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Il Crispy McBacon è una ricetta italiana. E fu inventato da Burghy

Alzi la mano chi non conosce Burghy: fast food di culto dei Paninari di San Babila, ha insegnato agli italiani la cultura del panino a stelle e strisce. Ora è solo un ricordo, ma la sua eredità continua. La trovate, nello specifico, da McDonald's.
Credits: Angelo Deligio/Mondadori Portfolio via Getty

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Un’insegna rossa con la scritta gialla. E gorda. “Burghy”, le tende a strisce degli stessi colori con al centro un logo fatto di una B incastonata in un hamburger stilizzato, la metro San Babila a pochi metri. Davanti a questa scenografia ronzano ragazzi e ragazze vestiti con una divisa appariscente: piumino Moncler tirato a lucido, Timberland ai piedi, cintura El Charro con la fibbia grossa quanto una mano, pantaloni ricorciati, capelli cotonati. Siamo a Milano e i primi coloratissimi, eccentrici, kitschissimi mesi degli anni Ottanta stanno spazzando via il piombo del decennio precedente. I depoliticizzati ed edonisti Paninari si sono presi la scena: sono la prima vera sottocultura Made in Italy, e oltre all’ossessione per una serie di marche e modelli iconici (anche parecchio costosi), hanno costruito un immaginario di galli (ragazzi molto fichi) e sfitinzie (ragazze altrettanto fighe).

Il nome Paninari l’hanno preso dal Bar il Panino di Piazza Liberty, a Milano, ma nel 1981 è successo qualcosa che ha fatto spostare il loro quartier generale tre minuti più in là, nella Piazza San Babila di cui sopra. Dove ha aperto Burghy, il primo fast food italiano che vuole portare due morsi di sogno americano in un Paese che non vede l’ora di scrollarsi di dosso l’austerità in bianco e nero della Prima Repubblica, e che prepara lo stomaco per un’abbuffata di berlusconismo e TV private.

Credits: Angelo Deligio/Mondadori Portfolio via Getty

Burghy è una catena di fast-food fondata nel 1981 da Supermercati GS. Il primo store è quello dei Paninari di Piazza San Babila a Milano, a poche centinaia di metri dal Duomo. I panini che vanno per la maggiore sono il King Chees e il King Fish. L’immagine della catena è affidata alla mascotte Willy Denti, la cui anatomia è ridotta a carnose labbra rosso rubino che non riescono a nascondere una perfetta dentatura, occhi che strabuzzano di appetito e due gambine con cui, nelle pubblicità alle tele, insegue un hamburger (Mr. Burgy), un pacchetto di patatine (Patty) e una cola (Freddy). Grazie a queste intuizioni commerciali e a importanti investimenti pubblicitari, il successo è immediato, tanto che in pochi anni, sempre a Milano, aprono altri cinque punti vendita.

Quello che sembra un successo scontato si trova però a fare i conti con una gestione economica complicata, e in pochi anni Supermercati GS deve disfarsi dei suoi fast food. Il Gruppo Cremonini, azienda del modenese attiva nel settore alimentare (già il fornitore della carne di Supermercati GS), decide di fare l’all-in e rileva Burghy. D’altronde, l’azienda si sta già muovendo in quella direzione, e scalare l’attività sembra essere alla portata: nel 1982 ha acquistato una società di ristorazione milanese e due anni dopo Italy & Italy, un fast food all’italiana di Rimini. Poco dopo invece in provincia di Varese, a Castelletto Ticino, apre il primo drive-in italiano. Nel 1988 Luigi Cremonini, fondatore del gruppo, passa le redini di Burghy al figlio Vincenzo, che, a soli 25 anni e fresco di laurea, si trova a gestire un’azienda che fatica a trovare la giusta sostenibilità economica. La strategia però è scritta: il Gruppo Cremonini continua a rilevare fast food su e giù per la penisola, senza risparmiare marchi internazionali come Quick, catena belga che aveva aperto a Milano, Genova e Siena. Pochi mesi prima della fine degli anni ‘80 tutti i ristoranti sono riuniti sotto la bandiera di Burghy. Alla metà del decennio successivo, nel momento della sua massima diffusione, la catena ha 96 punti vendita con un fatturato di 200 miliardi di lire.

Mentre Burghy fa scorpacciate di fette di mercato, McDonald’s prepara la sua campagna d’Italia. La compagnia dei Golden Arches aveva già aperto in Europa: a Zaandam, nei pressi di Amsterdam, addirittura nel 1971. In Italia però qualsiasi voce dell’operazione era sempre stata accompagnata da un certo scetticismo, e se l’inaugurazione del primo ristorante – nel 1985 a Bolzano – era passata piuttosto inosservata, l’annuncio dell’apertura di un McDonald’s a Roma diventa un caso nazionale.

Credits: Mike Kemp/In Pictures via Getty

Nella Capitale McDonald’s apre il 20 marzo 1986. La location è il massimo che più di 2000 anni di storia possono offrire, Piazza di Spagna, in quelli che erano i locali della trattoria Rugantino: non più amatriciane e salti in bocca alla romana, ma Big Mac e patatine fritte. In compenso, nel menù vengono introdotte le insalate. Non basteranno a placare le critiche: intellettuali e noti personaggi dello spettacolo mettono in scena colorate proteste ai limiti della performance artistica, come Renzo Arbore e Claudio Villa che mangiano un piatto di spaghetti davanti all’iconica insegna del Mc, o Valentino che minaccia querele perché i vestiti nel suo atelier si sarebbero impregnati di puzza. Sempre da quei giorni di fermento, come un chiaro segno di rigetto della cultura fast, nascerà Slow-Food. Tutte le critiche però non hanno il benché minimo effetto sull’inaugurazione: solo la mattina entrano nel McDonald’s di Piazza di Spagna 4.000 persone, e l’incasso sarà di 50 milioni.

L’inizio è scoppiettante, ma il fast food a stelle e strisce inizia a faticare. Alla metà degli anni ‘90 non riesce a tenere il passo di Burghy. Come aveva fatto negli anni precedenti il Gruppo Cremonini, anche McDonald’s crede nel “se non puoi sconfiggerli, comprali”. Tra gli scalpi eccellenti c’è Wendy’s, che aveva aperto il suo primo ristorante qualche anno prima alla stazione della metro Centrale di Milano (ma senza la S del genitivo sassone nell’insegna). La catena era entrata nell’immaginario collettivo italiano ben prima del panino con l’ananas che divide Samuel Lee Jackson e Fran Whaley in Pulp Fiction. Ma anche prima del film Italian Fast Food (1986), ambientato proprio in un Wendy, in cui recitano alcuni dei protagonisti del programma culto di quegli anni, Drive In.

Se McDonalds però vuole conquistare il mercato italiano, l’ultimo boccone è proprio la catena di Cremonini: il 22 marzo 1996, sul Corriere della Sera il titolo “McDonalds mangia Burghy” annuncia l’acquisizione. Le cifre dell’accordo sono segrete ma si parla di 300 miliardi di lire, con il Gruppo Cremonini che diventa il fornitore della catena (e lo è ancora oggi). 

L’eredità di Burghy non si ferma però alle forniture di carne, né al pur immenso contributo dato all’immaginario collettivo nella rivoluzione estetica paninara: se qualcuno volesse assaggiare un po’ di Burghy, può continuare a farlo. Il loro King Bacon era così amato dai clienti che McDonald’s decise di lasciarlo in menù, esportandolo in tutto il mondo. Fu così che nacque il Crispy McBacon.

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