Benedetta Rossi è riuscita a blastare i gastrofighetti turbocapitalisti | Rolling Stone Italia
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Benedetta Rossi è riuscita a blastare i gastrofighetti turbocapitalisti

Tutto è partito da un articolo uscito su ‘Dissapore’ che ha scatenato il consueto esercito di troll, indignados e puristi del web: la blogger marchigiana non ci sta, risponde agli hater su TikTok e dimostra di conoscere la regola fondamentale del gioco. Ossia sapere perfettamente chi è il suo pubblico

Benedetta Rossi è riuscita a blastare i gastrofighetti turbocapitalisti

La blogger Benedetta Rossi

Foto: Massimo Insabato/Archivio Massimo Insabato/Mondadori Portfolio via Getty Images

Ho quarantotto anni e del mio quasi mezzo secolo di vita (detta in questi termini mi viene voglia di scoppiare a piangere) ricordo moltissime cose: la prima volta che mio padre mi portò al cinema a guardare Guerre stellari (l’episodio 4, quello con Carrie Fisher, Mark Hamill e Harrison Ford), il primo pupazzetto dei Masters of the Universe che mi comprò mia madre (io ovviamente volevo Skeletor ma il giocattolaio – non esistevano i centri commerciali – aveva solo il Principe Adam, la versione in incognito di He-Man, il peggiore di tutti, e lì imparai la fondamentale lezione dell’accontentarsi), sempre mia madre che torna dal mercato con un paio di devastanti pantaloncini kaki e per convincermi a indossarli dice che sono “di marca”, noi davanti alla tv che guardiamo l’Italia che vince ai Mondiali dell’82, noi davanti alla tv che guardiamo la scena in cui si scopre che Bobby di Dallas in realtà non era morto, noi (in realtà solo io) che durante il Festivalbar all’Arena di Verona vediamo Sabrina Salerno cantare in playback mentre le esce una tetta dal reggiseno (sì, guardavamo un sacco di tv prima che ci fosse internet).

Organoletticamente parlando, i miei ricordi sono ancora più vividi: pesce a casa mia voleva dire soprattutto bastoncini Findus (accompagnati spesso con del purè in busta) o, quando mia madre era in vena, dei filetti di platessa (rigorosamente a chilometro zero, nel senso che abitavamo praticamente attaccati al banco surgelati del supermercato del quartiere); la frustrazione derivante dall’incidere con la forchetta la superficie del sofficino e non vedere emergere una linea curva di formaggio a forma di sorriso; il mais in scatola che navigava nella propria acqua di governo e che per mia madre rappresentava una sorta di tocco esotico; i “Trancetti”, le anonime merendine low-cost che ingollavo pensando ai più blasonati Tegolini dei miei compagni di scuola benestanti; l’occasionale euforia dovuta alla presenza di un ospite a cena che voleva dire invariabilmente Viennetta per dessert. Sono ricordi che ho in comune con un’intera generazione di bambini cresciuti negli anni ’80 del boom economico e di un’Italia desiderosa di lasciarsi alle spalle la pesantezza degli anni di piombo e tuffarsi nell’edonismo occidentale, anche a tavola.

Quello che onestamente non ricordo è quando esattamente siamo diventati un popolo di gourmand, quando cioè ci siamo affrancati dalle scatolette di tonno che hanno sfamato milioni di universitari fuorisede convertendoci in ittiologi in pellegrinaggio quotidiano al mercato del pesce per trovare il miglior tonno rosso di Carloforte; quando abbiamo aborrito le sottilette, principale fonte di calcio per due generazioni almeno, per avventurarci settimanalmente nelle migliori malghe trentine alla ricerca dell’asiago perfetto DOP; quando ci siamo scandalizzati perché una foodblogger ultrapop usa la sfoglia già fatta, la vanillina e la panna spray del supermercato per le sue ricette invece di svegliarsi alle sei del mattino e tirare la pasta a mano come dovrebbe fare ogni buon cristiano che ci tiene all’ambiente e all’alimentazione.

 

 
 
 
 
 
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Per le dieci, quindici persone che in Italia hanno avuto cose più importanti da fare in queste tre settimane: a metà aprile su Dissapore (sito di riferimento per tutti gli appassionati di cibo) compare un articolo dichiaratamente provocatorio, le peggiori 10 ricette di Fatto in casa da Benedetta. Il bersaglio è Benedetta Rossi, simpatica blogger marchigiana che sembra quella tua rassicurante zia del paesello che ogni volta che fa una torta te ne porta un po’ e che ti cuce una sciarpa di lana per Natale. Senonché Benedetta ha quattro milioni e mezzo di follower, un canale YouTube, ha scritto diversi bestseller e conduce programmi televisivi, tutte declinazioni della “cucina casalinga” alla base della sua filosofia.

