Il ristorante, come a teatro, è un fatto d’emozione. Parola di Fausto Arrighi | Rolling Stone Italia
10.000 ristoranti e non sentirli

Il ristorante, come a teatro, è un fatto d’emozione. Parola di Fausto Arrighi

L'ex direttore dell'edizione italiana della Guida Michelin: per avvicinare i giovani al mestiere bisogna farli sognare. Gli chef che si tirano fuori dal gioco delle stelle? «Grazie alla Rossa, migliaia di persone possono finire in un ristorante. La Guida in cambio non chiede nulla, nemmeno i ringraziamenti»

Fausto Arrighi

Fausto Arrighi a Portrait Milano

Credits: Edoardo Anastasio

Fausto Arrighi è uno che ai dettagli ci tiene. Forse ce l’ha nell’indole, o forse, a esser stato per trentasei anni ispettore Michelin – otto di questi trascorsi alla cattedra del direttore dell’edizione Italia – è un callo che ti si forma attorno a tutti i sensi. Non solo nel gusto, o sul palato. D’altronde, non è verità rivelata: al ristorante si va certo per mangiare, ma soprattutto per godere di un certo tipo d’emozione. Una scarica quasi ineffabile, filo che congiunge tutti gli organi della percezione e ci fa tirare il famigerato sospiro di sollievo: sì, qui stiamo bene, e possiamo condividere del tempo di valore con chi è seduto alla nostra tavola.

Non sfuggirà il paradosso: chi visita ristoranti su ristoranti (anche più di uno al giorno) e li giudica per una guida, anzi, per La Guida – La Rossa, mito dei viaggiatori e dei gourmand di tutto il mondo dal 1898, le stelle arriveranno nel 1926 – esercita una professione per la più parte solitaria. E se ci sono due attività che non sono ancora del tutto socialmente accettate, nel nostro paese, be’, sono l’andare a mangiare da soli al ristorante (non al caffè sotto l’ufficio in pausa pranzo, proprio fuori a cena) e il recarsi in solo a un qualsiasi evento culturale, come uno spettacolo di teatro.

Ma c’è altro che le due esperienze condividono. Seguendo la lezione di Arrighi, in realtà, tutto. Non perché, prendendo l’adagio di Jean-Paul Sartre, il cameriere rappresenterebbe la “malafede esistenziale” di una vita inautentica, persa a recitare la parte di sé stessi. Ma perché, come un’opera lirica deve essere eseguita di concerto (pun intended) e con verità per risultare non tanto credibile, quanto piacevole per lo spettatore, così il ristorante. Dove lo chef sarebbe il soprano solista, la brigata di cucina il direttore d’orchestra, la sala la sezione fiati, e così via.

Non per nulla l’ultimo libro di Arrighi, pubblicato quest’anno da Maretti Editore, si intitola Al ristorante come a teatro. Manuale di comportamento per cuochi, camerieri, ristoratori e un po’ anche per clienti, dove il fu direttore della Rossa si propone di svelare – sempre in ottica di servizio e mai di prescrizione – tutta la verità e nient’altro che la verità su come dovreste essere trattati al ristorante. Ma, soprattutto, come dovreste comportarvi voi. Come anche il significato di espressioni tecniche ma anche un po’ sexy, armi affilate da sfoderare al prossimo appuntamento galante: Chef de Rang, Chef Entremetier…

 

 
 
 
 
 
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Si potrebbe dire: fidatevi di uno che l’ha fatto di lavoro, e che ha più di 10.000 ristoranti in corpo. Ma questo sarebbe noioso. Noi preferiamo lasciare spazio alle parole. Che ci pare più educato, multisensoriale, ed elegante. L’ouverture recita così: «Così come il teatro ha le maschere dell’accoglienza, gli attori e i cantanti che ti delizieranno con il loro recitar cantando, la musica conosciuta suonata e cantata dall’orchestra a il coro, il tutto coordinato da un direttore d’orchestra che con la sua bacchetta magica governerà tutto questo, allora anche il ristorante, con le proprie modalità espressive, ben si allinea a questo modus operandi. È la particolare arte del rappresentare (un testo o un menu) tramite un’azione scenica».

Lo spettacolo sta per cominciare. Mi raccomando: attenzione ai dettagli.

