora della giornata c’è una soluzione»: dall’american breakfast al cocktail dopocena, il repertorio milanese (con tanto di carta delle costolette) è solo in minima parte “contaminato” da qualche influenza contemporanea, orientale e sudamericana.

«Vicino al vecchio ristorante – prosegue – c’è Nonna Vittoria: molto informale, pulito, ordinato, mangi veloce, hanno buone bottiglie di vino e fanno il loro in modo onesto». Del resto, il motto della “Nonna” (la mamma del titolare Mimmo Rizzo, calabrese doc) è «mangia, bevi, rilassati»: proposito assai condivisibile per Arrigoni. Che infine confessa una vera e propria fascinazione per «le trattorie marce, ma quelle è meglio che non te le dico perché sono davvero borderline».

Non riusciamo a scucire un indirizzo in più. Ed è un peccato. Perché il genere “marcio” sarebbe piaciuto anche ad Alex Jung: come scrive ancora su Grub Street, impossibile non farsi conquistare da un ristorante «dall’aspetto losco e spettinato, con soprammobili a casaccio e sedie dalla vernice scheggiata». Quel genere di posto dove, appena entri, sai che hai già iniziato a prenderti cura di te.

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