Mory Sacko: vivere la cucina come un laboratorio democratico | Rolling Stone Italia
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Mory Sacko: vivere la cucina come un laboratorio democratico

Avere trent'anni, una Stella Michelin, rivoluzionare l'approccio alla tavola dei francesi. Lo sta facendo lo chef di MoSuke, con una tradizione ex-novo che parla di identità, accoglienza, e fusione di influenze

Mory Sacko

Mory Sacko

Credits: Sky

La vulgata dice: per essere una rockstar, devi fare il cattivo ragazzo. Stracciarti le vesti, tirar fuori la lingua, e un dispiacere dopo l’altro alla famiglia. Per alcuni è una ricetta sopraffina. Altri, invece, preferiscono scriversi le liste degli ingredienti da sé, e al diavolo i libri. Uno di loro è stato descritto dal Guardian come il “migliore politico in circolazione”, e non per nulla Emmanuel Macron l’ha invitato a cucinare, nel 2021, a un summit tra la Francia e i principali attori politici del continente africano. Ha posato per Boss e Ralph Lauren. È stato uno dei 30 Forbes Under30 europei per il 2022. È il terzo chef francese a finire sulla copertina di Time (gli altri: Michel Guérard, 1976, Alain Ducasse, 2001). Ha tre ristoranti, una stella Michelin, trent’anni – no, dài, trentuno. È un inguaribile bravo ragazzo, anche se, visto che malandato non lo è proprio, la definizione la lasciamo per retorica. Lui è Mory Sacko, e questa sera lo vedremo ospite alla tredicesima edizione di MasterChef Italia (show Sky Original prodotto da Endemol Shine Italy, tutti i giovedì su Sky e in streaming su NOW e sempre disponibile on demand).

Mory Sacko

Credits: Sky

Incontriamo Sacko, lui sorride. Forse è divertito perché, per fare una chiacchierata, abbiamo dovuto reclutare una traduttrice dal francese e la nostra chiamata Zoom ha preso l’aspetto di un summit delle Nazioni Unite. Forse è la luce di quell’incoscienza mista a intuizione che ci si può permettere solo a no strings attached, e Sacko, classe ’92, sembra intendersene. Ci dev’essere un’arma segreta, da qualche parte. Altrimenti non si spiega come il suo mafè di manzo – uno spezzatino ricco di sugo preparato variamente in tutta l’Africa Occidentale, che Sacko serve scomposto, con salsa mafè, manzo invecchiato nel burro e gel di tamarindo – abbia accalappiato i palati dei parigini, ben avvezzi ai legami culinari con un continente che hanno trattato come il cortile di casa per più di qualche anno. La risposta potrebbe stare nel mix di influenze del piatto, che abbina preparazioni europee (spalmare la carne di burro e sale, per esempio) a trucchetti giapponesi (miso bianco nella salsa, sì, lo diciamo, umami), arricchendo le basi della cucina tradizionale africana, anzi, maliana e senegalese, come le origini dei genitori di Sacko.

In letteratura lo chiamerebbero post-modernismo. I Boomer, invece: Gen Z, quelli che innovano svergognatamente, senza bisogno di giustificarsi. E infatti, capiteci, non è interessante chiedere a chef Sacko “perché” abbia deciso di annodare insieme questi tre fili. La replica è ovvia: se la cucina è quella di Mory Sacko, allora lui ci dev’essere. «Io sono francese, i miei genitori maliani e senegalesi, e poi il Giappone mi affascina, ho studiato i loro sapori, come li compongono, e cerco di usarne una parte nei miei piatti, per arricchirli. Forse la verità è solo che adoro i manga e gli anime». In effetti, sul suo sito personale c’è una citazione di Sanji di One Piece: “La cucina è un dono degli dèi, le spezie sono un dono del diavolo. Sembra che fosse un po’ troppo piccante per te”.

 

 
 
 
 
 
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Mory avant Sacko, dunque. Che nasce nella Seine-et-Marne, porzione dell’Île-de-France a destra di Parigi, e lì frequenta la scuola alberghiera, «Un primo approccio fondamentale alla cucina francese. Siamo una famiglia davvero larga, sono il settimo di nove fratelli, e a casa cucinava sempre mamma, quindi vuol dire ricette della tradizione africana. Questa è la prima porzione di me, il mio primo contatto con il cibo. Le preparazioni maliane e senegalesi possono avere tempi davvero lunghi, e io me ne stavo in giro per la cucina, prendevo tutti gli odori, l’atmosfera. Questo è il significato che ancora oggi associo al mangiare: essere insieme, essere famiglia». Non solo le madeleine-tortellino di Massimo Bottura insomma, trafugate crude da sotto il tavolo. Qui si tratta di pollo yassa, per esempio, cotto lentamente con cipolle, spezie e peperoncino, servito con riso bianco. Sono soprattutto le influenze maliane a uscire, nella cucina di Sacko. Tradotto, significa verdura, carne, cereali, perché «Il Mali è uno stato landlocked, senza approdi marini, e i suoi generi alimentari sono quelli di una cultura agricola, semplice, legata alla terra».