Chi è Fausto Arrighi?
Me lo sto chiedendo ancora anche io. È uno che non si ferma mai, che ha vissuto tutta la vita in un ambiente, quello della ristorazione. E quindi che ha visto l’evoluzione dei tempi, e il nuovo che avanzava. Da un’epoca di tradizione siamo arrivati a forme diverse, contemporanee, che sono poi quelli che ritroviamo oggi.

Parlaci meglio di questo percorso.
A volte nasce tutto da una casualità, questo è il mio caso. Prima della ristorazione ho fatto un percorso diverso, ero giovane, avevo voglia di scoprire il mondo, e lavorare in strutture alberghiere mi permetteva di avere sia vitto e alloggio che una paga. Poi è arrivato il momento in cui bisognava mettere la testa a posto, darsi una struttura per il futuro. E qui entra in gioco la casualità, nel senso che poi sono entrato in contatto con l’ambiente della Guida Michelin e si è creata la sinergia giusta. Un’azienda in cui ho poi passato 36 anni, provando ristoranti in tutto il mondo. Di questi, gli ultimi 8 anni li ha passati da direttore. Poi è arrivata la pensione.

Non mi sembra però che la nozione di “pensione” ti appartenga.
È vero, ma perché chi sei stato, le persone che hai conosciuto, diventano un impegno. Magari ti chiedono qualche consulenza, con alcuni hai un rapporto sia professionale che di amicizia, specie quando si tratta di chef stellati. E ti coinvolgono nelle loro esperienze, sei un compagno di viaggio. Per davvero non si finisce mai. Ultimamente mi concentro molto sui Paesi emergenti, Slovenia e Croazia per dire, a volte anche Albania, luoghi che vogliono crescere e farlo in fretta.

Ti ritrovi in questa nuova dimensione della tua professionalità?
Diciamo di sì. Se il fisico regge, del resto sono sempre curioso. Ti trovi a vivere le storie di tanti chef. Molti di quelli che oggi sono ai massimi livelli, be’, io li ho visti crescere. Ti gratifica, vuol dire che hai puntato sui cavalli giusti. Poi certo, loro sono stati bravi a giocare la loro partita.

Anche perché, diciamo così, tu sei entrato in Michelin da ispettore in anni in cui la cucina italiana era allo stato brado. Gualtiero Marchesi stava iniziando proprio con te, metà anni Settanta e giù di lì.
Sì, prima si parlava di cucina come tradizione e classicità. La grande ristorazione da noi non esisteva, era un limite. Alla fine siamo figli di trattori. Con l’avvento della nuova cucina c’è stata una svolta, dalla presentazione agli ingredienti, tutto un mondo nuovo ai suoi albori. Io l’ho vissuto con immenso piacere, soprattutto perché il nuovo non ha regole. La tradizione è più fissa, ha certi dettami. Oggi invece la cucina ruota attorno allo chef, è personale e personalizzata. Magari si applica una tecnica o l’altra, ma non è più il fulcro del tavolo. Anche se c’è da dire che la base non cambia: il risultato deve essere buono, punto. Questa è una cosa che non passa mai di moda, il piacere della tavola. Se lo deve ricordare anche la sperimentazione, perché il virtuosismo senza il piacere non è nulla. Questo è un primo aspetto. Poi, proprio perché tutto si concentra sugli chef, il ristorante deve fornire il contesto per passare un momento bello, conviviale, con le persone con cui sono, e non per andare a vedere lo show di un fenomeno. La cucina, la sua esperienza mi deve saper fornire anche questa gratificazione. È una certa magia, un risultato che è la somma di più componenti: l’ambiente, il comfort, eccetera, tutto quello che alla fine ti fa dire che sì, hai passato una bella serata.

Riassumendo: il nuovo non ha regole ma fino a un certo punto, invece l’ispettore Michelin le regole le deve avere eccome. Quali sono?
Innanzitutto ci sono alcune regole-base, che valgono per tutte le cucine in tuti i periodi storici: qualità della materia prima, presentazione del piatto, composizione adeguata del menu, gusto ed equilibrio. Queste sono le fondamenta di una cucina buona, anche intrigante se vogliamo. Il concetto però è sempre: chi fa le cose difficili, le deve saper fare. Si può andare anche più sul semplice, ma il metro di giudizio non cambia. Se la materia è di qualità, se la manualità dello chef non la rovina ma al contrario la valorizza, se la presentazione ha un pensiero dietro, voilà. C’è poi da tenere d’occhio il rapporto tra il prezzo e la qualità dell’esperienza, naturalmente, e in questo computo bisogna stare attenti anche al livello del servizio. Quello che paghi non si giustifica solo nel piatto.

