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Giù la clèr, su i gomiti: la vita in after degli chef

Cosa fanno i cuochi quando spengono i fornelli e tirano giù la serranda del ristorante? Bevute per scaricare l'adrenalina e notti in bianco, ma anche casa, divano e guilty pleasure. E poi ovviamente ci sono pure i workaholic

Foto: Ratatouille dal cartoon Disney

Ci sono domande che mi assillano da sempre. Cosa c’è al centro della Terra? Dove va a finire l’arcobaleno? Cosa fanno i cuochi quando spengono i fornelli e tirano giù la serranda del ristorante? Che, a vederli tutti così, barbuti e tatuati, te li immagini a fare la vita delle rockstar ripercorrendo le orme di un Marco Pierre White dei bei tempi andati.

«C’è questa visione romantica del nostro lavoro che in realtà s’infrange contro le quattordici, sedici ore davanti ai fuochi. Dopo le quali la verità è che sei stanco», mi dice Misha Sukyas, estroso esponente della categoria dai recenti trascorsi televisivi (con la conduzione di Camionisti in trattoria).
Il cuoco milanese procede per citazioni e similitudini. «Il lavoro in cucina è stato venduto come la staccionata bianca di Tom Sawyer», talmente gratificante e bella e difficile da pitturare che solo i migliori, i più bravi e i più fortunati potevano avere l’onore di spennellarla.
Non perde l’occasione, Sukyas, per bacchettare la sottoscritta: l’immagine del cuoco maledetto, più che corrispondere alla realtà, ha sempre fatto comodo a noi giornalisti che andiamo a caccia di contenuti. «La realtà è più simile al Giorno della Marmotta, passato chiusi in uno spazio angusto, con le stesse persone, a fare la stessa cosa».
Vero è che Sukyas li ha comunque vissuti, i suoi tempi di bevute goliardiche, totalizzando una manciata di ore di sonno a settimana per anni. Il risultato è che non tocca alcol dal 2018 e oggi si sfoga, come sempre, con gli amati sport da combattimento.

Perché da qualche parte l’adrenalina accumulata durante il servizio la devi scaricare. «Una volta Giorgio Chiellini, dopo averci visto all’opera per tutta la sera nella cucina a vista di Edit, a Torino, ci disse che noi giochiamo ogni giorno una partita di calcio da novanta minuti, più i supplementari, più i rigori», racconta Christian Costardi.
Invece di andare negli spogliatoi a bersi un tè caldo, lui e il fratello Manuel hanno passato notti su notti in bianco. A Vercelli, città di origine, l’ex enfant terrible della gastronomia ricorda ancora le ore trascorse al pub La Voglia dove, a fine turno, i Bros trovavano il loro divano riservato, la loro console con annesso megaschermo e i loro amici con cui fare le ore piccole. A Venezia, quando erano giovani di brigata, la tappa obbligata era La Mascareta per un gin tonic comme il faut, poi un panino con la porchetta nel bugigattolo della calle accanto. Perché chi lavora al ristorante mangia alle 18, e all’una di notte è giusto giusto ora di cena.
Costardi snocciola le pagine gialle del dopolavoro gastronomico da Milano (il furgone dei panini davanti all’Old Fashion, e magari anche due salti in disco) alla Sardegna (gli evergreen Sottovento, Sopravento e Ritual). Oggi l’afterhour prediletto è al Paddock di Torino, dove anche alle due ti fanno una cacio e pepe o una grigliatina. Con moderazione, però, perché a casa ci sono una compagna e tre figli (Christian) e quattro labrador da portare fuori (Manuel).

Il lavoro del cuoco ti toglie buona parte della giornata e quando arriva il momento in cui puoi vivere, coltivare relazioni, ascoltare musica, fare shopping (online) o – appunto – portare fuori il cane, è già domani. Il segreto è riuscire a godere di queste parentesi di normalità.
Chiuse le porte del Bu:r, Eugenio Boer e la compagna di vita e di impresa Carlotta Perilli semplicemente se ne tornano a casa. Poi Boer esce a spasso per le strade di Milano con Nanouk, il loro massiccio Akita americano. Chi li incrocia spesso cambia marciapiede: uomo con barba e molosso sono un’accoppiata che nella notte scura fa paura. Tornato a casa, il temibile chef ligure-olandese mette a cuccia il grosso cane giapponese e cede al suo guilty pleasure: scodella, crema spalmabile, latte e granola home made.

Come lui, la generazione milanese (di nascita o d’adozione) dei professionisti suppergiù quarantenni colloca le bravate in un passato ormai abbastanza remoto, contrapposto a un presente molto più morigerato.

«Dio protegge gli stupidi e gli ubriachi, e noi eravamo sicuramente sia stupidi sia ubriachi per gran parte del tempo», scriveva Anthony Bourdain in Kitchen Confidential. Sembra parafrasare il suo pensiero Eugenio Roncoroni quando rievoca gli albori dell’avventura Al Mercato, condivisa con l’amico di sempre Beniamino Nespor. «Eravamo giovani e stupidi», chiosa. «Sottoposti allo stress di gestire contemporaneamente tre locali, con il carico di responsabilità che ciò comportava, uscire a bere e tirare mattina sembrava una buona idea». Nei ricordi e nei racconti si coglie intatto il dolore per la tragica scomparsa di Nespor (era il 2016) ma anche una nuova consapevolezza, alla ricerca di positive vibes nella vita come nel lavoro. Oggi, più che l’after (ogni tanto va a bersi un sakè o fa un salto dall’amico Enrico Muri da Røst), il vero momento di stacco è al mattino presto. Alle 7, al Bam, la Biblioteca degli alberi, Roncoroni si allena a corpo libero con la compagnia silenziosa e discreta di un signore cinese sulla sessantina, impegnato poco più in là nei suoi esercizi di Tai Chi.

