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Ma quale Veganuary: quello che serve è una ‘Nuova liberazione animale’

A gennaio, dicono i social, abbiamo mangiato vegano. Ma può una sfida online cambiare le nostre abitudini alimentari? O, come si legge nella nuova edizione del classico di Peter Singer, la carne ci piace ancora troppo?
nuova liberazione animale

Credits: Selcuk Acar/Anadolu Agency via Getty

Pubblicato per la prima volta nel 1975, il libro Animal Liberation: A New Ethics for Our Treatment of Animals (in Italia, Liberazione animale) aveva aperto gli occhi di milioni di persone al concetto di “specismo”, ovvero la discriminazione basata sul fatto che un essere appartiene a una determinata specie, ritenuta inferiore rispetto alla propria. L’autore, il filosofo australiano Peter Singer, sosteneva che i diritti degli animali dovessero essere fondati sulla loro capacità di provare dolore, più che sulla loro intelligenza – una visione di rottura in una cultura occidentale dominata dal Cristianesimo antropocentrico. Con il libro, Singer aprì la strada al movimento globale animalista e antispecista, per cambiare la nostra attitudine nei confronti degli animali e porre fine alla crudeltà che infliggiamo loro.

 

Nuova liberazione animale (Il Saggiatore, 440 pagine, 25€) è il ritorno in edizione aggiornata di questo saggio, uno dei più influenti del secondo Novecento e arricchito in questa occasione dalla prefazione di Yuval Noah Harari, storico e filosofo difensore dei diritti degli animali. In questa nuova edizione, Singer affronta i temi a lui cari con dati recenti e considerazioni applicate agli allevamenti intensivi, ai laboratori che utilizzano cavie viventi, ai nuovi pericoli legati al cambiamento climatico e ai passi avanti che sono stati fatti nella lotta allo specismo. Leggendolo, si ha l’impressione che cinquant’anni di movimenti animalisti e nuove consapevolezze (anche alimentari) abbiano sì inaugurato un discorso che prima era impensabile affrontare, ma che tuttavia l’approccio medio dell’umano nei confronti dello sfruttamento animale finalizzato ai propri benefici sia ancora lontano da un radicale cambiamento.

Lo testimoniano i fatti: l’autore riporta che dalla prima edizione del libro (1975) il consumo di carne a livello mondiale non solo non è diminuito, ma è più che raddoppiato, aumentando da 112 milioni di tonnellate a oltre 300 milioni, quasi tutte provenienti da allevamenti industriali e non tenendo in conto uova, latticini, pesci e molluschi. Un incremento che ha seguito l’espansione enorme della popolazione mondiale e la riduzione della povertà, in Asia specialmente: prendendo uno degli esempi più significativi, se nel 1970 in Indonesia il consumo pro capite di pollo era di 0,52 kg, nel 2021 era arrivato a 14,2 kg. L’equazione benessere-maggior consumo di carne è chiaramente un paradigma consolidato dalla cultura occidentale, difficile da scalzare e di cui vediamo le conseguenze oggi nei paesi in via di sviluppo.

 

Forse la vera new entry nel contesto attuale rispetto a quello della prima edizione è la dissonanza cognitiva, l’ipocrisia, il “paradosso della carne” (com’è stato definito da uno studio di due psicologi australiani nel 2010) di chi chiacchierando a tavola dice di provare disgusto per come gli animali vengono trattati, mentre al contempo si infila in bocca un boccone di filetto di vitello. Come scrisse anche il drammaturgo irlandese Oliver Goldsmith nel XVIII secolo, anticipando una piaga tremendamente contemporanea della società: «Provano pietà, e mangiano gli oggetti della loro compassione». Ci inteneriamo guardando creatori digitali con maialini domestici al posto dei cani e allo stesso tempo non sappiamo dire di no a una fetta di bacon croccante.

Credits: Emanuele Cremaschi via Getty

Un concetto che esprime bene Singer: «È facile prendere posizione contro la corrida in Spagna, l’uso di mangiare cani nella Corea del Sud, l’abbattimento di canguri in Australia, la strage di cuccioli di foca in Canada, o il sanguinario massacro di delfini in Giappone; invece, riveliamo i nostri valori quando il problema entra direttamente a casa nostra. Se continuiamo a mangiare polli selezionati incrociando uccelli che vivono nel dolore perché le loro zampe non sono in grado di sostenere corpi che crescono troppo velocemente, o carne di maiali tenuti al chiuso per tutta la vita, è ipocrita da parte nostra opporci al consumo di cani. È quando mangiamo che le conseguenze dello specismo interferiscono in maniera più diretta con la nostra vita. Boicottare la produzione industriale di animali ci permette di dimostrare la profondità e la sincerità del nostro interesse per gli animali non umani».