Hai detto “intrigante”, abbiamo scherzato di colpi di fulmine: c’è mai stato un piatto che ti ha fatto innamorare al primo sguardo?
Lo dico sempre con immenso piacere: il primo piatto d’amore della mia vita sono stati i marubini in brodo di mia madre. Poi la cucina è curiosità, certo, e certo che ho mangiato piatti di livello superiore. Ma è anche piacere, del palato in primis, è qualcosa che scompare, che mangi e non è più lì. Quindi innamoramento forse è una parola troppo pesante per qualcosa di volatile. Forse è più importante l’intenzione del menu nel suo complesso, che non deve presentare alti e bassi. A un certo punto deve arrivare il piatto della memoria, nel senso, quello che ti ricorderai il giorno dopo come un mese dopo. Troppo spesso, purtroppo, non si presenta, tanta precisione ma nulla di incisivo. Allora vuol dire che c’è un limite in quella cucina. Perché non posso andare a mangiare in un ristorante e non ricordarmi che cosa ho mangiato. È come un’opera lirica: a un certo punto serve il momento topico, quello della romanza, e se non giunge vuol dire che c’è qualcosa che non va.

E ci possono essere anche alti e bassi nel lavoro quotidiano di un ispettore Michelin?
Ci sono tanti aspetti positivi di questo lavoro, il piacere della scoperta su tutti. Andare in un posto anche poco battuto, stare bene, trovare il talento di qualcuno che non vuole per forza apparire ma semplicemente sta facendo le cose come si deve. Certo, è una vita solitaria e da solitari. Io credo di aver superato ampiamente i 10.000 ristoranti provati, e almeno 8.000 di questi li ho visitati da solo. E l’esperienza è diversa da quella degli altri ospiti, non sei uno qualunque. Non perché tu abbia un qualche status, ma perché usi uno sguardo diverso. Si vede il ristorante come un unico grande tavolo, un unico grande teatro. Ed è come se condividessi la tua cena con tutti gli altri ospiti presenti. Guardi come viene effettuato il servizio, come il cameriere si approccia al tavolo, il tono di voce, la gestualità, ascolti il tavolo vicino e magari qualcuno parla pure male della Guida Michelin… Vivi la convivialità anche in questa dimensione. Questo significa vivere la realtà del ristorante, e il giudizio che si esprime deve tener conto anche di questo. Se ti assumi la responsabilità di dire a un lettore: vai lì, perché lì mangi bene, il tuo giudizio deve essere sostanziato da qualcosa. Come quando si toglie una stella a qualcuno. Non è mai un momento di felicità, ma il giudizio tiene sempre conto della fruizione finale, la deontologia va in primis verso il lettore: se va in un posto consigliato da te, e non trova quello che si aspetta, sarà deluso.

Questa è anche un po’ la domanda che, una volta nella vita, ci facciamo tutti: come vengono assegnate le stelle Michelin?
Una stella è data da un insieme di cose, un insieme di valutazioni che portano a dire che quel ristorante è di livello superiore. E questa può essere la tua opinione di singolo ispettore. Poi ci sono le riprove, ovvero altri ispettori che vanno a provare lo stesso ristorante e tutti insieme ci si assicura che la proposta del ristorante sia conforme alle regole aziendali per l’assegnazione della stella. Se tutto torna, si procedere con la candidatura, e quando un certo numeri di pareri sono prodotti, e sono tutti positivi, eccoci qua. A volte è una questione di mesi, altre di anni. Ma si premia anche la crescita continua e costante.

