Dimmi cosa mangi e ti dirò che dittatore sei | Rolling Stone Italia
belly of the beast

Dimmi cosa mangi e ti dirò che dittatore sei

Saddam Hussein c’è rimasto per colpa di una carpa alla griglia. Pol Pot, invece, predicava l’autarchia alimentare in Cambogia mentre si abbuffava di baguette. Abbiamo parlato di quando il cibo è potere con Witold Szabłowski, autore di 'Come sfamare un dittatore'

Witold Szablowski

«Il cibo è potere, l’ho imparato cucinando per i presidenti. Se hai il cibo hai le donne, hai il denaro, hai l’ammirazione degli altri. Puoi avere tutto quello che ti viene in mente». Questa frase l’ha pronunciata una persona che non conoscete. Non uno chef stellato, non il nuovo arrivato sulla piazza dopo essersi “fatto dal basso”. Al contrario: «è sottile come l’erba alta della savana, ha zigomi ben evidenziati, e avvicinandomi noto le sue dita lunghe e magre dalle unghie grosse. […] L’uomo che sembra un patriarca è Otonde Odera. Le sue lunghissime dita erano solite affettare carne e ortaggi, e sminuzzare il riso per ben due presidenti dell’Uganda, tra cui Idi Amin, il sanguinario dittatore di cui si dice cha mangiava carne umana. Chissà se è stato Odera a cucinarla per lui? E come la preparava? Con che cosa la accompagnava?»

Witold Szabłowski – pluripremiato scrittore e giornalista polacco, autore di queste ultime righe – ci ha messo un po’ a stanare Odera, e altri cinque cuochi con lui, sparsi in giro per il mondo. Non sorprende, visto che il loro manuale del buon professionista recava, come primo precetto, “nascondersi sempre, parlare mai”. Di mezzo non c’è alcuna ricetta segreta, bensì un manipolo di uomini. Chiacchierati, oscuri, spietati. Hanno fatto la storia del ventesimo secolo. I loro nomi sono: Fidel Castro, Enver Hohxa, Idi Amin, Saddam Hussein, Pol Pot. Odera, insieme ad Abu Alì, il Signor K., Erasmo, Flores (degli ultimi due i cognomi sono ignoti) e Yong Moeun sono stati i loro cuochi personali, e Szabłowski li ha resi protagonisti del suo libro Come sfamare un dittatore, pubblicato in Italia quest’anno dalla casa editrice Keller. Ha mangiato con loro, cucinato con loro. E, seppure non abbia potuto riscrivere la Storia, ci ha portato dietro le quinte, a osservare silenziosi il potere che il cibo (e i peccati di gola) hanno avuto sul nostro presente.

 

 
 
 
 
 
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D’altronde, regola vige: per essere cuochi si dev’essere maghi, chimici, santi e peccatori allo stesso momento – o delinquenti, per dirla con il Bourdain di Kitchen Confidential. Szabłowski rincara la dose: «Se cucini di professione, non sei una persona regolare. Prendi Erasmo e Flores, i due cuochi di Fidel. Loro si sono uniti alla Rivoluzione a quindici anni, e solo dopo hanno iniziato a cucinare per Castro. Se sei un ragazzo inquadrato non ci pensi nemmeno, di andare a nasconderti tra i boschi per cambiare la Storia». Lo stesso è accaduto a Yong Moeun, prima attratta dalle idee del dittatore cambogiano Pol Pot (e dal suo sorriso smagliante, “proprio da bell’uomo”) e dalle cure del suo stomaco poi. Diverso per Odera, Abu Alì e il Signor K., cuochi più o meno amatoriali catapultati dentro macchine precise e spietate: l’apparato interno a ogni regime, che ogni giorno si alzerà all’alba e deciderà se “l’uomo eletto” rimarrà lo stesso o se sarà ora di rovesciare di nuovo tutto.

