Joe Bastianich, la mensa è finita | Rolling Stone Italia
Cover Story

Joe Bastianich
La mensa è finita

Imprenditore, personaggio televisivo vincitore dell’ultima edizione di ‘Pechino Express’, cantante: Joe Bastianich, l’uomo che più di tutti è uno, nessuno e centomila, torna a indossare i panni che meglio gli stanno. Quelli del ristoratore visionario a cavallo tra due mondi, capace di leggere presente e futuro come nessuno mai

Foto: Roberto Graziano Moro

Si presenta vestito come un cowboy del Montana, con i camperos, i jeans sdruciti, il chiodo in pelle effetto craquelé e il classico cappello da buttero in pieno stile John Dutton. Vederlo arrivare così, in una chiesa sconsacrata al Corvetto, è un colpo d’occhio che fa simpatia, sì, ma anche intimorisce: Joe Bastianich non è certo uno che ha paura di essere sé stesso e di dire ciò che pensa senza filtri, con quell’attitudine un po’ spiccia e un po’ sorniona che è diventata il suo marchio di fabbrica. Chiacchierarci nella sagrestia della suddetta chiesa non fa che confermare le impressioni iniziali: non ama infiocchettare la realtà, è drammaticamente onesto, sa che non deve dimostrare più nulla a nessuno e tende a stare sulle sue, salvo poi abbassare il muro col proprio interlocutore quando si rende conto d’essere sulla medesima lunghezza d’onda.

Classe 1968, statunitense d’origine italiana, di lui è stato ormai detto e scritto qualsiasi dettaglio, professionale o personale che sia. Ecco perché, forse, l’unico modo per raccontare Bastianich consiste nel restituirgli il ruolo che gli è più congeniale: l’imprenditore talentuoso e visionario che grazie al suo perenne andirivieni tra Italia e Stati Uniti riesce a prendere il meglio dell’uno e dell’altro Paese e a farne una crasi che gli permette di leggere il presente e il futuro della ristorazione con uno sguardo preciso, pragmatico e disincantato. Partendo proprio dalle basi, ossia dal concepirla «come un’azienda e non come un hobby. Il ristorante è un’impresa in cui vengono investiti dei soldi, in cui si lavora, e occorre avere un margine per poter guadagnare. Se non fai questo, il tuo ristorante si riduce appunto a un passatempo: allora tanto vale stare a casa e invitare gli amici a cena».

Eccolo, il primo pilastro del Bastianich-pensiero, quella concretezza e quel senso pratico tipicamente americani che a noi, in Italia, spesso suonano brutali e quasi blasfemi: «Fare ristorazione a qualsiasi livello non è magia, non è totalmente neanche passione o cultura: tu compri un prodotto, lo trasformi e lo rivendi per un margine. Se un ristoratore non segue questa logica non avrà mai successo: la restaurant math, la matematica fondamentale della ristorazione, la devi capire benissimo. I numeri devono quadrare: ottenere un profitto non è una cosa di cui vergognarsi perché il margine su un piatto non finisce nelle tasche dei soci o del proprietario, ma viene usato per investire nell’esperienza, nei clienti, nel locale, nel personale, per espandersi. Il margine è il sangue che corre nelle vene della ristorazione, e quando i clienti criticano chi vuole ottenerlo, criticano l’essenza del ristorante stesso. Il mercato è efficiente, mangia e sputa fuori subito gli improvvisati che ignorano le basi matematiche ed economiche sulle quali si costruisce un’impresa ristorativa».

Foto: Roberto Graziano Moro

Matematica a parte, cosa serve oggi per costruire un’azienda di successo che opera nel food? «La benzina della ristorazione sono i consumatori, quindi è fondamentale intercettare le tendenze dei potenziali clienti e incrociarle con le proprie ambizioni imprenditoriali. È impossibile anticipare il futuro, però se sei un bravo imprenditore riesci ad avere una visione e a ricrearla, intuendo le richieste del consumatore. Si tratta di un talento: chi vede il futuro ha fortuna in tutto ciò che è destinato a fare nella vita, ma è anche vero che farlo è tecnicamente impossibile. Significa capire le tendenze che esisteranno nel settore tra due, tre, quattro, cinque anni: è necessario viaggiare molto nei luoghi dove nascono, ossia nel Sudest asiatico e nel Nord Europa, non tanto negli Stati Uniti. In America abbiamo la fortuna di avere un consumatore parecchio forte e ricettivo che ci dà la possibilità di creare il business model attorno a un trend ancora scoperto, ma in esplosione in altre parti del mondo».