 

Chi scrive questo articolo, ben intesi, ha lo stesso identico problema. Come forse la maggior parte di chi lo sta leggendo. Leggere Nuova liberazione animale smuove tanti sensi di colpa, un’emozione completamente inutile se non seguita dai fatti. Ma qual è la situazione attuale del nostro rapporto con gli animali a tavola? Secondo un’indagine condotta dal Crea, il 57% degli italiani ha ridotto il consumo di carne per ragioni ambientali. In Europa, secondo lo studio Evolving Appetites (pubblicato nel contesto del Progetto Smart Protein, condotto da ProVeg in collaborazione con Innova Market Insights, lUniversità di Copenhagen e lUniversità di Ghent) il 51% dei consumatori ha affermato di avere ridotto il proprio consumo di carne nel 2023, un dato in crescita e guidato da tre motivazioni principali: il 47% a causa di “preoccupazioni per il proprio benessere”, il 29% per il benessere degli animali, e il 26% per la salvaguardia dellambiente.

Credits: Michel Porro via Getty

Dati che dimostrano che l’Europa è esemplare rispetto a paesi come gli Stati Uniti e la Cina (dove il primo codice sul benessere animale nell’ambito di allevamenti e macelli è arrivato solo nel 2016), ma c’è poco da esultare. Il vero problema rimane il modo in cui gli animali vengono allevati (per non complicare troppo questo articolo, sto volutamente non considerando gli allevamenti ittici, quelli di galline ovaiole e di bovini da latte): in Italia, con quasi 400.000 allevamenti, quelli intensivi dominano incontrastati e si trovano soprattutto in Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna.

 

La pianura Padana, non a caso, è anche l’area più inquinata d’Europa. Nonostante ciò, questi allevamenti ricevono finanziamenti europei tramite la PAC, suscitando preoccupazioni in quanto contribuiscono a gravi problemi ambientali e di salute pubblica. La problematica degli allevamenti intensivi, ben nota per le sue gravi implicazioni sulla salute umana e ambientale, è condannata da Singer principalmente a causa del presupposto specista che giustifica lo sfruttamento crudele degli animali a fini di profitto economico. Dal pollo al vitello, dal bovino al maiale, gli animali non umani in tali condizioni subiscono abusi fisici e psicologici, vivendo vite intrise di sofferenza, stress e maltrattamenti. Questa realtà diventa ancora più inaccettabile considerando che la scienza ha già dimostrato che dolore e traumi emotivi non sono esclusivi dell’essere umano.

Credits: CFOTO/Future Publishing via Getty

Siamo ancora lontani anni luce da una rivoluzione culturale che metta al primo posto il benessere di tutti gli esseri viventi. Ma, a differenza degli anni ’70, sono sorte alcune iniziative, come il Veganuary, una challenge annuale lanciata nel 2014 dai fondatori Jane Land e Matthew Glover (e promossa in Italia da Essere Animali) che incoraggia tutti ad adottare uno stile di vita vegano per il mese di gennaio. Dal suo avvio nel 2014, la partecipazione è cresciuta ogni anno, anche grazie alla diffusione dei social media – nel 2023, più di 700.000 persone si sono iscritte alla campagna, e per quest’anno avremo dati probabilmente ancor più promettenti. Un’iniziativa apparentemente positiva e innocua, ma che come tante altre esplose sui social (vedi Dry January, vedi Black Lives Matters, vedi Pride Month) corre il rischio di avere una deriva di greenwashing, dove la forma prevale sulla sostanza. Inoltre, per gli appassionati consumatori di carne, un cambiamento così radicale può risultare difficile da seguire, e tra i due terzi e i tre quarti di coloro che partecipano alla challenge ritornano a diete non vegane subito dopo, e con molta più fame di prima.

Credits: Mike Kemp/In Pictures via Getty

Per questo, nel 2020 Farshad Kazemian e Glen Burrows hanno lanciato la campagna Regenuary, che mira a contrastare le informazioni errate riguardo a Veganuary e a evidenziare i vari modi in cui l’agricoltura rigenerativa può contribuire all’ambiente. Regenuary mette l’accento sulla riflessione sulla produzione alimentare, contrastando la narrazione semplificata che tutti gli alimenti vegetali sono migliori di quelli animali. A differenza delle regole ferree del Veganuary, il Regenuary incoraggia il consumo di prodotti stagionali da aziende agricole con impatti ambientali e sociali inferiori o addirittura benefici. Un approccio che anche Peter Singer descrive nel suo libro come “onnivorismo coscienzioso”, opponendosi all’allevamento industriale ma accogliendo il consumo di prodotti di origine animale solo da allevatori che trattano bene le loro bestie.

 

E forse può essere la strada giusta per uscire dall’algoritmo social, e avvicinarsi più spontaneamente a stili di vita più sostenibili, ambientalmente e umanamente, per un periodo di tempo più duraturo.

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