Eroica e gentile: la montagna salverà la viticoltura? | Rolling Stone Italia
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Eroica e gentile: la montagna salverà la viticoltura?

Gli effetti del cambiamento climatico fanno intendere che un mutamento sia alle porte nel mondo del vino. Per alcuni, la soluzione si trova a qualche metro in più sul livello del mare

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Credits: Roni Bintang vía Getty

Nel Cratilo, Platone mette in scena un dialogo tra i filosofi Socrate, Ermogene e Cratilo stesso sul corretto significato dei nomi. Mentre i tre discutono, Ermogene chiede a Socrate cosa sia l’heros, l’eroe. Il filosofo, maestro di Platone, risponde con un particolare – e forse non esattissimo – guizzo etimologico: «Questo non è molto difficile da capire: di poco infatti è modificato il loro nome, mostrando la propria origine da eros», dunque dall’amore. Secondo Socrate gli eroi, figli di un mortale e di una divinità, sarebbero tali anche perché nati da un gesto di amore. Tralasciando quanto questo artificio retorico suoni quasi più come un divertissement che come una corretta analisi linguistica del termine, collegare l’eroismo all’amore può essere una chiave di lettura suggestiva (e anche parecchio romantica) per parlare – sì – di viticoltura eroica.

 

 
 
 
 
 
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La viticoltura eroica, che cos’è
La viticoltura eroica è una coltivazione dei vigneti sviluppata in aree impervie, montuose, dove le viti si inerpicano su terreni che hanno almeno il 30% di pendenza, su gradoni o terrazze, oltre i 500 metri sul livello del mare, spesso in aree a rischio idrogeologico, tra monti mal collegati o su piccole isole. L’altopiano del Carso, le isole siciliane, l’Isola d’Elba, l’Etna, la Sila e il Pollino, la Valtellina, le Cinque Terre, le montagne dell’arco alpino o della dorsale appenninica: cambiano i panorami, i vitigni, le forme delle case, i dialetti, i pani e i companatici ma qui i vignaioli eroici, grazie a un’agricoltura che al tempo stesso sfida e si prende cura della natura, si lanciano in un’impresa che è un gesto d’amore nei confronti di un territorio.

Se poi pensiamo che in queste zone del nostro Paese è praticamente impossibile condurre macchinari moderni, il termine eroico assume anche la sfumatura arcaica ed epica che ci trascina in un immaginario di fatiche e imprese, che ben si sposa con il lavoro quotidiano degli agricoltori che praticano questa viticoltura.

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Credits: Michele Bella/REDA&CO/Universal Images Group via Getty

Fare il vino tra gli Appennini colpiti dal terremoto
«Più che eroismo è resistenza», ci dice Giacomo Eupizi, che nel 2018 ha creato la Cooperativa Agriarquata, mettendo insieme pochi ettari di vigneti sugli Appennini che si allargano tra la provincia di Ascoli Piceno e quella di Rieti, tra monti, valli e paesi fatti di piccole case di pietre sventrate dai devastanti terremoti che si sono susseguiti nella zona dal 24 agosto 2016 ai primi giorni del 2017. Qui, racconta Giacomo, «la viticoltura c’è da sempre»: possiamo tornare indietro nei secoli, mescolare la storia con il mito, e immaginare Annibale che respinto da Spoleto va a rifugiarsi nella zona tra Marche e Abruzzo, dove il vino vecchio è talmente abbondante che lo usa per sciacquare le zampe dei cavalli malati. Plinio il Vecchio parla del vino cotto che veniva prodotto ad Arquata del Tronto, mentre intorno all’anno Mille i monaci benedettini iniziano a produrre un vino frizzante per l’eucarestia. Alla metà dell’800 i censimenti dei terreni segnano 90 ettari di vigne in filari, risparmiati dalla fillossera che invece distrusse i vigneti di mezza Italia.

Tutto però cambia dopo la Seconda Guerra Mondiale: la difficoltà di curare le vigne a queste altitudini e lo spopolamento di paesini mal collegati con le città – in cui l’industria e i servizi iniziano ad attrarre sempre più giovani –, riducono progressivamente questa abbondanza, tanto che il patrimonio vitivinicolo della zona si riduce a qualche ettaro e pochi vitigni incolti. Il terremoto poi ha amplificato ancora di più la marginalità di comuni e frazioni tra il Piceno e Amatrice: le strade a lungo interrotte, interi paesi crollati, la ferita di un tessuto sociale e produttivo in costante e complessa ri-suturazione da quasi otto anni a questa parte.