Che cosa distingue un ristorante una stella da uno con due stelle, o tre?
La prima stella può essere una cucina eseguita precisamente, con piatti tradizionali o che dialogano ancora massicciamente con la tradizione. La seconda stella comincia a diventare più intrigante, si sente di più la mano dello chef. È il momento in cui il suo nome scavalca quello del ristorante. Non si dirà più “vado a mangiare in quel posto”, ma “vado a mangiare da quello chef”. Un tre stelle è un grande ristorante in tutti i sensi: cucina eccezionale, cantina importante, ambiente curato in ogni dettaglio, tenendo sempre presente che si tratta di strutture che accolgono ospiti da tutto il mondo, e che organizzano le visite con mesi di anticipo. Arrivati a questo livello, più che il formato della cucina è una questione di formato dell’esperienza. Si deve parlare sempre di grandi emozioni.

Le stelle si tolgono anche. Che cosa succede in questo caso?
Il processo spesso si attiva grazie al feedback dei lettori. Magari leggono un giudizio sulla Guida e non si trovano d’accordo – succede molte volte sull’emotività, su quello che lascia l’esperienza -, così ci segnalano che non si sono trovati bene. Quindi il nostro compito è capire in primis che cosa non sta più funzionando. Quando si parla di gestioni famigliari, può essere colpa di qualche dissapore interno. Oppure potrebbe essersene andato un membro fondamentale della brigata. In questo caso non si parlerebbe dello chef, ma di un altro componente della cucina, lo chef le mani in pasta non le mette quasi mai. Sono situazioni spiacevoli, soprattutto perché l’ospite, pagando cifre consistenti, non può andarsene deluso. Sono disservizi che non dovrebbero capitare. Ripeto, l’emozione deve esserci sempre. Altre volte invece capita che si tolga una stella perché si è arrivati alla fine di un percorso, la cucina si trascina fino al momento in cui lasciano perdere tutto. Ci sono anche quelli che tengono duro, per portarsi la medaglia fino alla pensione. Io dico, perché no.

Poi ci sono anche quelli che dal 1959 prendono sempre una stella. Ovvero, Arnaldo Clinica Gastronomica a Rubiera, la prima stella Michelin d’Italia.
È il ricordo di una ristorazione che dura da sempre. Carrelli di bolliti, arrosti, … è la tradizione italiana, quella semplice. Arnaldo rappresenta tutti quei posti in cui anche i commercianti, per esempio, andavano la domenica, dove portavano la famiglia a mangiare perché si stava bene. Questo, nel loro caso, è rimasto nel tempo. Sono un’istituzione. Potranno non essere in linea con i nuovi stellati, ma la loro, di linea, non è mai cambiata. Perché bisogna anche valutare questo: è una cucina che è peggiorata dal passato, o è sempre stata fedele a se stessa? Se la risposta, come in questo caso, è che è sempre stata in linea, allora si tiene la stella. Oggi, la domanda che si pone l’alta ristorazione è proprio questa: se si debba buttare via tutta la tradizione o no. Molto spesso la cucina dei nuovi chef è generalmente contemporanea, ma anche senza direzione. Che cosa resta, che cosa resterà? Tutto potrebbe volatilizzarsi con il cambiamento di questa o quella tecnica. Sono cose che faranno parte di un discorso gastronomico legato al tempo? La tradizione ha già la sua risposta, ed è sì. Io a casa ho circa 600 libri di cucina italiana. Quanto è stato scritto, quanto di buono c’è stato nel nostro passato. È una cosa da salvaguardare. Diciamo sempre che siamo la cucina migliore del mondo, ma poi vai a mangiare da un giovane chef italiano e non ti ritrovi geograficamente, potresti essere in Germania come in Olanda. La cucina moderna la puoi trovare in qualsiasi parte del mondo. Spesso non c’è identificazione territoriale.

 

 
 
 
 