E per guardare avanti, Bastianich è ben consapevole che ora i riflettori sono puntati su coloro che stanno dettando le sorti di qualsiasi brand in qualsiasi settore, ristorazione inclusa: «I veri protagonisti sono i giovani dai diciotto ai trent’anni, perché hanno la capacità economica e sono più aperti a creare un nuovo movimento e un nuovo approccio ai consumi. Sono disposti a cambiare abitudini, che alla fine rimane il grande obiettivo della ristorazione: mutare il comportamento delle persone. L’Italia dopo il Covid s’è aperta in tal senso, e sta rispondendo all’esigenza dei giovani di avere esperienze più internazionali: l’italiano si è trasformato da un finto consumatore di cucina etnica a un vero estimatore. Lo vedo dalla diffusione di locali che offrono street-food asiatico, di ristoranti gestiti da quelle che sono le seconde generazioni di immigrati che tengono fede alla promessa di autenticità, rifiutandosi di “italianizzare” la loro cucina. Il consumatore italiano prima era alla ricerca di un “concetto”, ora invece pretende onestà e verità».

Foto: Roberto Graziano Moro

E ciò, in un Paese in cui «per motivi di storia e tradizione la ristorazione ha un retaggio familiare, mentre negli Stati Uniti è un’impresa vera e propria», implica per forza di cose un’evoluzione a livello di sistema. «Il momento del classico ristorante – stellato o non stellato – ingessato, impostato, con un’imponente carta dei vini e tante portate si sta esaurendo. I giovani non vogliono sedersi a tavola e rimanerci per ore: il consumo si sta trasformando, e il ristorante “classico” per me sta morendo. Non significa che la ristorazione sia morta, ma che va reinventata. Il successo delle concept food hall, che noi abbiamo lanciato quindici anni fa con Eataly negli Stati Uniti, ne è una conferma: sono luoghi dove i nuovi consumatori possono avere quello che vogliono, quando vogliono, nella modalità che gli è più congeniale. I pilastri sono la diversificazione dell’offerta di cibo e parallelamente un’offerta di qualità – che il ristorante ottiene basandosi su un modello QSR (Quick Service Restaurant, che mira a servire cibo ai clienti in tempi brevi capitalizzando sull’efficienza, nda) – ottimizzando così il prezzo. Una ristorazione dove ci si siede e chi vuole ordina tacos, chi vuole opta per un cinese, qualcuno ordina un cocktail e qualcun altro un calice di vino: i gusti sono tutti accontentati, non c’è il cameriere e sei tu ad andare a prendere il cibo e a mangiarlo come e con chi desideri».

C’agganciamo al vecchio adagio che risuona da almeno un paio d’anni in ogni locale che ha riaperto i battenti post-Covid, ossia la mancanza di personale: non è un problema soltanto italiano, sostiene Bastianich, bensì globale. Perché spezzarti la schiena in un ristorante, quando puoi fare gli stessi soldi lavorando a casa dal tuo computer o come autista per Uber? «Quello che sta accadendo obbliga noi ristoratori a reinventare una professione, trovando diversi sistemi per portare cibo ed esperienze di qualità alle persone potendo contare purtroppo su meno dipendenti: la sfida sta nell’inventare nuove modalità di fare ristorazione con meno personale».

Foto: Roberto Graziano Moro

Il che non significa affatto azzerare il servizio, bensì reinterpretarlo, calandolo nella nuova realtà che ci si trova davanti: meno dipendenti, una svolta nei sistemi classici di gestione, una diversa interazione con il cliente. «Le regole della ristorazione si stanno evolvendo e da lì non si torna più indietro: remare contro non ha senso, occorre adattare il proprio mindset e la propria gestione aziendale di conseguenza». Esempi virtuosi? «KazuNori, un sushi bar a New York in cui non si può prenotare e non esiste un menu: ti siedi, ci sono i sushi-cones del giorno fatti a mano, li prendi al bancone, mangi, paghi e vai via. Un locale che ha totalmente eliminato il servizio: la qualità è quella di uno stellato, ma al cliente costa un terzo perché è stata rimossa un’importantissima voce di costo. Poi l’Antico Vinaio, un concept che nasce a Firenze e che stiamo sviluppando negli Stati Uniti: il massimo della qualità in una situazione simpatica e conviviale, a un prezzo accessibile. Non ci sono camerieri e non parliamo di un ristorante, certo, ma di un locale in cui mangi un ottimo panino, in cui interagisci con chi te lo prepara e che interpreta perfettamente un fenomeno italiano che sta avendo parecchio successo in America».

E se finora l’Italia può quasi sembrare sconfitta nel confronto con l’imprenditoria statunitense, resta comunque ferma la nostra indiscutibile peculiarità: «Una cultura sul prodotto, nonché una qualità e una varietà di ingredienti agroalimentari unica al mondo. Forse l’unico difetto sta nel cliente – che comunque, come già dicevo prima, si sta evolvendo – nel senso che è poco aperto ad accettare la novità. È cresciuto a mangiare bene in famiglia, e il pensiero che sottostà a qualsiasi conversazione sul cibo è “pago questo piatto al ristorante, ma a casa mia lo mangio meglio”. Per me è un confronto difficile da accettare, perché l’esperienza di uscire fuori, di mangiare diversi cibi al ristorante non regge con il cucinarseli a casa».

