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Assaf Granit: «La cucina non è su Instagram, andate a mangiare nei ristoranti»

Lo chef israeliano ospite questa sera di ‘MasterChef Italia’ parla del suo viaggio, dalla consacrazione nella “fuc*ing London” alla prima stella. E dice che serve una nuova formula, se la ‘top cuisine’ vuole sopravvivere. Lui pare averla trovata

Foto: Sky

Il giorno del mio quarantesimo compleanno ero a pranzo da Shabour, stellato parigino tra le tante creazioni/creature di Assaf Granit, chef israeliano ora cittadino del mondo gourmet che da Gerusalemme è arrivato ovunque passando per Londra, luogo della prima consacrazione. Mangiare da lui è fare questo stesso viaggio, «e sono felice che tu lo dica, l’idea alla base di ogni mio ristorante è proprio far vivere un’esperienza completamente diversa. Per questo dico sempre che bisogna andare nei ristoranti e provarli, l’unico modo che ho per spiegarti la mia filosofia è farti mangiare in uno dei miei locali».

Ci stiamo videochiamando mentre è a Tel Aviv, «sto mangiando un’omelette prima di partire per Londra». La sua vita, ci dirà poi, è ormai quasi tutta in volo. È prima di Hamas, prima della guerra di Israele su Gaza, lo dico perché ovviamente vi sembrerà strano che in questa chiacchierata nulla di tutto questo venga menzionato. Granit è appena stato in Italia per registrare la puntata di MasterChef che lo vede ospite. Su questo torneremo tra un po’, intanto stiamo sul viaggio.

«Israele, e soprattutto Gerusalemme, la città in cui sono nato e cresciuto, è un posto fondato sull’immigrazione. C’è stata l’ondata portata dall’Olocausto, e poi i vari flussi d’immigrazione dall’Asia, dallo Yemen, da Iraq, Iran, Libano… si è mischiato tutto, e le persone hanno sempre vissuto le une accanto alle altre, contaminando le rispettive culture, i sapori. Io sono nato in Israele, ma i miei nonni sono scappati da Germania e Polonia, portandosi con sé un’eredità culturale specifica. I nostri vicini venivano da Kurdistan, Marocco, Tunisia… questa è la mia formazione, osservare le altre culture, tenere la mente aperta».

La nonna è la figura simbolo di questa formazione. «È fuggita dalla Polonia e si è trovata come vicina di casa questa signora marocchina. Aveva 17 anni quando è arrivata, lei e la vicina sono rimaste entrambe incinte giovanissime e sono diventate l’una la famiglia dell’altra. Io a casa di mia nonna mangiavo cous cous, e solo quando sono cresciuto ho capito la complessità alla base di tutto questo. Ma ricordo che fu un’impressione fortissima, il mio vero imprinting. Sono cresciuto con quelle cucine diverse dalla mia, giocavo con i miei amici e poi mi fermavo a mangiare nelle loro case, e scoprivo tutti quei sapori che da me non esistevano». Gli chiedo quale sia, proustianamente, quello che, dalla sua infanzia, gli è rimasto più impresso. «Ti direi lo chraimeh, uno stufato di pesce che fanno in Libia e in Tunisia».

Assaf Granit ospite di ‘MasterChef Italia’. Foto: Sky

Gli tiro fuori un’intervista che diede al Times of Israel nel 2015. Sintetizzo: “Ho vinto come miglior ristorante of fucking London, ho un programma tv, ma non sono felice. Diventare famosi è molto strano e poco divertente. Però vorrei una stella Michelin”. «Davvero ho detto tutto questo?», sorride ora. «Be’, era il 2015… ora ho 32 ristoranti, diversi show televisivi e anche la stella». Ride. Gli manca ancora la felicità? «No, quella c’è, perché ho capito che per essere felice devi guardare dentro, non fuori. L’ho capito con la maturità. La felicità non è data da una stella Michelin o dal numero di ristoranti che hai. È la famiglia, è mio figlio. Poi, certo, c’è la gioia di aver aperto e fatto crescere tutti i miei ristoranti, di aver trovato partner e chef diversi e spesso giovani: credo profondamente nel talento dei più giovani. E ogni mio locale è diventato un’altra famiglia. Questo è quello che conta, che rende la vita più facile. Ogni mattina mi sveglio in una città diversa e penso che sono uno chef e un manager migliore rispetto a una volta».