C’è da dire, come ricorda Odera, che i cuochi sono tutt’altro che alieni alle sfide del, e al, potere: chi cucina «potrebbe dimenticare di lavarsi le mani finendo per avvelenarti, devi perciò fidarti molto del fatto che sia attento all’igiene e faccia tutto come si conviene». Altro che preti: i cuochi custodiscono segreti e maneggiano i gangli del potere, e avere il rispetto, e la fedeltà, di chi sminuzza verdure e soffrigge carne se la gioca solo con quella del capo dell’esercito. In più, c’è la lore: William Shakespeare, vuole leggenda, si è contorto in una notte d’inverno dopo una scorpacciata di alcol e aringhe (la cui freschezza non ci è pervenuta), incontrando una morte ingloriosa per colpa di una cena andata male. Sul corpo di Papa Clemente II, deceduto in circostanze misteriose, furono ritrovate tracce di piombo, facendo presumere un avvelenamento per via alimentare. Socrate morì bevendo un decotto di cicuta dopo esser stato condannato da una giuria atenese. Nella finzione de Il filo nascosto (2017) di Paul Thomas Anderson, Vicky Krieps (nel personaggio di Alma) cucina una splendida cena a base di funghi velenosi a Reynolds (Daniel Day-Lewis), decretando la fine di una relazione pericolosa.

Tutti gli occhi sul cuoco, insomma. E, per tener salva la pellaccia, conviene starsene belli dritti, ordinati, tirare l’espressione. Non destare sospetti. Per Szabłowski «un cuoco professionista tira fuori il coltello e si trasfigura. Diventa più alto, statuario. È un re nel suo regno». Eh sì. Perché cucinando per un dittatore non bisogna solo assicurarsi che il commensale non si strozzi con un osso di pollo piazzato male. La sfida principale è conservarsi, non essere il prossimo a finire in pentola. Per il nostro Odera, questo significava salare all’inverosimile i propri piatti per incontrare il gusto (o forse le papille bruciate) di Idi Amin. Il Signor K., invece, dovette fare i conti con il diabete di Enver Hohxa, che lo costringeva a una dieta ferrea e che lo lasciava a stomaco vuoto, e dunque di pessimo, e pericoloso umore. Dice a Szabłowski: «In che modo questo fatto condizionava le sue decisioni? Prova a chiederti quali decisioni prenderesti se a tua volta avessi la pancia sempre vuota e i nervi a fiori di pelle. […] Sapevo che in giornate così, ciò di cui Hohxa aveva bisogno era qualcosa di dolce, e che sarebbe stato meglio per tutti, per tutto il Paese, se si fosse mangiato un bel dessert». Oppure, un piatto dell’Agirocastro, città dell’Albania di cui Hohxa era originario: Shapkat (torta salata di mais), kofta (polpette di carne), tarhana (zuppa turca con pomodori e cipolle).

Nessuno, però, fu più condizionato dal cibo di Saddam Hussein. Abu Alì, unico tra gli intervistati a essere stato prima cuoco che cuoco del dittatore iracheno, afferma l’esistenza degli extraterrestri e sottolinea che Saddam era «un gran figlio di puttana», e che, con uno sliding door diverso, sarebbe finito a fare il ladruncolo di strada. Veniva da una famiglia umile, umili erano i suoi gusti: spiedini tikka all’irachena, riso e, regolarmente, anche il masgouf, carpa locale alla griglia. Sembra un dettaglio da nulla, invece, ci dice Szabłowski, «Sarà proprio il masgouf a decretare la cattura di Saddam e la sua impiccagione. A volte si dice “segui i soldi”, qui invece siamo davanti a un caso di “segui la carpa”. Non si sapeva dove fosse il suo nascondiglio, no? Dunque gli agenti dei servizi segreti cercavano di monitorare quanto avveniva nell’ambiente attorno a lui. Era giunta loro voce che Saddam fosse ghiotto di masgouf, così cominciarono a monitorare i vari laghi in cui venivano allevate le carpe irachene. Ce n’erano pochissimi. E uno di questi non immetteva prodotti sul mercato. Fare due più due e capire che era proprio quel lago a rifornire Saddam di pescato fu solo questione di matematica».