La prima esperienza in cucina mentre termina la scuola, però, è in un ristorante italiano, e infatti «Della cucina italiana amo tutto. Voglio prendermi il tempo per conoscere meglio la zona di Bologna e dell’Emilia, passare dalla Francescana [great minds think alike, ndr], viaggiare». Poi i giochi da grandi, che per Sacko passano, soprattutto, sotto il multistellato Thierry Marx. È qui che il senso per il Giappone si affina, e comincia a sedimentarsi sulle mani di Sacko. «Chef Marx è stato un maestro importante per me, forse anche di più in realtà, un’ispirazione. Sotto di lui non ho solo approfondito le preparazioni e la cultura nipponiche, ma ho anche imparato come si gestisce in modo umano una brigata di cucina. Ormai può sembrare una cosa scontata, ma non lo è, soprattutto in Francia, dove l’etichetta dei professionisti è ancora molto rigida. I primi tempi sulla linea possono davvero spezzare la schiena».

L’ultima folata di vento in poppa arriva nel 2020, in piena pandemia. Sacko partecipa al maggiore contest televisivo per chef professionisti in Francia, Top Chef. Non vince, ma si porta a casa l’affetto del pubblico e una celebrità tutta nuova, che aspetta di essere sbucciata come un mandarino – c’entra sempre quel sorriso, quell’umano ineffabile ma presente che accompagna la sua presenza. Sacko ci toglie tutte le pellicine, e apre, sempre nel 2020, MoSuke, il suo primo ristorante, che, a soli pochi mesi dall’apertura, diventerà il primo ristorante di cucina “africana” stellato in Francia. Niente menù – o meglio, solo menù degustazione, ma senza carta a vista –, anche in opzione vegetariana. Quattordicesimo arrondissement, 35 posti a sedere. Il nome è, ancora una volta, tutto lui, crasi tra il nome di Yasuke, ex-schiavo africano che diventerà il primo samurai con la pelle nera del Giappone, e “Mory”. Per Sacko, «È bello essere i primi, ma spero si aggiungeranno altri. Quando frequentavo la scuola alberghiera, nessuno chef stellato aveva il mio aspetto. […] E la cucina africana non aveva figure di riferimento nel mondo dell’alta cucina [ancora oggi, la Michelin non pubblica edizioni per l’Africa, o i Caraibi, ndr]. Ora stiamo rompendo il soffitto di cristallo, e spero che i giovani si accorgeranno che la cucina, per essere stellata, non deve per forza essere europea o asiatica». Capite quella roba della politica, adesso?

 

 
 
 
 
 
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Alla fine, ci dice Sacko, «La gastronomia francese sta morendo, o meglio, fatica a rinnovarsi a partire da se stessa, ha bisogno di stimoli ulteriori. Io credo che la Francia, così come ogni cucina, debba diventare un laboratorio, uno spazio dove sperimentare nuove potenzialità dello stare insieme. Che vuol dire nelle stesse città, come anche nel piatto. Molto spesso mi chiedono se il mio percorso sia stato più difficile data la provenienza della mia famiglia. Non ho mai ragionato in questo senso, sono nato in Europa e, soprattutto, la cucina è democratica. O fai bene, o non fai bene, non ci sono scuse. Forse è qui che viene fuori la mia differenza anagrafica rispetto alla maggior parte dei colleghi: loro si pongono questi problemi, io no. Se c’è una cosa che ha fatto la differenza nel mio percorso, è stato questo, essere giovane. Perché puoi sbagliare, rovesciare, rifare. Quando ho avuto l’idea di MoSuke sapevo sarebbe stata una piccola rivoluzione per Parigi, ma non avevo paura».

Ottimismo, coraggio, mano di un dio? Chissà. La formula, però, sembra reggere. Dopo Top Chef, Mory è tornato stabilmente sugli schermi dei francesi come host del programma Cuisine Ouverte: un gioco di parole, in quanto la cucina è sia “aperta” nel senso degli ospiti presenti, tra giornalisti, chef e personaggi pubblici; sia di quell’infinito che Sacko ha reso sua cifra stilistica; e ancora per le location della trasmissione, che, come una sfida in esterna à la MasterChef, monta una postazione en plein air. Sullo sfondo, paesaggi bucolici o landmark di Francia. Ma non che non si sia dato da fare anche IRL, in real life: prima è arrivato il casual dining di MoSugo alla Galleria Gourmet Lafayette, dedicato ai panini con pollo fritto e alle patatine – “le comfort food”, lo chiamano. E poi, in apertura freschissima, il takeover dello storico Lafayette’s insieme a Moma Group: qui la carta è decisamente più francofila, tra brasserie e fine dining. Perché si sa, rovesciando Montesquieu: anzitutto francese, uomo solo per caso.

 

 
 
 
 
 
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Ora manca solo un personaggio basato su di lui – o proprio un cameo, dài, perché no – nella terza stagione di The Bear. Anche se, lo giura, la fama mediatica ed extra-fornelli non l’ha mai ricercata: «Io sono un cuoco, cucino, è quello che so fare. Il resto è tutto un gioco. In realtà chiedo solo una cosa: voglio far dimenticare il “cibo fusion”». Tutto il resto è noia. Oppure, antica gastronomia gallica. Aveva ragione Elio Altare, Barolo Boy, quando diceva che la tradizione, alla fine, è solo innovazione ben riuscita. Speriamo di avere presto un mondo in cui Mory Sacko sia la regola, e non l’eccezione.