Keith McNally ha schiantato Beyoncé, poi (come al solito) ci ha ripensato | Rolling Stone Italia
The Importance of Being Earnest

Keith McNally ha schiantato Beyoncé, poi (come al solito) ci ha ripensato

Al proprietario di Balthazar non è andato giù che paladina dei diritti LGBTQ+ si sia esibita in un paese in cui vige la pena di morte per l’omosessualità: l’ennesima scaramuccia mediatica con rettifica a seguire, sia chiaro, ma se avesse ragione lui?

Keith McNally ha schiantato Beyoncé, poi (come al solito) ci ha ripensato

Beyoncé all'inaugurazione dell'hotel Atlantis The Royal a Dubai

Foto: Mason Poole/Parkwood Media/Getty Images for Atlantis The Royal

Ooops, he did it again. Era la sera di lunedì 23 gennaio, probabilmente attorno alle 21 ora di New York, quando il ristoratore Keith McNally ha appiccato il fuoco al suo ultimo post Instagram. L’immagine, una valchiresca Beyoncé, coppe di reggiseno dorate e iconici capelli domati al frisé; la caption, una tirata al vetriolo in pieno stile McNally-esco.

Si dice che Beyoncé abbia ricevuto 24 milioni di dollari per un concerto di 85 minuti a Dubai per celebrare l’apertura di un nuovo hotel. A Dubai l’omosessualità è illegale. Beyoncé si è esibita a un evento invitation-only, davanti a 1.500 persone che includevano Kendall Jenner, Michelle Keegan, Liam Payne e Jodie Kidd. Peter Tatchell, l’attivista per i diritti LGBT, ha dichiarato: “Amo la musica di Beyoncé, ma la sua esibizione in una dittatura come Dubai è stata un errore enorme. Abbandonando i suoi valori progressisti, ha preferito accaparrarsi un mucchio di soldi e dimenticare i diritti umani. Oltretutto, il suo set musicale escludeva tutti i brani dal suo album Renaissance del 2022, che era un omaggio ai pionieri della danza nera queer. Sembra che l’abbia fatto per placare il regime omofobo di Dubai, che prevede la pena di morte per l’omosessualità. Come molti dei suoi fan LGBT , Mi sento tradito e arrabbiato. La sua reputazione liberale ha subito un duro colpo.” Beyoncé viene spesso a cena da Balthazar. La prossima volta che verrà le darò un tavolo vicino alla cucina.

L’hotel a cui fa riferimento McNally è il mastodontico Atlantis The Royal, da pochi giorni il soggiorno più lussuoso al mondo, incastrato sullo skyline di Dubai in modo geometrico e videoludico. Per capire il livello: la notte meno costosa è a 788 euro, la più esclusiva, a più di 4.000. Ecco: questo ennesimo parco giochi per ricchi occidentali in un Paese mediorientale ha deciso di inaugurarsi con quello che sul sito viene definito “il party del decennio”, dove, tra bocce di champagne, cucina stellata e VIP ai tavoli, Beyoncé si elevava sopra tutti, regina indiscussa della serata (e della vita?). Ma in senso proprio Botticelliano, portata in trionfo da piedistallo, spuma, fuochi d’artificio. Vabbe’, di kitschate così se ne vedono tutti i giorni.

Il punto di McNally, però, è un altro, e la decisione di assegnarle da ora in avanti l’inglorioso puzzolente “tavolo a fianco della cucina” nel suo ristorante newyorchese Balthazar è dettata dal fatto che una paladina dei diritti LGBTQ+ come lei (anzi, di più, un’icona queer) si sia esibita negli Emirati Arabi, paese che notoriamente censura la diversità di genere e di costume e in cui vige la pena di morte per l’omosessualità (poi anche le donne non è che se la passino una crema). Peraltro, astenendosi dal portare in scena i brani del suo ultimo album RENAISSANCE, che nel 2022 ha spaccato tutto, ci ha ricordato cos’è il pop, e ha celebrato il contributo degli artisti Black e queer alla storia della musica recente. A McNally, insomma, la cosa non è andata giù. Classico, no? Alla fine, l’arena dei social viaggia su questo. Forse. O forse, il gesto di McNally dice qualcosa di più. Sia sul suo controverso personaggio, da anni al centro di scaramucce mediatiche con personaggi dello show biz, che sulla visione del mondo con cui il ristoratore ha colonizzato downtown Manhattan, catapultando SoHo e dintorni tra i posti più cool & hip della Grande Mela, e quindi del mondo.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Keith McNally (@keithmcnallynyc)

