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Alfredo, mi’ nonno

Parla per la prima volta l’unico vivente ad aver lavorato gomito a gomito con Alfredo Di Lelio, l’inventore di quelle fettuccine che sono state per la pasta ciò che l’iPod è stato per la musica. Due cose che in tanti già facevano, ma che nessuno aveva mai fatto così

Foto: Laura Baiardini

Si fa presto a dire fettuccine burro e formaggio. L’invenzione di Alfredo Di Lelio è stata per la pasta in bianco quello che l’iPod è stato per la musica. In quanto a minimalismo estetico, funzionalità del design e qualità dell’esperienza d’uso, in effetti, le fettuccine Alfredo sono una ricetta che ricorda davvero un po’ il player musicale di Steve Jobs: due prodotti (entrambi in total white) che, prima del lancio, facevano già in tanti ma che, guardacaso, nessuno aveva ancora fatto esattamente nella versione che poi conobbe fortuna universale.

Nelle vere fettuccine Alfredo, attraverso un processo para-alchemico detto mantecatura, il burro, il parmigiano e la giusta quantità di acqua di cottura si transustanziano e formano un’emulsione che riveste l’intera superficie delle fettuccine, fino a essere indistinguibile dalla pasta. Chiunque abbia mangiato un piatto di queste fettuccine preparato secondo i dettami del suo creatore sa che è impossibile dire dove finisca la fettuccina e inizi l’emulsione, giacché pasta, burro e parmigiano sono avvinghiati in un threesome perfetto; e comunque sarebbe meglio non pensarci troppo, perché trascorrono in fretta i tre o quattro minuti di tempo massimo a disposizione del commensale perché il piatto non si raffreddi e le fettuccine, da magmatiche che erano al momento di essere servite, si coagulino e si separino nuovamente dal condimento, rendendo vano ogni sforzo magico-esoterico del cuoco.

Tra tutte le ricette della tradizione culinaria romana, le fettuccine Alfredo sono la più facile da fare ma anche la più facile da sbagliare, nonché quella che ispira più varianti e svarioni. All’estero le hanno riproposte, alterate e aberrate, in tutti i modi. Col passare degli anni, Alfredo è diventato prima l’antonomasia di primo piatto italiano all’estero, poi di cucina italoamericana in genere, infine di piatto Italian sounding in senso lato, identificandosi – per ovvie convenienze commerciali – anche con ricette che non solo non contengono la benché minima traccia di Parmigiano Reggiano, ma perfino di pasta: non si può e non si deve mai dimenticare il nefasto chicken Alfredo.

La storia della fortuna e della sfortuna delle fettuccine Alfredo nel mondo è ineffabile. Ma sembra che molto sia dovuto alla personalità del loro inventore, almeno a memoria dell’unico vivente che possa vantare di aver lavorato con Alfredo nel ristorante in cui il miracolo delle sue fettuccine si compì per la prima volta, e così per molti decenni a venire: suo nipote Maurizio. Maurizio Berni, classe 1939, di Alfredo conosce qualche segreto e ricorda molti aneddoti; ma ancora oggi della natura di suo nonno ignora molto più rispetto a ciò che ammette di aver capito; eppure gli va benissimo così, come del resto è consigliabile fare davanti a qualunque altro mistero della fede o oggetto di imperituri affetto e riconoscenza.

In un’altra timeline, Maurizio è ancora chef de rang accanto a nonno Alfredo, quasi Rick e Morty della pastasciutta, pronti a partire ogni giorno verso una nuova avventura, che sia servire fettuccine al re di Svezia o risolvere una lite tra Liz Taylor e Richard Burton; il nipote che guarda con occhi sgranati il nonno adoperare un piatto fumante come un portale interdimensionale con cui far collidere universi inconciliabili: capi di Stato e divi del cinema, Roma e il mondo, la banalità del presente e i ricordi di un’età dell’oro passata a interagire con creature aliene, provenienti da mondi lontanissimi, che avevano la curiosa abitudine di materializzarsi fantascientificamente in quel laboratorio posto nel mezzo del rione Campo Marzio. Invece, nella dimensione più banale in cui viviamo anche noi, con il signor Berni, che si esprime in una lingua da romano così marcatamente d’altri tempi che può mescolare con scioltezza latinismi e locuzioni da Cinecittà, abbiamo parlato di passioni e di percentuali; di carisma e di grattugie; di quella volta che Bob Kennedy prese in prestito la vespa a un paparazzo; di cosa voglia dire sopravvivere a una leggenda, ahinoi, non più vivente.

