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Cos’è questa storia dell’AI in cucina, e perché puzza sempre di più

In un momento di smarrimento collettivo, abbiamo pensato che l'Intelligenza Artificiale avrebbe davvero inaugurato una nuova era della ristorazione. Ora che la luna di miele è passata, possiamo dirlo: i prompt, per godere a tavola, sono tutto fumo e niente arrosto

Credits: Tomohiro Ohsumi via Getty

Ristoranti senza ombra di personale, robot che girano hamburger, ordinazioni effettuate attraverso il riconoscimento facciale (succede in California da CaliExpress, ma anche con l’italiano Chiama.ai). Oppure suggerimenti per creare ricette innovative al passo con i trend, come il Cyber Burger di Pane & Trita – l’hamburger del futuro con farina blu di carbone –, o per dare nuovi spunti agli chef stellati e ai cuochi “della domenica” per ricette personalizzate, più sostenibili o prive di allergeni.

Questo è solo un assaggio di come l’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il mondo della ristorazione. Sembra tutto rosa e fiori, ma alt. Senza vista, tatto, gusto e olfatto (e spesso buon senso) queste tecnologie sono davvero in grado di realizzare ricette buone, ma soprattutto edibili, senza farci rimetter le penne (no, non il formato di pasta)?

La puzza di bruciato, ahinoi, arriva presto. Ma partiamo dall’entità preposta all’esecuzione: IA (Intelligenza Artificiale) o AI (Artificial Intelligence), chiamatela come preferite, la sostanza non cambia. Parliamo di sistemi intelligenti a base algoritmica, capaci di emulare i comportamenti umani. Dopo ChatGPT, Dall-E e compagni, e il loro takeover intellettuale prima ancora che pratico negli ambienti della cultura “alta”, il 2024 potrebbe essere l’anno di svolta anche per i ristoranti, che, si prevede, integreranno nel loro business sempre più supporti tecnologici (a oggi, l’84% dei ristoratori dichiara di servirsi di supporti dati dalla tecnologia per il servizio di sala). E, secondo dati dell’Osservatorio Ristorazione, durante il corso dell’anno il 70% dei ristoratori implementerà un uso più massiccio dell’IA su varie operazioni all’interno del proprio locale.

Credits: Solen Feyissa via Unsplash

La rivoluzione sembra a portata di prompt, ovvero di comando, impartito all’IA in forma di conversazione. Esempio? “Ehi, scrivimi una ricetta per usare gli avanzi di formaggio e carciofi che ho in frigo. Dev’essere buona e salutare, ma soprattutto semplice”. Il risultato, generato in maniera predittiva a seconda di quanto l’algoritmo avrà imparato del comportamento umano, potrebbe portare a risultati come quello di Gaia, l’assistente virtuale – creata con ChatGPT – di Pane&Trita (catena fast food lombarda che ha fato parlare di sé per aver lanciato il primo hamburger fatto di farina di grilli), a cui è stato chiesto di immaginare la ricetta dell’hamburger del futuro. La risposta è stata: Cyber Burger, il primo in Europa generato dall’IA. Inizialmente proposto con carne sintetica, essendo quest’ultima illegale in Italia è stato riformulato a base vegetale. Il main selling point? Oltre il glamour, due fette di pane “spaziali” con farina di carbone.

Gli esempi di sperimentazione giungono anche dall’alta ristorazione: per esempio a Bilbao, dove, al ristorante Azurmendi, lo chef tristellato Eneko Atxa e il fisico basco Eneko Axpe si sono divertiti a testare le capacità creative di ChatGPT, chiedendogli di creare una ricetta da zero. Lo scopo, testare il ruolo dello chef come esecutore e non creatore, e vedere fino a che punto la tecnologia fosse in grado di sostituire le abilità di uno cuoco professionista.