Classe 1951, famiglia inglese di umili origini, un fratello con cui non parla da anni, infanzia scontata a Bethnal Green, Est di Londra. Self-made man nell’industria del cibo con una parabola da far impallidire Joe Bastianich, il giovane Keith sbarca in America con un sogno: fare il cinema (come tutti, no?). E alla fine, nella sua carriera, due film li girerà pure: End of the Night (1990, che il titolo sia una strizzata d’occhio al celebre Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, autore francese del ‘900 parimenti controverso?) e Far From Berlin (1992). In quegli anni, McNally è già un ristoratore avviato, le aperture insieme alla prima moglie Lynn Wagenknecht infiammano la città che ha fame di glamour molto più che di cibo. È l’Odeon, ancora gestito da Wagenknecht, a cui si aggiunge presto il Cafe Luxembourg e poi il night club Nell’s, il tutto senza mai versare nemmeno una lacrima su una mezza cipolla tagliata. McNally non cucina, la sua direzione è estro, mise en place. In questo senso, il paragone con l’ambizione del regista è facile e appropriata. Ma c’è anche un altro parallelismo che giunge comodo per inquadrare appieno McNally, uno che chiama in causa un certo nobile lignaggio di cultura e pensiero. Un filo che si dipana a cominciare dall’otium intellettuale romano (desiderio e possibilità di dedicarsi all’inattività contemplativa più che all’attività pratica, intervallando con banchetti e acini d’uva) e che arriva al blasé di fine Ottocento-inizio Novecento, agli aforismi eleganti e pungenti, mai veritieri, di Oscar Wilde. McNally, insomma, è un provocatore, oggi qualcuno lo definirebbe un “agitatore culturale”, schierato e sempre neutrale nella lotta eterna tra bene e male, giusto e sbagliato. Spariglia. O meglio, come titola il New York Times in un profilo del 2021, “stirs the pot”, rimescola il calderone.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Balthazar Restaurant & Bakery (@balthazarny)

Lo si intuisce da certi tratti nostalgici Amarcord del suo gusto e carattere, in primis la scelta, all’apertura dell’iconico Balthazar (nel 1997) di stilizzare interni e menù sul modello di una brasserie francese d’antan, tra cariatidi ordinate su misura e per cui, si narra, abbia chiesto a due cameriere la disponibilità a posare nude, a oggetti d’epoca recuperati o ricostruiti, arrivando a moules e steak frites (cozze fritte e bistecca accompagnata da patatine fritte rispettivamente). E poi, il suo recente hobby di coltivatore, avviato in un certo spirito di ritorno alla terra, e gli interessi culturali arricchiti privatamente, esondanti dall’educazione di partenza della famiglia proletaria. Qui torna in gioco Instagram, dove McNally condivide riflessioni esistenziali ma brillanti (alla fine è pur sempre un inglese), come:

End Of The Night, un thriller esistenziale che ho scritto e diretto nel 1991, quello stesso anno è stato selezionato per il Festival di Cannes ed è stato un piccolo successo in Francia, Italia e Spagna. Parlava di un uomo la cui vita va fuori controllo quando sua moglie rimane incinta. La mia è andata fuori controllo 6 anni fa quando ho avuto un ictus. Sfortunatamente, il mio infarto non è stato selezionato per il Festival di Cannes. [McNally ebbe un infarto qualche anno fa, che lo lasciò con strascichi molto pesanti, Nda].