Signor Maurizio, possiamo chiederle quando e dove è nato?
È molto semplice. Sono quattro generazioni che io e tutta la mia famiglia nasciamo a Roma. Siamo romani proprio di Roma. In particolare io sono nato nel 1939 in via della Scrofa, al secondo piano del piccolo edificio al cui pianterreno, prima di trasferirsi nelle sede attuale, c’era il primo ristorante che mio nonno Alfredo aprì nel 1914. Quel ristorante rimase in funzione fino al 1942, quando la guerra cominciò a impedire il rifornimento delle materie prime necessarie all’attività.

Cosa successe ad Alfredo dopo la guerra?
Nonno fu obbligato a ricominciare daccapo in un altro locale, su cui investì gran parte di quanto aveva ricavato dalla vendita del primo. Nel 1950, dopo molte ricerche e battaglie, il nuovo ristorante aprì nel luogo in cui si trova ancora oggi.

Che ha fatto nella vita prima di cominciare a lavorare con il grande Alfredo?
La mia esperienza lavorativa ante nonno è stata ben poca. A sedici anni, non volendo continuare a studiare, gli chiesi di poter lavorare con lui. Ne fu felice perché un giorno avrei potuto mandare avanti l’azienda insieme a mio zio, il suo unico figlio maschio (oltre a due figlie femmine, tra cui la madre del signor Berni, nda), anche se certamente era anche un po’ dispiaciuto del fatto che non avrei terminato gli studi.

I suoi avevano altre aspettative riguardo al suo avvenire?
Mio padre avrebbe voluto farmi entrare alla Camera dei deputati; cosa che probabilmente, col senno di poi, sarebbe stata la scelta migliore, per tanti motivi che magari vi spiegherò un’altra volta (ride).

Perché proprio alla Camera?
Mio padre era dipendente lì: capo centralinista ai tempi di Leone. Io però decisi fermamente di restare nell’attività di famiglia. Mia madre ne fu contenta.

Cosa la spinse a scegliere quella strada?
Evidentemente mi piaceva, tanto è vero che l’ho seguita fino ai miei 72 anni. Anche dopo aver dovuto lasciare il ristorante di famiglia, ne ho aperto un altro con degli amici a Palm Beach in Florida. Questo dovrebbe farvi capire quanto mi appassioni il mestiere.

Ricorda il suo primo giorno di lavoro fianco a fianco con suo nonno?
Onestamente ricordo bene solo l’emozione di stargli accanto e di vederlo lavorare da vicino. Anche quella di fare la spesa e organizzare la giornata lavorativa insieme.

Che persona era Alfredo Di Lelio?
Era una persona che, al di sopra di ogni sospetto, aveva un enorme carisma. Chiunque mangiasse nel suo ristorante, senza che lui facesse mai niente di straordinario, ne rimaneva sempre affascinato. Pensate che un importante politico una volta mi disse: “Vedi, Maurizio, se tuo nonno si mettesse a dare degli scappellotti a ogni passante fuori dalla porta del ristorante, ci entrerebbero tutti lo stesso”.

Seriamente, che faceva suo nonno ai clienti?
Era qualcosa di impossibile da spiegare a parole. Gustavo Adolfo di Svezia era un grosso appassionato di etruschi e veniva spesso in Italia per studiare l’area archeologica di Cerveteri (anche se credo che lo facesse più che altro per hobby, visto che era re). Una volta venne giù al ristorante e chiese a nonno: “Alfredo, perché non siedi insieme a me?”. E nonno rispose, chiedendo al suo caposervizio di tradurre in inglese, visto che lui parlava solamente romano: “Di’ al re che non posso sedere con un re, perché io sono un modesto oste”. Anche Gustavo Adolfo subiva il fascino di quell’uomo.