Foto: Roberto Graziano Moro. Styling: Francesca Piovano. Cardigan: Alanui

Una considerazione, la sua, molto vicina a quella di Gherardo Guarducci, fondatore e presidente esecutivo di SA Hospitality Group, il primo a sostenere che «il miglior pasto della settimana l’italiano lo mangia a casa, poi va al ristorante». Un altro imprenditore italiano che, guarda caso, vive oltreoceano, e forse grazie alla distanza ha la capacità di leggerci con maggiore lucidità e perspicacia. «Ha ragione», concorda Bastianich, «il cliente italiano non va al Sant Ambroeus per mangiare gli spaghetti migliori di quelli che gli fa la nonna: ci va per essere con la gente giusta, in un determinato ambiente, per essere percepito come facente parte di un côté che considera figo. E il lavoro che è stato fatto per costruire questo feeling, questa vibe, questo mood di “essere nel posto giusto” è davvero encomiabile».

Quindi, nonostante tutti i discorsi su prodotti, sostenibilità, qualità, materia prima eccetera eccetera, la consapevolezza di sedersi in un posto considerato cool è ancora oggi una carta che, se giocata bene, può risultare vincente? «Dipende: a New York il massimo per un ristorante consiste nel rifiutare tremila persone al giorno. Se hai la percezione che si tratti di un posto in cui non riesci ad accedere, ci vorrai andare sempre di più. L’italiano invece chiama una, due, tre volte, s’incazza e manda tutti affanculo. Sono due culture diverse che però s’incontrano in una moda recente cavalcata da nomi come Soho House e Casa Cipriani, ossia situazioni e ristoranti riservate ai membri: vuoi stare in un posto dove trovi persone che sono – e che tu stesso consideri – al tuo livello».

Bizzarro che le insegne citate finora siano completamente agli antipodi: o concept veloci, conviviali, inclusivi, che hanno azzerato ogni orpello incluso il servizio; oppure un lusso estremo – forse meglio definirlo quiet luxury – in cui vige la regola non detta del “you can’t sit with us“. «Personalmente, nascendo nel mondo della ristorazione “del popolo”, sono più “socialista” nella mia visione del consumo: credo che il ristorante, essendo un luogo pubblico, debba accogliere chiunque possa andarci. Per me più vasta è la richiesta e meglio è, ma si tratta di una posizione agli antipodi rispetto a chi pratica un tipo di ristorazione “esclusiva” in netta antitesi con un concetto democratico. Che ora, però, nel contesto talmente polarizzato in cui viviamo sta avendo parecchio successo. Purtroppo è una tendenza a livello mondiale: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, la borghesia si sta azzerando e la fascia alta di questi due opposti non si vuole mischiare con gli altri».

Foto: Roberto Graziano Moro. Styling: Francesca Piovano. Cardigan: Alanui

Cita la Grande Mela, sebbene gli esempi abbondino: «Adesso a New York un bicchiere di vino costa in media venti dollari, un cocktail venticinque, un primo quaranta, un tiramisù diciotto, due biglietti per un concerto trecento e l’affitto cinquemila dollari al mese per un monolocale di cinquanta metri quadrati: fai due calcoli, quanto devi guadagnare per vivere? A Londra è lo stesso, e anche Milano si sta avviando in quella direzione». La spaccatura, insomma, è insanabile: da una parte i ricchi, dall’altra i poveri, la fascia media azzerata: «È così nella ristorazione, nel vino, nell’automotive, nella moda, in qualsiasi settore. La pandemia sicuramente ha accelerato il processo, ma la vera divisione arriva da una politica – americana prima, italiana poi – che ha estremizzato la società. È una realtà dei fatti piuttosto amara, che getta un’ombra sul futuro».

La bisbiglia quasi, questa presa di coscienza che ti butta lì con la sua proverbiale, drammatica onestà, e tu vorresti chiedergli se c’è una soluzione o una ricetta per ricomporre la frattura che sta avvenendo sotto ai nostri occhi. Alla fine però preferisci morderti la lingua e accettare il mistero: passare per una persona priva di talento visionario, d’altronde, sarebbe una “dilusione” troppo grande.

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Foto: Roberto Graziano Moro
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Direzione artistica: Mattia Tomasi
Fashion editor: Francesca Piovano
Grooming: Maddalena Brando per Making Beauty
Backstage video operator: Federico Terradico

Pechino Express è uno show Sky Original prodotto da Banijay Italia

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