 
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Giovani chef: chi ti piace? Chi si sta distinguendo?
Giovani interessanti ce ne sono. Sta cambiando la metodologia della cucina e del servizio, alcuni fanno solo menu degustazione. In un certo senso sembra che la cucina sia diventata più facile. Lo chef è l’autore, no? Come se fosse un’opera. Tutto il resto è il gioco della ristorazione, concentrandoci solo sul piatto si diventa tutti tecnici della ristorazione, clienti in primis. Invece il piacere dell’incontro, del guardarsi negli occhi, passa da tutto il resto. A volte i giovani di oggi sono troppo giovani. Li premiamo, ed è giusto, ma bisognerebbe anche fare una riflessione più ampia sul tema. Non lavorano nella loro struttura, fanno richieste eccessive al proprietario, propongono una cucina copiata. In questo contesto il menu degustazione è anche una scelta furbetta per sottrarsi al dover costruire una carta coerente, che ha sempre bisogno di una linea, semantica e di cucina. Altra cosa: il cliente una volta mangiava tutto, oggi ci sono molte più specifiche a livello di allergie, eccetera. Di sicuro questo va a svantaggio dei nuovi chef, ma tutto sommato non si può nemmeno finire al polo opposto, dimenticandosi di quello che c’era prima.

Soprattutto da quando c’è MasterChef, invece, ci hanno detto che il centro della cucina è lo chef.
Che lo chef abbia più centralità è inevitabile. A volte però diventano troppo personaggi, escono dalle regole della ristorazione. La sala è fondamentale, per esempio. L’armonia è il tutto, non il piatto. Se lo chef prevale sul resto, ecco, deve essere davvero bravo e attento, e deve essere parte del patto e del gioco con il cliente. Quando capita che chef che sono personaggi televisivi aprono ristoranti, si polarizza l’esperienza, perché tanti vanno lì solo per farsi il famoso selfie con la celebrità. E questo va a discapito dell’esperienza di tutti gli altri avventori.

Questo si lega anche al tema della critica dal basso. Chiunque su internet può improvvisarsi critico gastronomico. Tu hai già dichiarato che TripAdvisor non ti piace: credi che la qualità approssimativa dei commenti “democratici” vada a discapito della critica professionistica, che ne infici la qualità nella forma o nel contenuto?
Quando ho iniziato io, i giornalisti che parlavano di cucina erano davvero pochi. Gianni Brera, Veronelli, … personaggi con grande esperienza nel settore. Brera per esempio, che era uno sportivo, andava a cercare il ristorante migliore dovunque andasse. Oggi tutti si dicono esperti. Perché hanno la possibilità di scrivere, di raccontare, a volte senza avere l’esperienza o anche solo per scroccare un pasto in un ristorante. È un forte limite per il settore, che è importante, soprattutto in un paese come l’Italia che vive in gran parte di turismo. E se andiamo a banalizzarlo finiamo per perdere la nostra identità. Questo sarebbe un grave errore.

Torniamo un attimo alle stelle: alcuni chef si sono tirati fuori dal gioco, pensiamo sempre a Gualtiero Marchesi. È la risposta a un limite creativo oggettivo che viene imposto? Un non riconoscere adeguatamente il valore della Guida?
La stella, chi non ce l’ha vuole averla, quando ce l’hai la devi saper gestire, ma la considerazione alla base è sempre quella: bisogna lavorare per il cliente. Questo spesso viene interpretato male da chi lo fa. Non bisogna lavorare per la Guida, è la Guida a premiare chi lavora bene. Se ti hanno gratificato, vuol dire che sei sulla strada giusta. Poi ci sono molti aspetti da tenere in considerazione, certo: magari non sei più al passo con i tempi della cucina, magari non vuoi più essere giudicato, è una scelta legittima levarsi dalla partita. Attorno a queste cose ci si gioca. Bisogna però sottolineare un aspetto, e io lo faccio sempre, specialmente con i personaggi di peso come è stato lo stesso Marchesi: grazie alla Rossa, migliaia di persone possono finire in un ristorante. E la Guida in cambio non chiede nulla, se non di fare il tuo lavoro e farlo bene. Non chiede nemmeno i ringraziamenti. Gli chef dovrebbero averlo presente, invece sembra se ne accorgano solo quando vengono criticati. Non fanno mai il famoso passo indietro per cercare di capire quello che non va, la prendono di petto.