Un fascino che trasmetteva dunque anche senza l’aiuto della comunicazione verbale. Era un uomo fisicamente notevole?
Macché, era piccino: un metro e sessantacinque. Ma aveva un viso simpatico, degli occhi vispi, dei bei baffi. Un uomo caratteristico di fine Ottocento.

Lavorandoci accanto, sentiva di essere parte di qualcosa che sarebbe diventato un mito?
Ma si capisce, perché lo era già! Nel 1956 nonno aveva una fama internazionale. Un giorno il presidente dei commercianti di via Condotti venne a proporci di partecipare alla settimana della cucina italiana di Crans-sur-Sierre in Svizzera. Per le fettuccine ci furono prenotazioni da Parigi. Alfredo era molto più famoso all’estero che nella sua città natale. E sapete perché?

Ci proviamo: forse perché all’italiano e, in particolare al romano, le fettuccine Alfredo possono sembrare – erroneamente – della semplice pasta in bianco, un piatto che ci si fa spesso da sé in casa?
Questa supposizione ha una certa logica, per carità di Dio, ma non bisogna dimenticare un concetto fondamentale: purtroppo nemo propheta in patria. Conoscendone l’attrattiva nei confronti dei Paesi esteri, i romani hanno sempre automaticamente considerato il ristorante di nonno un posto per turisti. Si sarebbero sentiti declassati ad andare a mangiare in un ristorante frequentato da turisti, come se fossero degli appestati. Se mi perdonate l’accostamento forse un po’ irriverente, i romani avevano in Giggi Fazi il luogo sacro per andare a mangiare in città. Lì il turista non ci andava: non ci sarebbe mai arrivato, perché non aveva proprio i riferimenti per farlo.

Secondo lei il problema della fama in patria per Alfredo poteva essere determinato anche dal fatto che il suo piatto forte aveva un padre con un nome e un cognome, mentre altri grandi primi della tradizione romana, che tutt’ora sono parte delle abitudini culinarie dei romani stessi (come la carbonara, l’amatriciana, la gricia, la cacio e pepe), sono invece creazioni collettive i cui inventori non si conoscono?
Probabilmente sì, fermo restando che qualche italiano veniva da nonno, come si può evincere dalle notevoli documentazioni fotografiche che sono ancora appese alle pareti del ristorante. Parlamentari, attori, musicisti erano puntualmente sorpresi di scoprire che le nostre famose fettuccine fossero solo fatte con burro e formaggio. Noi avvertivamo: “Provatele. Poi, al limite ci boccerete”. Loro le assaggiavano e ci davano ragione, perché delle fettuccine burro e formaggio del genere, in vita loro, non ne avevano mai mangiate. Poi riprovavano a farle a casa, ma non ci riuscivano. La carbonara, tutto sommato, può riuscire decente a molti. Ma neanche io, che ne sono il nipote e che sono stato addentro la materia illo tempore, riesco a fare da me le fettuccine di Alfredo. Mi ci posso avvicinare, facendo una stima molto ottimistica, per un 80%. A casa non ci riuscirò mai al 100%. È molto più facile fare un’amatriciana che le fettuccine Alfredo.

Per quali motivi le fettuccine Alfredo del canone sono irripetibili?
Prima di tutto c’è una questione di reperibilità delle materie prime. Non è che si trovino all’angolo della strada. Poi c’è tutta una meccanica ante e dopo che va rispettata. Non a caso abbiamo avuto un cuoco che ha lavorato alla partita delle paste per quarantacinque anni.

È un prodotto iniziatico. Ma allora, visto che è così difficile, come mai si è diffuso così rapidamente in tutto il mondo? Sarà stato un po’ vittima della sua apparente semplicità e replicabilità?
La fama delle fettuccine Alfredo è cresciuta in tutto il mondo perché accadde la stessa cosa che successivamente è accaduta a molti altri prodotti italiani che vengono mistificati all’estero. A Palm Beach trovavo il Parmigianito, che non è il Parmigiano Reggiano. Solo quelli che venivano a mangiare le fettuccine Alfredo in Italia sentivano la differenza tra le vere e le false. Per tutti gli altri bastava il nome. Per loro le fettuccine Alfredo fatte da Buitoni, che fu il primo marchio a mistificarle, erano le fettuccine Alfredo. Era un nome talmente conosciuto che era facilissimo produrlo e venderlo. Non so se seguite quella rubrica culinaria, Little Italy?