 

 
 
 
 
 
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Se poi coltivare in quota significa anche un lavoro maggiore per rese minori, allora perché questa forma di eroismo enologico? «Perché qui c’è qualcosa in più, c’è identità. Mio nonno aveva una vigna su cui lasciava l’uva fino ai giorni dell’immacolata per fare il passito. Andava alla vigna e controllava che i bambini non gli mangiassero gli acini. Perché lo faceva? Perché voleva che i suoi amici continuassero a dire, anno dopo anno, “quant’è buono il passito di Francesco”». Spinto da questa missione identitaria, Giacomo inizia a fare ricerche sui vini della zona, recupera vecchi vigneti e li cura come una volta: piede franco, pali e traverse di castagno, trattamenti al minimo e solo se il clima lo richiede.

Vigneti sul vulcano
Cambiano le latitudini ma le storie di eroismo hanno le stesse radici: saliamo lungo le pendici dell’Etna, in Sicilia, vulcano attivo di oltre 3.000 metri di altitudine e montagna su cui soffia il vento del mare, «un Nord nel Sud» dice Salvo Foti, del consorzio agricolo I Vigneri. Anche loro viticoltori eroici, custodi da generazioni di un imprescindibile armonia tra Territorio-Vitigno-Viticoltore. Lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori sono tutti «vitivinicoltori autoctoni etnei», e da decenni rispondono alla sfida di produrre il vino in una zona in cui non mancano le eruzioni improvvise (spesso accompagnate da terremoti), «che possono essere a volte solo spettacolari, a volte rigeneratrici di suoli, a volte drammatiche, sia dal punto di vista dell’impatto fisico che psicologico, con il rischio, inesorabilmente alto, di perdere tutto».

 

 
 
 
 
 
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Qui portano avanti un’agricoltura con tecniche tradizionali: i vigneti sono impiantati su terrazze costruite con muri a secco in pietra lavica, le viti coltivate una a una, manualmente, con la tecnica dell’alberello etneo, con un palo di castagno e legate con soli materiali organici, senza plastica, fili di ferro o cemento. Per la vinificazione delle uve si usa il Palamento etneo, un’antica cantina, anche questa in pietra lavica locale, che per funzionare non ha bisogno di energia esterna. Sono tecniche basate prevalentemente sul lavoro manuale:«lavoriamo manualmente per 200 giorni all’anno, quando in un ettaro di vigneto meccanizzato sono sufficienti 80 giorni, ciò significa che oltre l’70% del costo per produrre l’uva è rappresentato dal lavoro manuale». Non si usano trattori, al massimo macchinari di piccole dimensioni e la maggior parte degli strumenti sono prodotti da artigiani locali. I trattamenti con zolfo e rame sono pochissimi e non viene usata irrigazione per le viti perché comporta lo spreco di acqua e l’aumento della concentrazione superficiale dei sali nel terreno con la conseguente sterilizzazione dei suoli. A pensarci bene, in fondo «la tradizione non è che un’innovazione che ha funzionato per un lunghissimo tempo». Anche Salvo come Giacomo parla di fatica, di rischio, di difficoltà ma, di contro, ci confida di «avere la fortuna di poter vivere e coltivare le viti in un posto unico, completo, carico di energia, che nutre nel corpo e nello spirito».

Tra Italia e Germania
Quello della fatica, quando parliamo di viticoltori eroici, diventa un topos letterario dalle radici mitiche. «I vini prodotti qui nascono dal freddo ma soprattutto dalla fatica», ci dice Martin Foradori Hofstätter, quarta generazione di viticoltori, una sorta di casata della vigna: l’azienda agricola Hofstätter come la conosciamo oggi nasce infatti da un matrimonio, quello tra i genitori di Martin, la madre – Sieglinde, unica erede della tenuta J. Hofstätter – e il padre – Paolo, discendente di viticoltori trentini. Un matrimonio che sancisce l’unione dei rispettivi terreni di famiglia a cavallo della Valle dell’Adige. Qualche anno più tardi, nel 1987, sono artefici di una rivoluzione: con la creazione del Vigna S. Urbano Pinot Nero, introducono per la prima volta in Alto Adige la classificazione Vigna. Le viti si inerpicano tra altopiani e pendii, tra i 250 e gli 850 metri e oggi, grazie a Martin, l’azienda si sviluppa anche in Mosella: «La mia passione per il Riesling mi ha portato a essere il primo italiano a investire nella Saar, la regione vinicola tedesca della Mosella, dove questo nobile vitigno si esprime al meglio».

 

 
 
 
 
 
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Le difficoltà, anche qui, non sono poche. Nel 2023 i vigneti di Maso Michei, tra 790 e 850 metri di altitudine, sono coperti da quasi mezzo metro di neve: «quasi ogni anno potiamo queste vigne con i piedi che sprofondano nella neve». Come sugli Appennini e sull’Etna, anche sulle Alpi i lavori sono fatti a mano, senza il supporto dei macchinari specializzati. Fatica, epica, mito, ma anche e soprattutto una questione pratica che è facile non prendere un considerazione: «se nel fondovalle i vignaioli possono usare leggere scarpe da ginnastica, a 850 metri ci vogliono calzature adatte».