La Rossa contro le altre guide, pensiamo alla 50 Best. Sono effettivamente delle alternative alla Michelin, o si parla di campionati diversi?
Ci sono logiche diverse alla base di queste guide. La Michelin opera per i lettori, non per gli chef. Questo ci porta a selezionare non solo gli stellati, ma a mappare più minuziosamente ilterritorio. Ci sono i Bib Gourmand, spendi poco e mangi bene. Alcuni vengono segnalati senza meritare una stella, però ci sono. Gli altri si limitano a fare le classifiche dei migliori, e la domanda che scaturisce è: perché sono in terza posizione e non in prima, in decima e non in ottava? Si sposta il focus della conversazione sulla competizione. Che se ne parli va sempre bene, per carità. Ma sono due cose completamente diverse. Io avrei oggettivamente difficoltà a paragonare un ristorante peruviano con uno norvegese o milanese. Su tutti i livelli: cucina, carattere, clientela. Anche con tutta l’esperienza che posso avere, non saprei davvero dire chi sia il migliore.

Verso la Michelin, ciclicamente, arrivano le illazioni: che gli ispettori non vadano davvero a provare i ristoranti tutti gli anni, che si faccia copia incolla dall’edizione precedente, …
I ristoranti vengono provati. A rotazione, lavoriamo 365 giorni all’anno, non ci si ferma mai. Non c’è un limite oggettivo che impedisce di andare a provare i ristoranti. Alcuni di questi tengono uguale la loro linea di cucina e fanno sempre bene, quindi non cambia niente per loro. Il movimento si trova di più nella nuova ristorazione, uno chef che cambia, e così via. L’aspetto fondamentale della Michelin è che i suoi ispettori sono anonimi, che pagano loro i conti degli ispettori, e che il giudizio di tutti gli ispettori avviene solo sulla base delle regole della Guida. Questo non lo fa nessun altro, ma non sto a giudicare gli altri, non è nel mio stile. Io so però come si opera nella Rossa. Che gli altri dicano, giudichino, la Michelin non risponde mai. La nostra logica è lavorare bene, e seriamente.

L’Italia conta tredici tristellati ma una sola Executive Chef, Nadia Santini del Pescatore a Canneto sull’Oglio. Com’è la cucina per le donne, oggi?
Il lavoro in cucina è duro e complesso, in ogni cucina. I Santini sono una delle colonne portanti della ristorazione italiana tradizionale, quella che si porta avanti da generazioni, che nasce territoriale ma sa espandersi intelligentemente sull’internazionale, e sa anche evolversi con l’evolvere della propria clientela, senza mai snaturarsi. Ma, arrivando alla cucina “al femminile”. Per me ha molta più umiltà di quella al maschile, e ha il valore aggiunto di fondarsi sulla cura, di voler fare star bene le persone. C’è meno supponenza. Inoltre, il palato di una donna è molto più raffinato di quello di un uomo.

Prima di salutarci, ci parli del tuo nuovo libro?
Quello che ho scritto è un manuale di comportamento sia per gli addetti ai lavori che per gli ospiti. Ho paragonato tutto a un teatro, perché come si recita in teatro si recita al ristorante. Lì viene fuori la professionalità di chi sarà l’attore dell’occasione. Dall’altro lato, anche il cliente deve essere educato, sapere come comportarsi. Li vedi subito: ci sono quelli che tengono un atteggiamento adeguato, e quelli che invece devono essere accompagnati con garbo dal personale. Questo è un po’ il sunto. Avendo vissuto i ristoranti per tutta la vita, per me sono davvero come un palcoscenico. È un mestiere che non vuol più fare nessuno, è la più grossa problematica del settore. Bisogna far sognare i giovani, avvicinarli al mestiere. Insegnare loro come rapportarsi con le altre persone. L’ho scritto anche per far questo.

Aspetta, un’ultima cosa: noi ci chiamiamo Alfredo. Delle fettuccine che ne pensi?
Me le ricordo negli Stati Uniti, venivano servite come simbolo di italianità sui transatlantici. È pasta, no? Qualcosa con cui noi italiani ci identifichiamo molto.

Ci ho preso gusto: immaginiamo che volessi fare una festa da te, per cena. Chi sono i tuoi ospiti ideali, e che cosa si mangia?
È una bella domanda. Dipende chi cucina. Se cucinassi io, farei due piatti ruffiani per vendermi bene. Cercherei di raccontarla bene, di intortarli un po’. A tavola con me vorrei solo grandi amici che non parlano di cucina. Dobbiamo tornare al piacere della tavola, alla condivisione.

Intervista a Fausto Arrighi, ex direttore della Guida Michelin Italia - Alfredo Magazine

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