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Lost in Translation – Il gergo segreto dei pizzaioli napoletani tradotto

Salvatore Salvo ci guida alla scoperta del ‘pizzese’, l’antichissimo linguaggio in codice da usare in pizzeria per non farsi capire dai clienti che seguiva un’unica, inderogabile regola: non si parla del ‘pizzese’. O almeno, fino a oggi

Si autodefinisce un neoborbonico, Salvatore Salvo, uno “fiero dello splendore di Napoli” da sempre ma soprattutto oggi, grazie al nuovo Rinascimento che sta vivendo ultimamente la sua città. Classe 1982, Salvatore era in un certo senso un predestinato: nel 1968 il padre Giuseppe rileva una pizzeria a Portici, dove a partire da metà anni Novanta lui e il fratello Francesco iniziano a farsi le ossa. Nel 2006, dopo la scomparsa di Giuseppe, i figli inaugurano la loro prima insegna a San Giorgio a Cremano con l’obiettivo di evolvere l’eredità famigliare, quindi lavorando parecchio sugli impasti e sui condimenti. Nel 2018 l’apertura di un secondo ristorante a Napoli, in zona Chiaia, e una pioggia di riconoscimenti – il più recente, i Tre Spicchi e 94 punti su 100 secondo la Guida Pizzerie d’Italia 2023 del Gambero Rosso.

La storia professionale di Salvatore inizia dunque ancor prima di nascere, ed è proprio in virtù di questa lunga tradizione che qui s’è deciso di fargli vestire i panni dell’interprete per spiegare uno dei segreti meglio custoditi dei pizzaioli napoletani: il loro gergo, che nulla ha a che vedere né con il napoletano, né tantomeno con l’italiano. «Si tratta di una sorta di linguaggio in codice da utilizzare in pizzeria in presenza dei clienti per non farsi capire, la sua ragion d’essere è principalmente quella. Serviva insomma a impedire che delle informazioni di servizio potessero essere comprese dai non addetti ai lavori. È legato a dei termini “parenti” della lingua napoletana che il più delle volte derivano dal greco antico, come kalò (bello, buono) e skatà (brutto, scadente)».

Il mestiere del pizzaiolo un tempo era totalmente empirico e non codificato, e veniva tramandato: «per chi andava a lavorare in pizzeria, l’italiano era un po’ come è oggi la conoscenza dell’inglese. La lingua madre era il napoletano, che conviveva con il nostro gergo in codice. Per dire, se io davanti a un cliente avessi esclamato ‘sto impasto è ‘nguttato, lui avrebbe potuto capire; se invece fossi ricorso alla frase ‘sto impasto è skatà, avrei avuto la certezza di non essere compreso».

Ci prendiamo una licenza poetica e decidiamo di chiamarlo pizzese, ché oltre a essere del tutto incomprensibile, questa lingua segreta non ha nemmeno un nome. Accanto a parole che servono a indicare il cliente (parzinè), il proprietario (‘o meschino) e i tipi di impasto (‘ngerato, ossia non sufficientemente lievitato; scriscitato, cioè l’esatto contrario, eccessivamente lievitato; ‘ngurdato, troppo elastico; ammazzaruto, poco sviluppato nel forno), compaiono i numeri della Smorfia.

«La Smorfia è presente ovunque nella cultura napoletana, al punto che tanti continuano ancora oggi giocare al Lotto in una maniera quasi ossessiva: il collegamento ai numeri è in quindi un certo senso connaturato dentro di noi. I pizzaioli li hanno presi e li hanno associati a dei significati: 80, la bocca; 34, la testa, il pensiero; 50, l’impasto; 46, il pomodoro. L’obiettivo è sempre e soltanto uno: confondere chi ascolta, non essere comprensibili. Tipo, 46 skatà vuol dire che il pomodoro non è fresco, è andato a male. Oppure si ricorreva per semplicità ai colori: il verde per il basilico, il rosso per il pomodoro, il bianco per la mozzarella».