 Come Giacomo e Salvo però, neanche Martin abbandonerebbe i suoi vigneti per una viticoltura più facile: «produrre vini qui è stata una scelta legata alla filosofia di crearli in un luogo unico e vocato. La posizione, la natura incontaminata e la quiete di questo scenario isolato rendono Maso Michei un posto speciale».

Agricoltura e cambiamento climatico: risposte antiche a problemi moderni
Queste storie di eroismo, resistenza e rinascita sono forse anche l’arca della salvezza per una viticoltura (e un’agricoltura) che è costretta a fare i conti con una natura trasformata dai cambiamenti climatici. In attesa delle statistiche ufficiali del sistema europeo Copernicus Climate Change Service e della NOAA – National Oceanic and Atmospheric Administration – americana, infatti, testate giornalistiche ed esperti attribuiscono al 2023 l’inquietante premio di anno più caldo della storia. I 365 giorni appena conclusi hanno infatti registrato il giorno più caldo di sempre (il 6 luglio), un record superato ben 40 volte tra luglio e agosto, il mese più caldo della storia (luglio) e il particolare record negativo del 17 novembre, quando per la prima volta le temperature globali hanno toccato i 2 gradi Celsius sopra i livelli preindustriali, ben 0,5 gradi in più rispetto ai fatidici 1,5 – soglia di contenimento del riscaldamento globale destinata, secondo molti esperti, a essere presto superata in pianta stabile.

Probabilmente siamo già al punto di non ritorno e il nostro Pianeta non sarà più lo stesso. Non è un caso se un articolo del 31 dicembre 2023 del Washington Post titolava Il futuro del cambiamento climatico è arrivato. Ha lasciato cicatrici in tutto il mondo: la teoria è semplice, gli scenari apocalittici e distopici a cui ci avevano abituato i film di fantascienza e per cui ci avevano messo in guardia scienziati e attivisti sono il presente. In questo contesto, i viticoltori eroici diventano pionieri di un nuovo paradigma agricolo in cui si salva chi è disposto a salire in quota. «Sì, a occhio si vede: già ora l’uva si fa molto meglio», risponde Giacomo Eupizi quando chiediamo se, secondo lui, il futuro della viticoltura sarà ad altitudini più alte. Anche Salvo Foti crede di sì, ma aggiunge, con un pizzico di amarezza: «questi cambiamenti sono catastrofici. D’altronde, come mi fa riflettere Martin, in montagna ogni cambiamento meteorologico è amplificato. Nel bene e molte volte anche nel male». Quello che forse fa dell’agricoltura eroica un paradigma che si può adattare meglio di altri al mondo che sta cambiando così velocemente sotto i nostri piedi e sopra le nostre teste, allora, non è tanto dettato da una condizione geografica ma dal fatto che, sempre con le parole di Martin, «coltivare vigna in quota significa cambiare modo di pensare, significa avere gli occhi aperti a interpretare nel miglior modo possibile Madre Natura».

 

 
 
 
 
 
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La marginalità delle zone eroiche, la difficoltà di portare la meccanizzazione in determinati terreni o di usare strumentazioni invasive, obbliga i produttori a usare sistemi di coltivazione antichi, senza sprecare risorse, adattandosi al territorio e ai suoi cambiamenti e di essere quindi letteralmente resilienti. Un modo di coltivare che per Salvo è «più in sintonia con la natura del luogo, meno invasivo e rispettoso dell’ecosistema». Dai suoi vigneti sull’Etna non vede molte alternative: «dobbiamo cambiare, velocemente, il nostro modo di produrre e di pensare, acquisire una capacità di cambiamento repentina in metodi e sistemi e soprattutto inventarci o reintrodurre dei metodi di coltivazione che si credevano obsoleti e poco produttivi. Sicuramente bisognerà puntare molto sul risparmio di acqua, di energia, di mezzi tecnici. Comprendere che non si può fare tutto dovunque e comunque». Il che, in altre parole, vuole anche dire: attenzione che questa cosa delle vigne in montagna non diventi vezzo, più che necessità, e dunque ulteriore occasione di stress per il territorio.

Nel 2022, Martin apre i suoi archivi e gli annali dell’azienda in cerca di risposte a un’annata particolarmente difficile. Confronta i dati di oltre trent’anni – germogliatura e fioritura, periodo di vendemmia, stress idrico delle vigne – e arriva alla conclusione che «il futuro della viticoltura non passa attraverso soluzioni estreme al temuto cambiamento climatico, ma bensì attraverso la capacità della vite e, soprattutto, del viticoltore, di adattarsi alle condizioni imposte dal meteo». D’altronde, come conclude Salvo, l’unica certezza che abbiamo è il cambiamento.

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