Lavorare in cucina è questione di pazienza. Tanta pazienza. È spesso un affare di gusti, di colazioni saltate, di micro-riposini nei giorni liberi e non. Ma è anche occasione di incontro, di gerarchie che cercano un equilibrio, lì dove una ricetta sbagliata o un ingrediente trattato male causano un blackout nel sistema. Ho seguito per una giornata Selem Maalel, Executive Sous Chef presso l’Argentario Golf Resort, in Toscana.
L’ho aspettato in piedi, ora sono le 7:30. Intanto mi aggiro intorno alla sua casa presa in affitto, il frigorifero è mezzo vuoto. Non c’è molto tranne un budino, delle cotolette di pollo prefritte, alcune Kinder Pinguì e una bottiglia di acqua naturale. La batteria di pentole, regalo di nostra madre, non sembra utilizzata. Al suo risveglio, Selem mi chiede un caffè. Non ha fame, corre a farsi una doccia. Le sue giacche da lavoro, messe in fila sullo stendino, sono già pronte. Ogni giorno ne lava una: in cucina – mi dice lui – tutto deve essere pulito. Gli passo un cornetto alla crema comprato nel bar sotto casa, che ignora con fare quasi innocente.
In macchina fuma una sigaretta. Tra lunghi prati e cavalli in lontananza, arriviamo nei luoghi che Selem visita quasi ogni giorno, almeno sei sui canonici sette. Mi chiede di aspettarlo fuori dallo spogliatoio; con la coda dell’occhio lo vedo prendersi un caffè dalla macchinetta. Sono le 8:35 quando mi chiede di seguirlo in cucina. Alcuni suoi colleghi, che saluta con gioia, ci passano accanto. Lontano da casa – mi confida – ogni conoscenza diventa più importante, non puoi fare a meno di legare.
Entriamo, la cucina mi si presenta nella sua maestosità: cappe lucide, alcuni carciofi in ammollo, un forno che cuoce, delle torte pronte per la colazione. In cucina trovo la pasticcera Paola, l’autrice delle crostate alle visciole che intanto riposano su un piano e che volentieri azzannerei. Saluta Selem, lui l’abbraccia fortissimo. Paola, che sembra davvero felice di vederlo, mi sorride: per lui è come un figlio. Mentre mi aggiro in cucina, osservando strumenti mai visti prima, Selem urla dall’altra stanza: deve farmi vedere della roba. Mazzancolle, due rombi, alcuni salmoni e orate più grandi della mia testa.
Alle 9:30 è ora delle prime preparazioni. Squamare, sfilettare, disporre. Seguo il movimento del suo coltello, la precisione con cui stacca la polpa e le interiora delle orate. Mi accorgo di avere alcune lische sulla maglietta, e se ne accorge pure lui. Sbuffa, si allontana e ritorna con un camice da cucina. In cucina uno degli errori più gravi è restarsene con le mani in mano: io l’ho fatto, me ne pento subito, forse troppo tardi. Mi chiede di aiutarlo, mentre in cucina arrivano altri colleghi, tra cui Andrea, impegnato con dei tagliolini freschi. Con in mano delle placche a buchi, gli passo ogni cosa restando in silenzio. Mi accorgo di essere entrato nel mood. Non mi accorgo di una voce che arriva dietro le mie spalle: è l’Executive Chef della cucina, Emiliano. Selem lascia il pesce, si lava velocemente le mani e inizia a discutere con lui di piatti da ideare, di menù da elaborare, di cibi da abbinare.
È mezzogiorno, la vita in cucina sembra scorrere lentissima. Ho spiato la brigata in silenzio, nelle loro pause (pranzo alle 11:30), e forse la parola che più ho sentito pronunciare è stata “Chef!”, in toni più o meno variabili. Questo chef, appunto Emiliano, ora mi mostra le mazzancolle, spiegandomi la differenza con i gamberi. Gli dico che per me sono la stessa cosa, mio fratello sorride, mi sento come Andrea davanti alla questione del ceruleo ne Il diavolo veste Prada. Gli ordini arrivano, sono le 13 passate, continuo a osservare da un angolo i movimenti rapidi di Selem. È concentrato, sembra dimenticarsi di me.