Nella categoria non mancano i workaholic che, spenti i fornelli, fanno il punto del servizio passato, impostano quello del giorno dopo o provano nuove ricette. Come Kin Cheung, stella nascente del fine dining asiatico con il gruppo Hekfanchai, che non cede alle lusinghe della rinata movida meneghina e un po’ rimpiange la vita notturna della natale Hong Kong: «È molto più vivace, la sera le strade sono piene di persone che girano fra pub, bar e discoteche. C’è anche molto movimento tra i chioschetti di street food, un po’ come sta succedendo ultimamente qui a Chinatown», racconta con la mediazione di una traduttrice, dato che parla solo cinese.

Compassato anche l’afterhour di Federico Sisti, ben lontano dai fasti giovanili nella sua città, Riccione, dove non mancavano discoteche, pub notturni o, semplicemente, sagre paesane nei dintorni dove fare rustica bisboccia. A quarantun anni, il patron di Frangente frequenta i locali degli amici per il classico bicchiere della staffa. Se ha voglia di vino non ha che da girare l’angolo e raggiungere il Bicerìn della sua ostessa preferita, Iris Romano. Per un sakè e, magari, una ciotola di riso e pesce crudo si spinge fino da Kanpai o alla Saketeca. Non mancano le puntate al 1930 o da Carico, per un Gibson miscelato da Domenico Carella.

E proprio Carico, nei racconti del suo frontman Carella, si conferma punto di riferimento per la categoria, crocevia trafficato da cui passano sommelier, bartender, naturalmente cuochi e anche molti wannabe. Sono i giovani che stanno muovendo i primi passi nella ristorazione e arrivano in via Savona per vedere da vicino (!) Marco Ambrosino, Matteo Fronduti, Eugenio Boer, Matias Perdomo, Remo Capitaneo, tutti habitué così come l’intera squadra di Tokuyoshi.
Fra questi che potremmo chiamare i VIC (Very Important Chef), è tutto un baci, abbracci, virili pacche sulle spalle e bonari litigi per decidere a chi spetta l’onore di pagare da bere per l’intera ballotta. Il bar diventa la casa dove ritrovarsi e la cucina, aperta fino all’una, vince facile sulle alternative fuori orario, il panino dello zozzone o il kebabbaro. Che restano tuttavia le mete obbligate per chi, come Carella e il suo team, si occupa di rifocillare e dissetare i colleghi.

Ovvio, infatti, che per chi lavora dietro al bancone di un bar o di un pub i tempi della notte siano ancora più dilatati. I ragazzi di Raboucer, Simone Di Gioia, Andrea Pirola e il loro staff, servono cocktail e food a gruppi di colleghi dei ristoranti e dei locali che, sui Navigli, chiudono prima di loro (fra gli assidui, la cricca di Tutti Fritti).
Quando finalmente abbassano la clèr (milanese per saracinesca), si stravaccano sui divanetti disseminati nell’ex Bar Cuore – come si chiamava il locale in passato – e ordinano McDonald’s, che nel weekend consegna non stop. Se qualcuno ha ancora qualche energia da spendere, lancia una sfida a biliardino o organizza una partita di calcetto per il giorno dopo: modi per fare o incentivare il gioco di squadra.

Chi, in un certo senso, il suo dopolavoro se lo è costruito è Diego Rossi che insieme ai soci Enricomaria Porta e Josef Khattabi ha aperto l’Osteria alla Concorrenza, luogo perfetto per «fare due ciacole» («chiacchiere», per i non veneti). Sebbene riconosca di essere meno viveur di un tempo e, nel dopo-Trippa, alle bevute in compagnia preferisca un fineserata con la fidanzata. Non va in cerca di cibo (cena fra un turno e l’altro e, comunque, assaggia tutto il tempo, quindi mangiare non è una priorità) e ha evidentemente imparato a gestire la fame nervosa che spesso assale chi è sottoposto a ritmi di lavoro frenetici. Così, al contrario dei suoi ragazzi, che fanno spesso un salto per una birra e un fish and chips al Pogue Mahone’s, il più delle volte sceglie il relax: al 1930, al Bella Milano («calabresi e fantastici», li definisce), al Drinc.Different e, ultimamente, alla Dream House, con i distillati imbottigliati da Marco Maltagliati e Federico Mazzieri di Dream Whisky e la saletta dove fumarsi sigaro o pipa.

Su una cosa concordano tutti: la necessità di condividere, di tanto in tanto, la chiusura di serata tutti insieme, chef, cucina e sala. Che sia al ristorante, a porte chiuse, o in uno dei luoghi di ritrovo abituali, quando il team è «in borghese» scatta quello che, con metafora rugbistica, Christian Costardi ha definito «terzo tempo». È il momento in cui, con una birretta in mano o davanti a un drink, si ricompongono eventuali dissapori e attriti, si porgono scuse, si perdonano errori, si chiariscono malintesi. Si svestono i ruoli gerarchici e «finito di lavorare, ridiventiamo tutti persone. Quello che succede in cucina finisce in cucina». Che fa un po’ Fight Club. Ma è bello così.

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