Assaf Granit è un celebrity chef a tutti gli effetti, ma a differenza di tutti i suoi colleghi o quasi non lo troverete su Instagram e social assortiti. «La mia vita resta solo mia, poi so che da un punto di vista strettamente di mercato stare sui social mi gioverebbe. Ma non voglio passare il mio tempo a guardare i like e a scrollare i post: lavoro, parlo con i clienti, e basta. Così almeno funziona per me, poi tutti son liberi di fare quel che vogliono. Magari mi perderò un po’ di ispirazioni, ma poi penso che sono cresciuto senza Instagram: mi hanno ispirato i libri, i colleghi, le cose che andavo a vedere e provare nel mondo. Ripeto: se vuoi il piatto di uno chef, non mettergli il like su Instagram, prenota e vallo a provare. E parlaci, con quello chef. Questa è la vera ispirazione, mica le foto».

Quand’era un giovane chef non c’erano i social e nemmeno i talent show di cucina come MasterChef. «È vero, e il danno di questi programmi, almeno in parte, è che fanno sembrare il mio mestiere il più facile del mondo. Però l’hanno fatto conoscere molto di più, e a molte più persone. Quando da ragazzo ho detto a mia madre: “Voglio diventare uno chef”, lei mi ha risposto: “Cosa?!”. Adesso, anche grazie a trasmissioni come questa, quella dello chef è considerata una professione come un’altra, al pari del medico o dell’avvocato. E anche per questo attrae molti più talenti».

E gli aspiranti chef italiani come sono? «Mi hanno stupito moltissimo. Ho partecipato a diversi show di cucina in Israele per dieci anni, poi ho fatto Top Chef in Francia, e il livello di MasterChef Italia mi ha davvero sorpreso. Pensavo “saranno ok”, e invece cucinavano proprio da professionisti, ho assaggiato piatti buonissimi e anche molto ambiziosi. E ho amato parlare con i giudici, soprattutto con Locatelli perché anche lui lavora a Londra, abbiamo tanto in comune, siamo entrambi andati all’estero per imporre la nostra visione e la nostra cucina».

Assaf Granit con Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri. Foto: Sky

In che cosa è cambiato l’essere chef oggi? «Vedo che i giovani sono molto più aperti, vogliono panificare, imparare la cucina giapponese. Sono curiosi, e il mondo è diventato, in questo senso, più piccolo e più semplice. L’altro lato della medaglia è che non sono dei gran lavoratori. Saltano di cucina in cucina, pensano a far soldi velocemente e a lavorare il meno possibile. È anche vero che la gavetta in cucina è ancora remunerata troppo poco, a fronte delle ore di lavoro richieste». Il dibattito sugli chef (e manager, maître di sala, tutti quanti) che non vogliono più lavorare come un tempo è accesissimo anche da noi. «È così, e succede anche nei ristoranti stellati, che spesso sono costretti a stare aperti solo qualche giorno la settimana perché non hanno abbastanza personale. Credo che tutta l’industria cambierà, ed è anche giusto perché così non è sostenibile, il costo delle materie prime e del mantenimento dei locali è troppo alto, e alla fine il cliente si trova a spendere tanto anche per andare in una semplice trattoria. Sta diventando un lusso che non tutti possono permettersi, per questo bisogna trovare una nuova formula».

Lui, con Shabour e tutti gli altri, una nuova formula sembra averla trovata, e io ne sono testimone. «L’hai visto con i tuoi occhi: la società cambia, e anche il servizio deve cambiare. Le persone vogliono comunicare, vogliono un rapporto più umano. Anche in certi ristoranti 3 stelle tante cose sono cambiate, non c’è più quel servizio ingessato. C’è sempre un alto livello, una grande carta dei vini, ma molta più informalità. Quando abbiamo aperto Shabour ci hanno dato dei pazzi: solo menu degustazione, e solo servizio al banco con gli chef stessi a servirti i piatti. Per Parigi, che è una piazza molto tradizionalista, era una roba da fuori di testa. Tempo una settimana, Le Monde e Le Figaro sono impazziti per questo approccio così diverso, sono stati travolti dall’energia che hanno sentito. “Le tourbillon de Shabour”, l’hanno definito».

Chiudo chiedendogli cos’è Gerusalemme per lui, oggi. «È ancora l’ispirazione alla base di tutto, è in tutto quello che faccio. Non è più la mia casa, perché ormai vivo sugli aerei, ma il cuore resta lì. È una città di grande bellezza e grandi difficoltà, di conflitto ma anche di soluzioni. A Gerusalemme siamo sempre vissuti insieme fianco a fianco, le persone che per cultura e formazione dovevano essere lontanissime da me sono ancora oggi i miei fratelli». Prossima tappa Londra, mi diceva, «e poi Parigi, e Casablanca: aprirò il mio primo locale lì». Il viaggio è la meta, la destinazione è già qui.

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