Come no, Little Big Italy di Francesco Panella.
Ecco, a me diverte trovarci conferma che non esista ristorante al mondo, che sia in Germania come nel Tanganica, che non abbia le fettuccine Alfredo nel menu. E sembra che piacciano tutte! A un certo pubblico, parlo di grandissimi numeri, basta leggere Alfredo e le fettuccine sono il top. Vi dico un’altra cosa. Quando avevo il ristorante in Florida, nei primi anni non potevo importare la mozzarella di bufala. Alla fine ci sono riuscito. Quando feci assaggiare ai miei clienti abituali la vera mozzarella di bufala che veniva dalla Campania, mi guardarono storto e chiesero: “Ma è veramente mozzarella di bufala?”. Io gli facevo vedere la busta e loro ancora non ci credevano.

Ci sono altre ricette di Alfredo che ricorda con affetto?
Al ristorante Alfredo il 99% dei clienti veniva per mangiare le fettuccine. Il resto era optional. Si mangiava anche il pesce fresco, gli scampi, le mazzancolle, le spigole; carne di manzo, di vitello, per carità. Era un ordinario di qualità, ma niente di eclatante.

Quello di suo nonno era un ristorante che selezionava il pubblico anche in base al prezzo?
Mediamente è sempre stato un po’ più caro degli altri ristoranti, ma non in maniera eccessiva. Nel 1950 si spendevano 1.800 lire per mangiarci quando, di norma, dai concorrenti si arrivava a circa 400. Sia ben chiaro: non ci approfittavamo di nessuno; ma agli americani cosa poteva importare, con un dollaro che stava sulle 600 lire, di spenderne tre per venire da noi? Così era per gli inglesi e per i francesi; un po’ meno per i tedeschi, che dopo la guerra erano messi peggio di noi.

Veniamo al sancta sanctorum. Sono tante le leggende che circolano sulla genesi delle fettuccine Alfredo. Quando e come è nata davvero la ricetta di suo nonno?
Vi devo dire con onestà che non gliel’ho mai chiesto. Un bel giorno inventò questo piatto che ebbe un successo che, probabilmente, sorprese anche lui. Non l’aveva studiato o elaborato con chissà quale pensiero. Fatto sta che, prima data storica, nel luglio 1927 venne a Roma una coppia di attori americani, Douglas Fairbanks e Mary Pickford. I quali, in segno di gratitudine per l’ospitalità, regalarono a nonno le due famose posate d’oro con incisi i loro nomi. Le particolarità del piatto erano solo gli ingredienti di altissimo rendimento e quel tocco magico con cui nonno si presentava al tavolo dei clienti, per mantecare di persona le loro fettuccine. Forse segreti di Pulcinella.

Le posate regalate ad Alfredo Di Lelio da Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Foto: Alberto Pizzoli/AFP via Getty Images

Ma facevano la differenza. Come riassumerebbe ingredienti e preparazione della ricetta?
Compravamo il burro a Soncino, vicino Cremona, che era di una qualità straordinaria e, di conseguenza, anche di un prezzo piuttosto alto. In alta stagione – da sotto Pasqua fino a fine ottobre, quando c’era il torneo a Piazza di Siena e Roma si riempiva di inglesi, svedesi e norvegesi coi cavalli: era uno spettacolo! – consumavamo una forma di Parmigiano Reggiano da 35-40 chili al giorno; mezza forma in quella bassa. Il Parmigiano non doveva essere mai troppo stagionato, in modo da non assumere quella punta di piccantezza che avrebbe alterato la ricetta. Doveva essere così fresco da sembrare quasi un formaggio a pasta molle, se pigiato tra il pollice e l’indice. Veniva grattugiato a mano perché la macchina, col suo calore, ne avrebbe alterato il sapore. Se ne occupavano due addetti con delle grattugie che un fabbro realizzava appositamente per noi. La cottura della pasta non necessitava di tempi particolari: era semplice pasta fresca all’uovo, che ordinavamo sempre dallo stesso fornitore di Borgo Pio. L’unica cosa da notare è che queste fettuccine erano fatte con la semola. Le conservavamo umide e morbide, coprendole con panni freschi. Una volta cotte le fettuccine, per un minimo di due porzioni e un massimo di otto, l’acqua veniva cambiata, perché la farina lasciava un certo residuo nell’acqua.