O opinioni su film visti, libri letti, quadri osservati (ne possiede molti nel suo appartamento, pur non definendosi collezionista). Mi piace molto quello su In The Mood For Love di Wong Kar-Wai, dove alla fine promette una cena gratis a Balthazar a chiunque lo guardi, si presenti dicendolo, e voglia cenare con la moglie del vicino. Ma anche quello su Edward Hopper, dove riflette sulle figure maschili e femminili nei quadri del pittore. Eppure, il suo capolavoro recente potrebbe essere un post in cui blasta Tolstoj per “non saper descrivere efficacemente le persone innamorate”. Offline, invece, le (poche) interviste concesse da McNally sono spesso punteggiate di rimandi letterari, come quella volta che dichiarò a The Daily Beast di apprezzare particolarmente Via dalla pazza folla di Thomas Hardy, e che, anzi, l’autore inglese poteva benissimo annoverarsi tra i suoi scrittori preferiti.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Keith McNally (@keithmcnallynyc)

Se il simile attrae il simile, è forse questo profumo di dolce vita, di belle e provocanti conversazioni sull’anima del mondo, ad aver attirato così tante star, fatte o in fieri, ai tavoli di McNally. Tra i patron, Courtney Love (qui immortalata al Lucky Strike, uno dei pochi tentativi minori di McNally), Anna Wintour, Nancy Pelosi (e marito con cappello in testa), Sienna Miller, Hugh Jackman (questa volta al Minetta Tavern, la connection New York-Francia di McNally), Isabella Rossellini e Madonna, solo per dirne alcuni, senza contare i regolari eventi di Chanel a Balthazar. Amici potenti, insomma, uniti a una formula di business che vuole offrire lusso senza complicazioni aggiuntive. Per McNally, un piatto deve essere buono, e basta, e lui apre solo ristoranti in cui andrebbe a mangiare. Posti, appunto, via dalla pazza folla, per chiudere fuori il mondo almeno durante il pasto. È su Vanity Fair che McNally ha affermato che «being exposed to the outside world while dining is like hearing the doorbell during sex». Una formula rodata, come ipotizza il New York Times per giustificare il bizzarro successo economico e culturale di uno che non è minimamente interessato alla haute cuisine e che da più parti hanno criticato per servire piatti anche un po’ basici. Per riassumere le contraddizioni di McNally (sempre dal Times): «he has spent his life anticipating the changing tastes of fabulous, glamorous people but his closet is filled with pilling sweaters». Ed è così che crei le zone glamour a New York e dai inizio alla gentrificazione. Lo capisci quando Woody Allen vuole girare il film in uno dei tuoi locali (e tu glielo concedi anche quando deve far un reshooting dell’ultimo momento), al Pastis, per la precisione, o quando sempre il Pastis finisce in un episodio di Sex And The City.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Pastis (@pastisnyc)

Tutto oro quel che passa tra le mani di questo ragazzone di East London, allora? Affatto. La maggior parte dei problemi di McNally (economia post-Covid esclusa) sembra proprio derivare dal suo essere incorreggibilmente sé stesso. Affaire-Beyoncé compreso, punta dell’iceberg di una serie di schermaglie d’onore (ma forse McNally direbbe feuds, con inimitabile aplomb inglese) che il ristoratore ha portato avanti negli anni attraverso, soprattutto, Instagram. Alcune sono ingaggiate con critici gastronomici newyorchesi, colpevoli di aver parlato male di uno dei suoi ristoranti (in questo senso, la più iconica rimane quella con Frank Bruni, che McNally accusò di sessimo: “non ha mai dato più di una stella a uno chef donna”). Altre sono condotte su temi di principio e cavalleria, come prenotare al ristorante e non presentarsi. È quello che è successo al giornalista Graydon Carter, il quale, nonostante profuse scuse, si è aggiudicato estradizione permanente dai ristoranti di McNally. La più succosa è forse però quella scoppiata con la star TV James Corden, bannato, definito “a tiny Cretin of a man”, poi riammesso, poi nuovamente bannato per essersi comportato male verso il personale di servizio di McNally. Gli ultimi aggiornamenti su questa appassionante saga sono disponibili su GQ, ma tenete sempre a mente: McNally è contro la damnatio memoriae, è paladino del discorso libero, crede in un sistema di crimine e punizione e – dice – vota Democratico.

