Meno star-system, più impegno politico: il manifesto di Bobo Cerea | Rolling Stone Italia
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Meno star-system, più impegno politico: il manifesto di Bobo Cerea

Lo Chef tristellato del Ristorante Da Vittorio racconta lo stato della ristorazione italiana, tra la dittatura di Instagram, i giovani che vogliono tutto facile, la formazione carente e i francesi da cui prendere esempio. Per fare anche noi la nostra Rivoluzione

Meno star-system, più impegno politico: il manifesto di Bobo Cerea

«Conosco trenta, quaranta giornalisti e so di non stare simpatico a tutti, magari anche a pelle: me ne dovrei forse fare un cruccio?». No che non dovrebbe, Roberto Cerea – «sì, ma tu chiamami Bobo» – nonostante mi sia davvero difficile pensare che l’Executive Chef (insieme al fratello Enrico) del Ristorante Da Vittorio a Brusaporto possa suscitare sentimenti di antipatia o insofferenza. Quando incontri uno Chef che vanta Tre Stelle Michelin sul suo curriculum t’immagini un personaggio ingessato, formale, parecchio calato nel proprio ruolo; uno che non si sbottona troppo facilmente e con cui di sicuro non finisci per berti un paio di bicchieri di vino e un Americano in uno chalet a duemila metri d’altitudine.

E invece. Sarà stata l’aria di montagna, sarà stata l’Alta Langa, sarà stato il pre-serata particolarmente rilassato – ci incontriamo in occasione della rassegna gastronomica di alta cucina Gusto di Montagna, organizzata a Prato Nevoso – ma quella che era partita con l’intenzione di essere un’intervista si trasforma in un aperitivo durante il quale si ride parecchio e si chiacchiera come se ci si conoscesse da sempre, in barba a ogni etichetta o solennità. Bobo silenzia il telefono, ché «non voglio essere disturbato da telefonate o notifiche» e ne approfittiamo per iniziare proprio dai social e in particolare da Instagram, che per i Cerea e per l’alta ristorazione in generale «è tutto sommato un fenomeno positivo, nel senso che ci ha permesso di acquisire una nuova fascia di clientela».

La miccia è stata accesa dalla televisione e da format di successo come MasterChef, che hanno avvicinato le generazioni più giovani alla ristorazione: «Vengono perché affascinati dalla nostra cultura, certo, ma anche perché vogliono apparire e far sapere a tutti di esserci: oggi chi non fa la foto ai paccheri di Vittorio e non la mette su Instagram? Noi non diamo giudizi di merito e la viviamo come una moda: non so dirti se passerà o meno, però è indiscutibilmente un momento da sfruttare. Tra questa pletora di ragazzi che vengono a mangiare da noi ci sarà qualcuno che continuerà a farlo e che costituirà il futuro della nostra clientela. Poi non ci sono mica solo i giovani: tantissime persone di una certa età che magari non avevano mai preso in considerazione l’idea di venire Da Vittorio, oggi lo vogliono provare proprio perché lo vedono sui social».

Alla faccia di chi sosteneva che l’alta ristorazione fosse morta: «per noi tristellati italiani è un gran bel periodo, stiamo lavorando tanto, le persone vogliono uscire, sentirsi spensierate, godersela di più, spendere e regalarsi delle esperienze. Del domani d’altronde abbiamo avuto conferma che non v’è certezza, e l’attitudine al risparmio si è decisamente affievolita: noi nel 2022 abbiamo fatto anche dei matrimoni, cosa mai successa in cinquantaquattro anni di storia. Alcuni sono arrivati a spendere quattrocento, cinquecentomila euro, gente che esplodeva dalla voglia di festeggiare e pareva quasi uscita dalla guerra». 

Che il settore goda di ottima salute lo confermano le tante aperture che si sono susseguite e stanno continuando a susseguirsi, ma c’è anche un rovescio della medaglia rappresentato da «una serie di storture, come gli improvvisati che s’illudono la ristorazione sia la terra del bengodi e si gettano alla cieca, senza avere davvero idea di come si costruisca un’impresa che funzioni». Vorremmo evitarlo, ma viene quasi naturale nominare colui che ormai è lo spauracchio di ogni ristoratore, stellato o non, René Redzepi.