L’articolo, che blasta allegramente le ricette della signora marchigiana evidenziandone gli errori (lo squilibrio nutrizionale, così come gli ingredienti dozzinali provenienti dai peggiori supermercati di Caracas), diventa virale grazie a un corollario di commenti dell’ormai consueto esercito di troll, indignados e puristi cacacazzo del web con cui ogni influencer e persona nota attiva sui social ha triste familiarità. Benedetta abbozza, fattura e mette a bollire i tortellini con la panna, ma a un certo punto non ce la fa più e lo scorso 6 maggio pubblica un video su TikTok dove risponde all’articolo e agli hater. Lo fa col suo linguaggio schietto, semplice ed efficace, rivendicando con fierezza e consapevolezza il proprio lavoro (non sono una chef, non ho mai detto di esserlo, anzi sono un’incapace) e soprattutto difendendo la propria fanbase, costituita per la maggior parte da persone che decidono cosa mettere nel carrello della spesa con la calcolatrice in mano, che se tirano abbastanza la cinghia magari riescono a portare la famiglia in pizzeria nel fine settimana e che difficilmente quando parlano di pausa pranzo pensano a un’insalata di avocado, pompelmo rosa e datterino giallo del piennolo.

 

 
 
 
 
 
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A sostegno della blogger di Porto San Giorgio arriva anche il suo corrispettivo della tv generalista, Antonella Clerici, che la difende in diretta ricordando un episodio analogo della propria carriera, quando un cantante noto non voleva co-condurre il Festival di Sanremo con lei perché «sapeva di sugo». Ovviamente siamo in Italia e gli sviluppi di questa polemica dopo ventiquattr’ore sono già afferenti alla sfera del demenziale: c’è chi la invoca come nuovo volto della sinistra (vuoi mettere lo strutto contro l’armocromista della Schlein?), come «baluardo della lotta di classe», e chi la accusa di populismo gastronomico e disinformazione.

Io Benedetta non l’ho mai davvero seguita, ma non posso fare a meno di provare una certa simpatia nei confronti di un’imprenditrice che, come la Clerici, ha un merito non scontato: sapere qual è il suo pubblico, sapere precisamente a chi sta parlando. Non so dire con esattezza se la proliferazione di esperti di food, quelli che si sono spesi a commentare negativamente l’opera di Rossi, sia una conseguenza di programmi come MasterChef, di ristoratori/artisti che promettono a una ristretta cerchia di facoltosi commensali di “vivere un’esperienza”, dell’estenuante lavoro dei consorzi che per promuovere i prodotti del proprio territorio creano un inferno di certificazioni più o meno prestigiose.

Quello che onestamente credo è che le persone che criticano così aspramente le ricette di Rossi (che non avanza in questo senso nessuna pretesa di “autenticità” o “tradizionalità”) non si sveglino alle cinque del mattino e prendano la bicicletta (l’auto inquina) per farsi due ore di viaggio dal contadino che gli dà uova e formaggio; non inizino a tirare la sfoglia dei ravioli la domenica mattina per la cena delle otto; non setaccino all’alba i migliori mulini alla ricerca dei cereali antichi necessari per fare il pane delle proprie schiscette. Non posso pensare che queste persone, soprattutto quelle che hanno più di quarant’anni, non abbiano mangiato in vita loro un cordon bleu o un Bon Roll Aia o non si siano riscaldati una porzione di gnocchi alla romana nel microonde.

Se avessi più tempo e disponibilità economica, sicuramente comprerei meno tonno in scatola e pancarré e cercherei alternative più salutari per me e la mia famiglia: è inoppugnabile che seguire una dieta varia e bilanciata sia fondamentale per vivere bene. Ma mi metterei a fare la pasta brisée, a fare la mia colatura di alici in barattolo, a panificare utilizzando miscele di cereali preistorici e lievito madre del 1975? Col cazzo. Non ho tempo, non ho soldi, ma soprattutto non ho voglia. E questo, in tempi che enfatizzano eccessivamente la performance come quelli che stiamo vivendo, è un problema (mi viene in mente quel guru del cryptomarketing pelato che in un video di qualche tempo fa dichiarava tronfio di svegliarsi alle cinque del mattino tutti i giorni per aumentare la propria produttività). Non siamo lavoratori abbastanza produttivi ma nemmeno genitori abbastanza premurosi o consumatori eccessivamente attenti all’ambiente, col risultato che ci sentiamo in colpa anche se compriamo un pacchetto di Tuc («quelli non sono cracker, sono veleno!»). L’unica cosa che so è che tutto questo si ripercuote inevitabilmente sulla nostra salute mentale. E ora scusate, ma vado a vedermi un video di Chef Ruffi.

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