Lo seguo mentre controlla la temperatura del forno: alcuni ingredienti che non riesco a identificare cuociono lenti, a bassa temperatura. Così – mi dice – i sapori si intensificano. Mi accorgo in ritardo che mio fratello, fumatore convinto, non ha ancora acceso una sigaretta. Intanto Emiliano è al computer, consulta alcuni ingredienti e abbozza un’idea di impiattamento. Muove le mani con precisione, punto per punto, come un pittore. Alle 15 Selem esce dalla cucina, si siede finalmente a fumare la sua sigaretta. Beve un altro caffè. Mi chiede se sono stanco, lo guardo di traverso. Si alza, va a cambiarsi per tornare a casa.
In macchina mangia un gelato acquistato in un bar. Dopo un’ora, Selem russa leggero in camera sua. Mi ha chiesto di svegliarlo alle 17, per riprendere il suo turno, ma è sereno: domani ha mezza giornata libera. Altre giacche girano in lavatrice. Quando si risveglia, Selem è assorto nel numero dei coperti serali. È come se non riuscisse a staccare la mente dal suo lavoro. Gli chiedo se ha fame; il cornetto alla crema è ancora lì.
La vita in cucina riprende normale, questa volta cerco di starmene ben lontano dal mettere le mani in tasca. Selem mi ordina di seguirlo, servono degli ingredienti. Saliamo su un kart, come quelli che usano i golfisti che vedo giocare in campo. Mentre percorriamo una strada asfaltata circondata da ulivi, gli chiedo se non è stanco della solita routine. Riesce solo a dirmi che vorrebbe trascorrere più tempo con nostra madre, assaporare i rapporti amicali, magari trovare l’amore della sua vita. Nel silenzio che ci insegue dopo, capisco che il non detto vale più di mille parole, o mille ricette.
Arriviamo in un campo vasto e ben assortito: è qui che coltivano le materie prime, come carciofi, limoni, melanzane ed erbe aromatiche. Producono il loro proprio olio, e anche il pane, che mi ostino a riempire di sale. Tempo di lavarsi le mani e Salem è di nuovo alle prese con del carré di vitello: la massaggia, la recide, la marina. Emiliano mi chiama, ho paura possa commissionarmi qualcosa, come tagliare la carne o preparare un tagliolino con l’astice. Mi mostra alcune nuove idee, gli chiedo come si decide un menu. Un menu – dice lui – non si decide, dipende anche dalle aspettative dei commensali. Se qualcuno dovesse chiedere uno spago al pomodoro, allora bisognerà preparalo con amore e delicatezza. Cerca di farmi capire che in cucina, indipendentemente dal lusso che la circonda, bisogna accontentare sempre e solo il cliente.
Penso che in effetti l’idea sia giusta, e che molte cucine tendano a snobbare il gusto dell’altro per assecondare i propri valori. Ma è anche vero che ogni cucina è unica per i suoi motivi. Nella pappa al pomodoro con mazzancolle che assaggio in cucina capisco qual è la sua, anzi la loro, idea di cucina. Intanto, dietro di me, sento Selem invogliare la brigata con le preparazioni: poche volte l’ho visto così fermo. Imito la sua voce, lui sorride ma poi riprende con un impiattamento impegnativo. Non avete idea di quanto tempo si possa perdere dietro il giusto design di un piatto. In due osservano il piatto appena preparato, e per un attimo ripenso ai programmi di cucina che spesso vedo in tv. La competizione, in una brigata di cucina, è un concetto astratto, un qualcosa a cui non hai neanche il tempo di pensare per via dei ritmi frenetici.
Sono le 22, mi accorgo di aver dimenticato di prendere appunti: a che ora ha cenato mio fratello? Capisco che quella cucina ha ingoiato anche me. Di ritorno a casa, Selem mette della musica, canta allegro, sembra felice. Un giorno verrò a trovarti a Palermo, mi dice, ma non gli credo, non con convinzione. Guarda una mezza puntata di una serie Netflix, poi si addormenta. Raccolgo le cose che ha lasciato sulla sedia, ragiono sul concetto di passione. Esiste un limite alle nostre passioni? Se quella passione diventa un lavoro, allora i limiti vanno appurati nel lavoro? Io questo non lo capisco, forse non quando si tratta di cucina. C’è una cosa però che so: ed è che Selem, nella sua routine, ha terminato le cialde del caffè.