«Quando ho letto del Noma ci sono rimasto sinceramente malissimo: perché uno che è un genio in cucina non riesce a esprimersi, nonostante un locale sempre pieno e per cui era necessario muoversi con mesi e mesi d’anticipo per prenotare? C’è chiaramente qualcosa che non va: alla fine non basta essere uno chef-genio, devi essere pure un imprenditore. Nostro padre ce lo diceva sempre: a fine mese tiriamo la riga e vediamo se esce il verde o il rosso. Basta, il segreto sta – purtroppo o per fortuna – anche in quello. Se esce il verde vai avanti guardando sì al futuro, ma tenendo un piede ben saldo nella tradizione: noi cerchiamo di accontentare tutta la nostra clientela con piatti nuovi, moderni e innovativi, senza però dimenticarci chi siamo e da dove veniamo. Ciò che è accaduto ti costringe a fermarti un attimo e riflettere: accanto alla sostenibilità economica e alla sostenibilità dei prodotti utilizzati, la sostenibilità dell’essere umano ha la stessa identica importanza».

Come si raggiunge? «Ci stiamo concretamente muovendo per raggiungere un reale equilibrio tra vita professionale e privata: da quest’anno abbiamo stabilito che tutti i ragazzi abbiano due giorni off durante la settimana, e in generale siamo i primi a dire che se riusciamo a risparmiargli qualche ora, ben venga. Perché in questo modo nelle restanti in cui sono al ristorante rendono di più. Vogliamo davvero rendere le loro vite migliori, dentro e fuori dal lavoro. L’equilibrio è fondamentale, però, ragazzi, bisogna lavorare. Altrimenti l’azienda non si regge in piedi».

E la voglia di lavorare, ce l’hanno? «È un discorso complesso che parte dalla formazione, che in Italia – a livello di scuole – praticamente non esiste. Alma forse è quella più avanti, insieme a Pollenzo e Intrecci, perché oltre alla teoria i ragazzi fanno anche pratica. Le statali, l’alberghiero per intenderci, sono messe malissimo: quando sento che un professore di cucina può andare a insegnare a ventisei, ventisette anni, mi chiedo ‘ma con quale esperienza?’. Che esperienza di cucina potrà mai trasmettere ai suoi alunni? Io sarei quasi per rendere l’insegnamento obbligatorio solo una volta superati i quarant’anni».

Quindi esiste ancora lo stereotipo che, se sei un somaro, finite le medie vai all’alberghiero? «È ancora così al 90%, una specie di rifugium peccatorum. Gli istituti alberghieri nell’ultimo anno sono calati del 60% a livello di iscrizioni dopo l’impennata che avevano avuto precedentemente. In tanti ci hanno provato, ma appena hanno visto i sacrifici, la dedizione, la fatica che voler far bene questo lavoro comporta, hanno mollato il colpo».

Mi confida di avere un trucco infallibile per capire se si trova davanti uno appassionato e motivato o un potenziale scansafatiche: «al colloquio, se arriva la domanda ‘ma il sabato e la domenica sono liberi?’, capisci che non ci siamo. ‘Quante ore si fanno?’; ‘a che ora inizio?’; ‘a che ora finisco?’: vuoi un consiglio da zio Bobo? Cambia lavoro». Tu lo cambieresti mai? «Se non lavorassi cosa dovrei fare? Starmene tutto il giorno a letto a guardare il soffitto? Ovvio che fai quattordici, quindici ore e capita il giorno in cui sei più stanco o più grintoso, ma non mi è mai passato per l’anticamera del cervello di abbandonare il mio lavoro, di andare in pensione o anche solo di pensare ‘che schifo, mi sono rotto le scatole’. Ormai è diventato la mia vita, e non riuscirei a fare senza. Esattamente come mia madre, che a ottantadue anni se le dici di stare a casa ché tanto siamo tutti al ristorante e lei può pure evitare di venire, ti risponde ‘cosa sto a fare a casa?’. È il suo passatempo, e immagino sarà così anche per noi».

Forse è pure la forza dell’abitudine. «Non è abitudine, è DNA: cerchi sempre di dare il massimo in ciò che fai. Poi siamo esseri umani e lo scivolone capita, però è la vita: ci sono i riconoscimenti e gli inciampi, che devo farci? Mica sono una macchinetta. I nostri genitori ci hanno insegnato sin da piccoli a far le cose per bene, mettendo in conto che sì, l’errore ci sta e fa parte di noi. Però il punto è un altro: a farle fatte bene o fatte male, le cose, impieghi lo stesso tempo. Allora tanto vale farle fatte bene, no?». Certo, però sarà successo che qualcuno abbia scritto una recensione negativa o fomentato una polemica sui social: in questi casi cosa fai? Rispondi? Te la prendi? «Ma perché devo prendermela se qualcuno scrive male di me e del mio ristorante? Io farò sempre il mio lavoro, sia che abbia tre stelle, due stelle, zero stelle: a fine mese tiro una riga, e se il cassetto mi dà ragione quella è la mia personale stella. Sai qual è la cosa più bella? Quando un cliente finisce di mangiare, è sazio, satollo, e mi chiede quand’è la prossima data libera per prenotare un’altra cena, a distanza di due o tre mesi».