Poi cosa accadeva?
Si prendevano dei piatti ovali, non molto alti ai bordi, che erano stati immersi nell’acqua bollente. Il cuoco preparava il burro necessario in forma di panetto e lo appoggiava sul piatto molto caldo. Il burro, come del resto il Parmigiano, erano molto abbondanti.

In che proporzioni rispetto alla pasta?
Questa domanda mi mette in crisi. Ve lo dovrei mostrare a mano! Comunque erano abbondanti. Dopodiché si adagiavano le fettuccine sopra il burro e si versava sopra il tutto una pioggia di Parmigiano. Infine si aggiungeva un goccino di acqua di cottura, perché al momento della mantecatura il tutto doveva diventare cremoso, da sciogliersi in bocca mentre veniva consumato entro tre o quattro minuti. Chiaro?

Quello che è chiaro è che questa ricetta non si può imparare senza viverne l’esperienza diretta.
È verissimo. Ma occhio sempre agli ingredienti di buona qualità.

Qual era l’errore più facile da commettere?
A volte il cuoco non metteva sufficiente acqua di cottura, e doveva aggiungerne dell’altra in un secondo tempo.

Oggi, invece, in cosa sbaglia più spesso chi prepara le fettuccine Alfredo nel mondo?
(Ride) Gli sbagli sono così tanti. Partiamo da qui: in America sono convinti che nella carbonara ci vada la panna.

Le è mai capitato di trovare delle fettuccine Alfredo dignitose fuori dal ristorante di suo nonno?
Di dignitose ne abbiamo fatte io e i miei soci a Palm Beach.

E a parte voi?
No, purtroppo no. L’accostamento è impossibile, per chi lo vuol credere.

Le vogliamo credere. Il posto più strano in cui ha mangiato le fettuccine Alfredo?
Io sono stato uno che ha girato il mondo e, viaggiando, ho sempre preferito assaggiare la cucina locale; anche se, con tutto il rispetto, non ne sono stato mai convinto. Sono stato a Bangkok, a Hong Kong, a Bali, in Svizzera, in Germania, negli Stati Uniti, in Marocco, e non mi sono mai azzardato ad assaggiare le fettuccine Alfredo in uno dei loro ristoranti. Non le ho mai assaggiate neppure in una cucina di romani. È troppo difficile!

Lei è una persona molto simpatica. Forse ha ereditato parte del carisma di suo nonno?
No. Nonno era unico. Avete presente quando uno si domanda se c’è o ci sarà mai un altro attore come Eduardo De Filippo? Non c’è e non ci sarà mai un altro Eduardo De Filippo.

A proposito di attori, è inevitabile una domanda sul firmamento di stelle del cinema e di grandi personaggi che sono passati dal ristorante di suo nonno. Ne vogliamo ricordare qualcuno?
Da Alfredo è passato il mondo, senza tema di smentita. Prima di tutto al livello di Capi di Stato, re, principi. Quando nel 1953 ci fu il colpo di stato in Persia, lo scià e Soraya vennero a Roma per una quindicina di giorni, fintanto che Mohammad Mosaddeq non ricadde e lo scià poté rientrare. Non dico che stavano a cena da noi tutti i giorni, ma quasi.

Pacchetto asilo politico completo.
Dopo una settimana che Grace Kelly e Ranieri di Monaco si erano sposati erano da noi a mangiare le fettuccine.

Pure in viaggio di nozze?
Esatto. In circostanze misteriose venne John Kennedy. Un cliente americano mi disse: “Guarda, Maurizio, che quello è John Kennedy”. A me è come se avesse detto Tuzzabanchi Nicola. “Sappi che quello è un senatore del Massachusetts e sicuramente sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti”. Allora chiamai nonno, che mi disse: “A Maurì, faje fa’ ‘na fotografia che io c’ho da fa’“. E la fotografia sta ancora appoggiata lì.