Inizialmente, i due hanno chiesto all’IA di inventare il nome di un piatto raffinato. La risposta è stata: spuma di cavolfiore e mela con caviale di balsamico. Poi si è domandato di sviluppare una foto realistica di quel piatto e di scrivere la ricetta con l’elenco degli ingredienti e i passaggi da seguire. Da qui Axpe ha lasciato spazio allo chef per trasformare il virtuale in reale eseguendo gli step passo-passo. Il risultato? Spoiler: un flop.

Il piatto non corrispondeva all’immagine proposta dall’IA, i sapori non erano gustosi e il tutto mancava di armonia sia nel gusto che nell’estetica. Prima di arrivare a un risultato soddisfacente, lo chef si è reso conto che era necessario riformulare e interagire con il sistema. Sperimentare con le consistenze e sostituire gli ingredienti, insomma, proprio come quando si crea un piatto da zero. Atxa ha paragonato l’IA a un microonde, inizialmente spiazzante, ma un bravo soldatino quando si tratta di supportare il lavoro in cucina. Conclusioni? L’IA è solo uno strumento di supporto, utile per essere più efficienti e per superare i blocchi creativi.

Diverso il caso di Rafi, ristorante di Sydney che per una settimana si è trasformato nel Luminary, primo ristorante ideato da capo a piedi dall’IA in termini di concept, design e offerta food, con un menu ispirato ai quattro elementi terrestri. Per il tema “acqua” ha ideato piatti come Capasanta cristallina con ponzu, alghe marine, foglie di cappero e uva di mare; per il “fuoco” diversi tipi di carne cotte alla brace, servita su foglie di alloro bruciate, erbe e corteccia affumicata; per “aria” ha messo alla prova gli chef generando ricette con tecniche complesse con la realizzazione di varie spume; per la “terra”, Cipolla arrostita con pinoli, lavosh e Pyenganna Cheddar. Il tutto è stato rifinito, e ovviamente cucinato, dell’Executive Chef del Rafi, Mattias Cilloniz.

Ma allora, qual è il vero limite di utilità, se c’è, dell’Intelligenza Artificiale applicata al cibo e alla cucina? Come nel caso di Axta, le lamentele per ricette sbagliate o immangiabili si sprecano. È l’esempio di chi ha provato a realizzare un cocktail analcolico a base di fragole, e l’IA l’ha proposto a base di vodka; oppure consigliando ricette a base di carne con tempi di cottura errati, producendo piatti immangiabili a base di carne di cruda o stracotta. Negli USA, una donna è stata ricoverata dopo aver seguito una ricetta fornita da ChatGPT che includeva la cottura del maiale. Il tempo di cottura fornito dall’IA era decisamente troppo indietro e quindi la donna, ignara dell’errore, si è ritrovata con un’infezione batterica subito dopo averla mangiata.

Caso emblematico è stato quello di Pak ‘N Save, catena di supermercati neozelandese che ha fatto ricorso all’IA per creare ricette antispreco utilizzando ingredienti locali. Un’idea apparentemente geniale, con un focus sociale e sostenibile. Il risultato è stato a dir poco horror: gli algoritmi hanno suggerito panini farciti con veleno per formiche, patate alle zanzare, e in abbinamento un bel cocktail fatale a base di candeggina e cloro. Okay.

Non finisce qui, perché, per un piano settimanale di pasti che gli era stato chiesto di sviluppare, ha poi proposto abbinamenti come “Oreo vegetable stir-fry” ovvero un piatto a base di verdure saltate in padella, presumibilmente ispirato al sapore e alla consistenza degli Oreo, i famosi biscotti al cioccolato e crema. Il fattore-pericolo (o disgusto) insomma, al contrario del celebre caso del “trucco della nonna” per farsi dare la “ricetta” del napalm, non era contemplato dalla macchina.

La verità, come sottolinea la vicenda neozelandese, è che molti programmi utilizzati sono ancora in fase di sperimentazione, e la loro velocità di apprendimento è talmente veloce che è difficile anche per i programmatori starci dietro. Inoltre, come gli umani, anche le macchine sbagliano. Il risultato di questi errori può essere ricondotto alle così dette allucinazioni, ovvero quando la macchina parte per la tangente e fornisce un risultato insensato, del tutto errato per la richiesta o prodotto a partire da dati errati. Quindi: Sicurezza, voto 1. E il gusto, invece?