Non venirmi a dire che essere un Tre Stelle per te non conta nulla. «Ci mancherebbe! È chiaro che mi faccia piacere: grazie alla Guida Michelin si è creato un indotto e un circuito che non ha eguali e dal quale noi traiamo un innegabile giovamento. In questo e non solo per questo chapeau alla Francia: l’intervento di Macron in videoconferenza durante la cerimonia di premiazione di quest’anno – alla quale sono stati invitati tutti i Tre Stelle europei – ha rappresentato un endorsement incredibile al settore. Ha parlato per dieci minuti ringraziando e complimentandosi col mondo dell’enogastronomia francese, per ciò che fa e per il lavoro che porta al Paese. Perché in Italia nessuno muove un dito in questo senso? Perché non mandiamo i nostri politici a imparare qualcosa dai francesi? Avrei voluto fare un video e mandarlo ai nostri ministri. Perché non ci valorizzano? Qua gira tutto al contrario: lavoriamo bene? Ci tassano di più. Anziché aiutare un mondo che tira, lo ostacolano con un’ostinazione che ha del ridicolo: c’è gelosia, c’è invidia, c’è ignoranza. Ed è un gran peccato».

I tedeschi, che hanno una parola per qualsiasi cosa, la chiamano Schadenfreude, il piacere provocato dalla sfortuna altrui: cambieremo mai? «No, abbiamo vari pregi, ma questo i francesi ce lo fregano. Eppure, sempre in Francia, se vai nei grandi ristoranti mangi bene, mentre le loro trattorie non riescono a competere con le nostre. In Italia mangi ovunque divinamente, in Francia devi fare l’esperienza gastronomica per stare al top. Pensa che durante l’ultimo periodo della pandemia, quando si era deciso di ripartire con determinati orari di apertura e chiusura, abbiamo fatto una lunga telefonata – c’erano anche Massimo Bottura, gli Alajmo e altri – con l’allora ministro dello sviluppo economico. Gli abbiamo chiesto di aiutarci e passato suggerimenti e idee: è stato tutto un ‘vediamo, vediamo’, poi tu l’hai più sentito?».

Non avete mai pensato di associarvi, tra voi tristellati italiani, e intraprendere una qualche azione collettiva? «Non ci siamo ancora arrivati. In generale comunque c’è molta più coesione rispetto al passato. Ho dei ricordi legati agli anni Settanta e Ottanta, quando ancora c’era mio papà, dei rapporti che aveva con i colleghi dell’epoca – Vissani, Marchesi –, che erano piuttosto freddi e distaccati. Oggi invece pure questo si è evoluto, quando ci incontriamo tra noi sembriamo un gruppo di ragazzini in gita che ridono, fanno battute, scherzano, interessati gli uni all’attività degli altri. Alla fine abbiamo creato un mercato della gastronomia, con dei clienti che girano e che amano sperimentare le nostre diverse proposte. È una cosa che fa bene a tutti: s’è formata una bella squadra, c’è un’atmosfera serena, il team Italia non è mai stato tanto in salute. La verità è che forse – per dar vita a un gruppo di una ventina di Chef che si interfacci direttamente con le istituzioni – non avremmo manco il tempo. Bisognerebbe trovarsi come minimo una volta al mese, confrontarsi, parlare, cercare di risolvere questioni insolute, coordinarsi circa le iniziative da intraprendere… sarebbe bello, sì, ma parecchio complicato».

Ti va di chiudere in bellezza con la guida ‘Consigliato da Bobo Cerea’? «Sai quante volte esco in un anno? A dir tanto, dieci. Quando lo faccio, o vado con mia moglie in quei soliti localini dove sappiamo che stiamo bene, oppure se sono via per lavoro cerco di infilarci anche l’esperienza in uno stellato». L’ultimo che hai testato? «Per Se, a New York». E? «E?». Mi scruta con un buffo sguardo interrogativo, cala il silenzio e scoppiamo a ridere. «In Italia ho provato Le Calandre degli Alajmo, Antonino Cannavacciuolo e basta. Mi piacerebbe molto andare da Niko Romito, da Uliassi a Senigallia e da Moreno Cedroni alla Madonnina del Pescatore». Stavo per dirgli che mi sarei aggregata più che volentieri quando viene richiamato all’ordine in cucina, ché la cena sta per cominciare. Ne approfitto in questa sede: caro Bobo, se riesci a organizzare una discesa nelle Marche e in Abruzzo, io vengo con te.

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