Ma queste, alla fine, sono cose di poco conto, interne al business. Le esternazioni di McNally che hanno riscosso maggior attenzione (e polarizzazione) sono altre, roba da discutere al bar (o da Balthazar, davanti a una bistecca) con gli amici: ma i film di Woody Allen li dovremmo guardare o no? Una persona è colpevole quando è colpevole, oppure quando sospettata di esserlo? McNally non ha dubbi: Allen è innocente, ed è un gradito cliente di Balthazar. Per l’altra questione, invece, bisogna aspettare i tribunali, tema per cui, tra l’altro, si espongono spesso a sproposito parecchi opinionisti o presunti tali. Solo che McNally ha provato a spiegare la sua visione della giustizia attaccandosi al caso Ghislaine Maxwell-Principe Andrea. Non è andata bene.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Keith McNally (@keithmcnallynyc)

Vabbè, ma quindi, Beyoncé e il suo tavolo spinto inesorabilmente verso la cucina? Un po’ come nella vicenda-Corden, McNally ha già cambiato idea. Poche ore dopo, il post incendiario è cancellato. Al suo posto, una nuova foto della diva, quasi a voler seppellire l’ascia di guerra per gli avvenimenti recenti, e una nuova caption:

Dopo molti conflitti interiori, ho cancellato il mio post in cui criticavo Beyoncé per aver accettato un ingente compenso per esibirsi a Dubai, un paese in cui l’omosessualità è illegale. L’ho cancellato per molte ragioni, in parte per non comprendere appieno i costumi del Medio Oriente, ma soprattutto perché mi sono sentito ingenuo per una risposta che ho dato al commento di qualcuno. Ho scritto che una volta mi è stato offerto un milione di dollari per aprire Balthazar a Dubai. Anche se questo era vero, la mia implicazione era che avevo rifiutato l’offerta per motivi morali. In realtà l’ho rifiutata perché Dubai stessa non mi piaceva, non perché non fossi d’accordo con la sua barbara legge sull’omosessualità. In effetti, all’epoca ero vergognosamente all’oscuro di questa legge. Tuttavia, se e quando verrà da Balthazar, farò ancora sedere Beyoncé accanto a James Corden.

 

 
 
 
 
 
Visualizza questo post su Instagram
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

Un post condiviso da Keith McNally (@keithmcnallynyc)

Se possibile, le reazioni si sono rivelate ancora più indignate che sul post precedente. Alla fine, però, la vera meraviglia sono probabilmente loro: i commenti che cercano di racchiudere Keith McNally in una definizione esaustiva, liberal o conservatore, santo o peccatore, guru o satanasso. D’altronde, New York, la città del Bronx e del MOMA, di Central Park e della metro assassina, non poteva certo essere stata costruita sulla coerenza. E anche questa è una certezza, a suo modo, rassicurante. Come quella dell’entrare da Balthazar in una gelida notte d’inverno, appena fuori da un jazz club e ancora senza cena. Con chiusura media alle 02:30AM, il ristorante di McNally sarà lì ad attendervi, per lumachine al burro o una New York Strip al pepe verde (TW: “If you ever commit suicide please make sure that Balthazar’s Steak au Poivre is your last meal”), un pollo intero se siete in due e avete fame. Tranquilli: non sarete gli unici. Gli avventori precedenti saranno ancora lì, a discutere su cocktail e dessert. Qualcuno, annoiato, avrà spento la sigaretta nella panna. Magari ci saranno proprio Beyoncé e Corden, schiacciati nel tavolo dei reietti. Converseranno dell’ultimo post di Keith, quel gran son of a bitch da cui però, alla fine, non riescono mica a staccarsi. Perché la verità è questa: nessuno riesce a staccarsi da Keith McNally. Tantomeno New York.