La seconda stagione di ‘The Bear’ esce dalla cucina, e fa jackpot | Rolling Stone Italia
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La seconda stagione di ‘The Bear’ esce dalla cucina, e fa jackpot

Il The Beef è chiuso per lavori e la sua truppa di disadattati va in giro per Chicago e per il mondo, confrontandosi con i proprio demoni e vivendo una parvenza di vita reale dove nessuno ti risponde ‘Sì, Chef!’ ma è più facile che ti mandino a fare in culo. Funziona comunque? Forse, pure di più

La seconda stagione di ‘The Bear’ esce dalla cucina, e fa jackpot

Carmy (Jeremy Allen White) e Sydney (Ayo Edebiri) in una scena della seconda stagione di 'The Bear'

Foto: Disney+

È stata una delle serie rivelazione del 2022. Adesso The Bear torna con la sua seconda stagione, per scoprire come avverrà la trasformazione del The Beef of Chicagoland nel vero ristorante dei sogni di Carmen Berzatto detto Carmy, sempre interpretato da Jeremy Allen White, che – dopo avere già vinto il Golden Globe – si è pure conquistato una candidatura all’Emmy come miglior attore protagonista per questo ruolo. Tredici nomination in tutto per una serie che racconta la vita all’interno di una cucina e l’ossessione che attanaglia chiunque per mestiere facci una cosa che unisce l’arte con un servizio sociale: dare da mangiare alla gente. C’è chi lo ritiene una necessità, chi un piacere. Ma in realtà cucinare è una patologia, spesso non ha neanche a che fare con un reale amore per il cibo, rasenta la scienza e la follia, uno chef è più affine al dottor Frankenstein che alle polpette al sugo di nonna.

The Bear questo lo spiega perfettamente nella prima stagione; nella seconda, che arriva su Disney+ il 16 agosto, dato che il ristorante viene sventrato per fare i lavori e trasformarlo in qualcosa di nuovo, il racconto prende una piega per molti versi ancora più avvincente, mandando questa truppa di disadattati in giro per il mondo, facendoli uscire dalla cucina, costringendoli a confrontarsi con i proprio demoni, a vivere una parvenza di vita reale dove nessuno ti risponde «Sì, Chef!» ma è più facile che ti mandino a fare in culo. Una variazione geniale da parte di  Christopher Storer, creatore della serie, uno che da produttore, regista e sceneggiatore ha fatto tante cose interessanti, ma che con la storia di questo scalcagnato ristorante a Chicago preso in eredità e in gestione da uno degli chef più celebrati d’America ha davvero fatto centro.

The Bear è proprio ciò che esce dalla sua cucina: un piatto perfettamente equilibrato. La ricetta della prima stagione è quella di una sit-com classica, con una location principale e poco altro, i cui ingredienti principali sono una regia modernissima, un bilanciamento ineccepibile tra dramma e commedia, personaggi costruiti in maniera impeccabile ma mai troppo svelati o delineati. E naturalmente un eccezionale colpo di scena finale che ci accompagna verso l’inevitabile e anche necessaria e agognata seconda stagione. Che, guarda un po’, è (fortunatamente) tutta diversa, e si appoggia alla struttura che va molto di moda oggi, ossia quella di dedicare a ogni personaggio una puntata, mentre apparentemente il protagonista resta sullo sfondo.

Non è così, lo si scopre nell’evoluzione di questa seconda, davvero magnifica stagione, in cui lo chef stellato è il deus ex machina dietro ogni cosa. Sarà lui a dare una ragione di vita al cugino Richie (che personaggio fantastico, quello interpretato da Ebon Moss-Bachrach), a indirizzare definitivamente la carriera della sua giovane sous-chef Sydney e del pasticciere Marcus, come ci ha raccontato anche il suo interprete Lionel Boyce con cui abbiamo fatto quattro chiacchiere. «L’obiettivo di Marcus è andare avanti, conoscere il mondo e aspirare alla grandezza. Nella prima stagione ha scoperto la passione per il suo lavoro e quando incontra Carmy capisce di avere trovato qualcuno che lo può aiutare a raggiungere il livello successivo. Ed è quello che succede in questa seconda stagione, quando Carmy lo manda a Copenaghen per farlo lavorare con una persona che può aiutarlo a fare il grande salto». Scopriamo così anche un pezzo del passato di Carmy mentre è proprio lui che sta perdendo l’equilibrio lontano dall’unico posto in cui riesce si sente realizzato e al sicuro, la cucina, dove i sentimenti possono e devono essere messi da parte. Fuori di là il pericolo è dietro l’angolo, quello di ricordarsi di avere un cuore.

Carmy (Jeremy Allen White) e Richie (Ebon Moss-Bachrach); Foto: Disney+

Tutti cambiano, evolvono, si mettono in discussione: Richie, Sydney, Marcus, Tina, Natalie, Neil. Carmy ci prova, salvo poi accartocciarsi su sé stesso, mentre attorno a lui prende forma un impeccabile servizio in sala, un menu che punta ad accaparrarsi la prima stella, un business plan che cerca di far quadrare i conti, una linea di cucina che cade, si rialza, inciampa di nuovo e poi finisce per reggersi miracolosamente in piedi. Si ride meno e ci si commuove di più rispetto alla prima stagione, e a farla da padrone sono pure le guest star che arrivano quando meno te l’aspetti, regalando episodi che passeranno alla storia della serialità televisiva.

Ciliegina sulla torta è la dirompente, in qualsiasi senso, apparizione di Donna, la madre di Carmy. Alcolizzata, bipolare, depressa, ruba la scena nella puntata flashback che è il centro di tutta la stagione grazie a un’eccezionale Jamie Lee Curtis, che dopo l’Oscar è decisamente pronta a mettere sul caminetto qualche altro premio di spessore. A farle compagnia nello stesso episodio Bob Odenkirk, il Saul Goodman di Breaking Bad e Better Call Saul, la cui partecipazione a The Bear era già stata ampiamente anticipata nei mesi scorsi: meglio che non siate ancora sazi, perché i cameo da lasciare a bocca aperta – no pun intended – non finiscono certo qui, ma mica vogliamo rovinarvi il dessert.

C’è un pezzo di ognuno di noi in The Bear, un po’ come in quel pub di Boston di proprietà di un ex giocatore di baseball alcolizzato, quel posto dove tutti conoscono il tuo nome. O in una tavola calda dove una cameriera chiamata Alice spiegava quanto fosse difficile essere una donna in America negli anni Settanta. Bere e mangiare ci tengono in vita, ma ancora di più lo fanno le storie che una Feast of Seven Fishes può raccontare.