Altri cimeli?
Un giorno venne Mamie Eisenhower, moglie del Presidente Eisenhower, e rimase talmente contenta di tutto che, quando tornò alla Casa Bianca, ne informò il marito. Chi avrebbe potuto immaginare che gli avrebbe raccontato una cosa del genere. Morale della favola: ci arrivò una lettera con l’intestazione “White House” in cui il Presidente ci ringraziava per come avevamo trattato con calore e simpatia la moglie, con tanto di firma autografa “Dwight David Eisenhower”. La famiglia reale spagnola era di casa. Veniva a cena perfino la famiglia di Franco; ma Franco no, aveva troppa paura che non lo facessero rientrare in Spagna. Re Hussein di Giordania, re Farouk d’Egitto… il duca di Windsor venne parecchie volte. L’ultima volta per sfortuna non incontrò nonno, che aveva avuto una piccola ischemia. Allora il duca scrisse su una cartolina: “Caro Alfredo, sono venuto a trovarti. Mi dispiace aver saputo che stai poco bene. Ti auguro tanta salute. Edoardo duca di Windsor”. Anche questa sta ancora appoggiata lì al muro, non sono fandonie!

Liz Taylor e Richard Burton al ristorante Alfredo nel 1961. Foto: Keystone-France/Gamma-Keystone via Getty Images

Macché fandonie. E divi del cinema?
Ce ne sarebbero tanti. Da Hollywood sono venuti tutti. Clark Gable, James Stewart, Jack Lemmon, mi sfuggono pure i nomi. Una sera da noi Liz Taylor e Richard Burton si fecero una litigata che non vi dico. Lei lo aveva fatto ingelosire perché, vedendo sulle pareti le fotografie di determinati attori, aveva cominciato a dire: “Con questo ce so’ stata, con questo pure…”. Una sceneggiata. Un’altra volta ci chiamarono dall’ambasciata americana: “Preparatevi perché sta per arrivare da voi Robert Kennedy, il fratello del Presidente”. All’epoca era il Ministro della Giustizia. Fece tardi e si prese una sbornia tale che si mise a ballare sui tavolini, e quando uscì, visti i tanti giornalisti con le motorette, ne acchiappò una e cominciò a farci dei giri, con la polizia che non sapeva come fermarlo perché, se si fosse fatto male, sarebbe scoppiata una guerra. Di aneddoti ce ne sono talmente tanti…

Quello che l’ha più commossa?
Anche Ava Gardner passò da noi quando nonno stava poco bene. Sapete che fece? Gli mandò un fascio di rose in clinica.

Una rivoluzione copernicana.
Una cosa che ho capito nei 12 anni in cui ho vissuto negli Stati Uniti è che lì i ristoranti non hanno proprietari, ma società. Sono situazioni asettiche. In Italia, e soprattutto a Roma, abbiamo invece il contatto diretto del proprietario col cliente. Quando un cliente veniva da noi chiedeva: “Il signor Alfredo c’è? Non c’è? Che peccato! Se manca lui, speriamo che tutto vada bene”. Avete capito cosa vuol dire la presenza del proprietario? Una certezza e una tranquillità per il cliente, che a volte può essere anche smentita, per carità, perché possono succedere cose spiacevoli anche coi proprietari presenti. Ecco, nonno esaltava all’ennesima potenza questa situazione.

Com’è la Roma che ha trovato al suo ritorno?
Mi trovo su un altro pianeta. Ogni tanto torno sul luogo in cui sono nato. È tutto cambiato, non mi ci identifico più. Sono trent’anni che ho comprato sulla Cassia e mi sono ritirato nel mio nuovo rifugio. La Roma di una volta è scomparsa completamente.

Un consiglio che darebbe a qualcuno che volesse intraprendere una carriera simile alla sua?
Ho sempre sostenuto, e non penso di essere lontano dalla verità, che il mestiere del ristoratore sia uno dei più difficili del mondo. Non mi sento di consigliarlo a nessuno. Probabilmente mi sbaglierò o sarò cattivo ma, se avessi trent’anni oggi, io non ci riproverei.

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