Witold Szablowski

Si sa, il cibo rivela molto di chi lo mangia. Anche, all’occorrenza, la posizione segreta di uno degli uomini più ricercati dei primi Duemila. «Se sei arrivato a essere un dittatore», continua Szabłowski, «c’è l’ottima probabilità che tu sia un professionista della menzogna. Al tuo cuoco, però, non puoi mentire. Non puoi dire che ti piace qualcosa che non vedi volentieri nel piatto, e poi addirittura mangiarla comunque. Questo ci porta a una caratteristica che avevano tutti i dittatori di cui ho parlato nel libro: erano legatissimi al cibo dell’infanzia, quando anche loro potevano essere solo bambini, senza il peso della Storia sulle spalle. Per alcuni invece, per esempio Pol Pot, il cibo era l’unico modo per alzare la maschera e vedere il vero uomo. Pol Pot aveva lanciato una campagna di autarchia alimentare micidiale in Cambogia, celebrandone tradizione e materie prime, e allo stesso tempo affamava sistematicamente la popolazione razionando le scorte. Così controllava il consenso, perché quando la nazione ha fame, i consensi si orientano verso “il leader forte”. Poi però lui pasteggiava a baguette e cibi d’importazione europei. Aveva studiato a Parigi ed era, evidentemente, quello che in Francia chiamerebbero gourmand».

Il cibo, insomma, è potere. Ce ne accorgiamo quando rimaniamo sedotti da una pasta cremosa, un filetto rosso sangue, o anche solo, se fossimo stati cittadini del blocco sovietico durante la Guerra Fredda, dalle banane e dagli snack industriali dell’Occidente globale. Il cibo riflette chi siamo, e il nostro agire politico all’interno della società. La dicotomia tra crudo e cotto di Claude Lévi-Strauss ha segnato l’inizio della civiltà e della cultura. Cuccioli animali e neonati umani dipendono da altri per il loro approvvigionamento alimentare. E, conclude Szabłowski, «a un certo punto della Storia dev’essere comparso qualcuno che ha detto: tu puoi avere questa certa parte di cibo, tu puoi avere quest’altra. Forse non era un dittatore, ma di certo era una persona che stava esercitando un potere puro e primordiale: decidere chi poteva restare in vita, e in che modo, e chi no».

A questo punto dobbiamo forse rivedere l’affermazione di cui sopra: il cibo è certo potere, ma soprattutto è politica, ovvero, da enciclopedia, “il complesso delle attività che si riferiscono alla vita pubblica e agli affari pubblici di una determinata comunità”. Se ci pensiamo bene, c’è, nella cronaca recente, un episodio che ha portato nuovamente alla ribalta il legame tra la cucina e la politica: non era mica un uomo di catering e ristoranti, Yevgeny Prigozhin? E Vladimir Putin il nipote di un cuoco professionista?

Se state pensando che, ci avete preso: il prossimo libro di Szabłowski sarà interamente dedicato alla storia culinaria (dunque politica) della Russia, da Nicola II all’URSS, fino ai giorni nostri. «Osservando approfonditamente i legami tra il cibo e la storia della Russia, questo “battle of the chefs” tra Prigozhin e Putin era prevedibile, financo scontata. Agli inizi della sua carriera, Prigozhin era un criminaluccio da strapazzo, era pure finito in prigione. Poi però, una volta uscito, ha cominciato a fare hot dog in stile americano, chioschetto e tutto. in pochissimo tempo creò un cartello, e le voci dicono che si “prendesse cura” personalmente dei rivali di street food. Da lì aprì un ristorante a San Pietroburgo, esagerato, costruito su una nave. E fu a quei tavoli che conobbe Putin».

Torneremo a sentir parlare presto di queste cucine da incubo con i loro intrighi e intingoli – perché, come ci ricorda Szabłowski, lui non è che ha intervistato “solo” i cuochi di cinque dittatori, è che ha dovuto scegliere chi mettere nel libro e chi lasciare per il futuro (fateci caso: ci sono nomi per ogni continente). Anche se, secondo Abu Alì, «la politica non è affare di cuochi. Nessun presidente chiede al proprio chef il permesso di poter cominciare una guerra». Forse il permesso-permesso, ecco, proprio no. Che la prima bomba sia sganciata a stomaco pieno, però, non ci piove. Perché, come diceva la giornalista gastronomica M.K. Fisher, “prima mangiamo, poi facciamo tutto il resto”. Anche quando l’agenda della giornata prevede “conquistare il mondo”.