Gli ingredienti della grande ristorazione non cambiano mai: anima, passione, dedizione. Assaporare un piatto a casa o al ristorante dev’essere un’esperienza rigenerativa, e infatti, tornando indietro nel tempo, scopriremo che il termine stesso ristorante deriva dal francese restareur, rinnovare, ricostituire. Il compito dei ristoratori, in quest’ottica filologica, è far stare bene le persone, tanto nel corpo che nello spirito. Non sembra che l’IA abbia le idee molto chiare in merito.

Allo stesso tempo, porsi come meri esecutori di una ricetta creata da un programma impersonale disumanizza ciò che è umano per eccellenza: la cucina. A evidenziarlo ulteriormente è stato l’esperimento condotto dalla food reporter Priya Krishnadel del New York Times. Ha chiesto a ChatGPT di ripensare il menu tradizionale di Thanksgiving, dandogli un twist personale in base alle tradizioni e ai gusti della reporter, di origine indiana. Come consigliato da un programmatore di OpenAI, più dettagli si danno legati alla propria storia, infanzia e gusti, più la riposta sarà precisa e adeguata. È andata veramente così?

Con un prompt dettagliato, la reporter ha spiegato le sue preferenze per piatti più piccanti e dessert non troppo dolci. L’IA ha risposto proponendo sei ricette, tra cui un chaat piccante alla zucca, un pollo arrosto con glassa di soia e zenzero, e un dolce non troppo dolce, ovvero una torta alla zucca con arancia e formaggio spalmabile. Sulla carta le proposte non erano male, e l’IA non sembrava mancare di inventiva creativa.

Seguiti gli step e gli ingredienti passo per passo, il verdetto è arrivato al momento dell’assaggio, quando si sono riuniti i diversi critici gastronomici del NY Times. I commenti? «Non provo nulla mangiando questo cibo», ha affermato Yewande Komolafe. Genevieve Ko ha riassunto ancora meglio: «Non c’è anima dietro questo piatto». Insomma, ancora una volta, sebbene in questo caso le ricette non fossero mortali, alcune erano al limite del mangiabile o comunque mancavano di gusto, di quel quid in più che solo le persone sanno trasmettere mentre cucinano.

Prima di concludere, e andare a preparare un semplicissimo piatto di assolutamente non creativi spaghetti aglio, olio e peperoncino (e giusto perché ci piace sbeffeggiare l’IA), riportiamo un altro caso divertente, che sottolinea l’importanza del tocco umano in cucina: la sfida tra la chef Kira Ghidoni, tra le figure di spicco del Made in Ticino, e ChatGPT. Un giudice gastronomico, un’ora di tempo e dieci ingredienti per creare una ricetta. A fare da “mani” alla macchina c’era un altro chef, che si è limitato a eseguire le indicazioni.

A sorpresa del giudice, il piatto a base di lucioperca, cavolfiore, chanterelle e salsa di castagne firmato ChatGPT non è stato un totale disastro, anzi, consistenze e cotture erano giuste. Sul gusto, però, non ci son stati dubbi: il piatto di Ghidoni era molto più bilanciato nei sapori e più armonioso nell’insieme, dunque più buono. L’anima, insomma, qualsiasi cosa essa sia (di sicuro non sale Maldon, perlomeno) è l’ingrediente invisibile che fa la magia del piatto. Come ha ricordato Ghidoni: «l’amore che si mette mentre si cucina, nella macchina non passa».

E con questo, la smettiamo di infierire, forti della nostra vittoria: la tecnologia sarà anche nostra alleata per rendere l’esperienza al ristorante ancora più speciale, sia per chi sta seduto al tavolo sia per chi lo serve. Alla fine, però, il ristorante è un luogo di esperienze, non solo di consumo di alimenti. E queste sono e saranno sempre definite dalle persone.

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