Il pizzese non racconta solo l’evoluzione di un mestiere, ma anche quella della società e del contesto culturale in cui il mestiere stesso veniva svolto. «La maggioranza dei pizzaioli una volta era analfabeta, quindi c’era la necessità di ricorrere a dei termini molto pratici che avessero dei riferimenti diretti nella lingua napoletana. Rispetto al presente, un tempo si faceva più bottega: si andava a lavorare in pizzeria da bambini o da poco più che adolescenti e la scolarizzazione era praticamente assente. Quella era la vera scuola: a ventidue, ventitré anni si era già adulti, si possedeva una propria pizzeria o bottega, si avevano dei bambini, si era emancipati. Nulla era scritto o codificato, nemmeno la ricetta dell’impasto, perché il mestiere si assimilava. A meno di non avere un genitore con la stessa attività, per cui interessato a trasmettere ai figli la propria esperienza, il mastro spesso era geloso dei suoi segreti, perché si sentiva custode di una verità assoluta. Accadeva quindi che il garzone venisse fatto uscire quando il maestro condiva l’impasto aggiungendo sale, lievito eccetera, in modo tale da non passargli le informazioni sui dosaggi».

Tutto era basato sulla sensibilità e l’esperienza, e la necessità di fare bottega ne era la diretta conseguenza: «oggi ci sono le scuole, i corsi, i ricettari: se sei bravo e capace approfondisci lo studio, ti migliori e crei “la tua” pizza; prima una cosa del genere era impensabile». Il bisogno di ricorrere al pizzese era dettato pure da un’esigenza di spazi: «una volta le botteghe erano molto piccole, dunque ogni cosa avveniva sotto gli occhi del cliente. Le pizzerie erano più che altro da asporto con appena un paio di tavoli, e si viveva letteralmente davanti ai suoi occhi: oggi pochissime conservano il bancone a vista, si tende a essere molto più dietro alle quinte e l’unico contatto che il cliente ha è quello con il cameriere».

La pizzeria di Salvatore Salvo a San Giorgio a Cremano (NA)

Il pizzese da un certo punto di vista è come le regole del Fight Club: non se ne deve parlare (o almeno, finora) e pure le sue origini rimangono quantomeno nebulose. «Napoli e la Campania erano due delle prime colonie in Italia della Magna Grecia; partendo poi dai Sanniti e dagli Etruschi, entrambe hanno sperimentato una serie lunghissima di dominazioni: Romani, Longobardi, Angioini, la famiglia di Napoleone, i Borbone… arrivando all’unità d’Italia. Napoli fino all’Ottocento era una città molto fiorente a livello economico e culturale: era la seconda metropoli d’Europa, era moderna, aveva continui scambi culturali con Parigi, la Spagna e i Paesi arabi; non da ultimo possedeva un porto, il che facilitava mescolanze e commistioni. Attraverso tutta questa stratificazione, alcuni termini ed espressioni sono sopravvissuti e sono stati traghettati fino a noi».

Oggi il pizzese si usa ancora, ma molto meno e in maniera piuttosto vaga: «qualcuno lo impara per curiosità o cultura personale, oppure perché ha avuto a che fare con un maestro di una generazione precedente che lo utilizzava. Lato mio, tendo a preferire termini più precisi e corretti, non generalisti, proprio perché desidero che i ragazzi che lavorano con me capiscano i tecnicismi. Per esempio, mettiamo che stasera facessi un impasto scriscitato: non posso limitarmi a definirlo tale, ma devo spiegare ai miei collaboratori dov’è il difetto, cos’è andato storto e trovare una soluzione. Devo puntare alla standardizzazione, mentre un tempo ciò che si richiedeva a un pizzaiolo era di avere esperienza nonché la capacità di saper gestire la situazione sul momento».

E se da un lato tale “omologazione” è giusta e sensata, dall’altro «mi dispiace che questo gergo si stia perdendo, perché faceva parte di quella ritualità, di quel misticismo legato al mestiere del pizzaiolo e al lavoro in pizzeria che oggi si sta sempre più “normalizzando”. Pensa per esempio al numero stesso delle pizze che sono in carta: in passato ce n’erano due – la margherita e la marinara –, al massimo tre includendo la pizza fritta. Mio padre aggiornò il menu includendo prosciutto cotto, funghi, Parmigiano alla fine degli anni Novanta, quindi relativamente tardi, per via dei tanti forestieri che andavano nella sua pizzeria e iniziavano a chiedergli aggiunte di salame piccante, acciughe, o pizze come la Capricciosa o la Quattro stagioni».

Salvatore Salvo però, pur guardando al futuro, ha deciso di tenere un piede nel passato, come dimostra il suo menu: ben sette margherite e tre declinazioni di marinara in carta, un omaggio alla tradizione, certo, ma forse – chissà – anche una scusa per sentir rimbalzare tra le pareti del suo locale un’ordinazione antica come il mondo. ‘A coppia!

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