Comunque non tutti fanno foraging, e meno male | Rolling Stone Italia
SPUNTANO COME FUNGHI

Comunque non tutti fanno foraging, e meno male

Abbiamo parlato con tre produttori di funghi eccellenti, che tra cordyceps e fattorie urbane tramandano la lezione più preziosa del fungo: il suo messaggio di rigenerazione.

Comunque non tutti fanno foraging, e meno male

Credits: Funghi Espresso

Il filosofo Maurice Merleau-Ponty parlava della “carne” del mondo per indicarne la consistenza, e come instauriamo relazioni con essa attraverso i nostri sensi, comprendendola. Eppure quando l’autunno bussa alle porte e le prime piogge fresche (forse) si avvicinano, l’unica carne a cui si può pensare non è la selvaggina della prossima sagra di paese, ma le fibre succose che compongono il fungo (nel cappello e nel gambo, lo ricordiamo). L’amico veg, d’altronde, già lo sa: le bistecche di Portobello gli hanno cambiato la vita, recuperando la vecchia sapienza dei nonni che, in tempi in cui si stringeva la cinghia, sapevano che i funghi potevano sopperire a un vitello grasso.

Ricordi di magra, su cui noi partiamo con un vantaggio sostanziale: oltre ai discorsi sul vitello, non abbiamo bisogno di procacciarci per forza i funghi nel selvatico (o “fare foraging”, come dicono). Il merito è di chi si è fatto ossessionare persino più di noi, trasformando in carriera la coltivazione dei miceti. E, soprattutto, che la pratica nel rispetto della natura e delle sue risorse, così da evitare la situazione da barzelletta verso cui remiamo indefessi: troppi vitelli grassi, ma di carne dei poveri nemmeno la traccia. Uno di loro è Pietro Trevisan, ventottenne piacentino che, dopo una laurea in Supply Chain Management in North Carolina, uno stage in Tesla, un lavoro nella logistica di HP a Praga e un flirt con il mondo tech a Dublino, ha deciso che era ora di tornare da dov’era partito. Non da una fungaia, ma dall’osservazione delle campagne della sua terra.

«Sono cresciuto in una famiglia di agricoltori ed erboristi, e anche io da piccolo mi divertivo a coltivare la terra con mio zio. A un certo punto mi sono reso conto che l’agricoltura intensiva stava distruggendo le terre che avevo imparato ad amare e conoscere, gli odori di camomilla e tarassaco con cui sono cresciuto. Il suolo viene depauperato, si secca e perde la sua vita intrinseca, la sua fertilità». Così, due anni fa, torna a interessarsi attivamente di coltivazione. Come tutte le imprese comincia in cameretta, sperimentando nei funghi (quelli giusti) con gli amici. Il kick-off arriva pochi mesi fa, marzo 2023, quando affittano un seminterrato a Milano, tra Isola e Maggiolina. Nasce Buoono, la prima circular farm urbana sotto la Madonnina, regno ipogeo e meraviglioso di funghi e germogli.

«I principi che seguiamo sono quelli del vertical farming, in quanto permette di efficientare al meglio le risorse impiegate. Per la stessa ragione ci siamo orientati su funghi e germogli, almeno per ora, oltre al fatto che hanno ottime proprietà nutritive. Coltiviamo soprattutto funghi della tradizione asiatica, shiitake, Lion’s Mane, Orecchioni blu, striati e bellissimi. La circolarità inizia fin dalla coltivazione, infatti utilizziamo scarti della torrefazione Ernani di Porta Venezia, oppure un mix di paglia e trebbie di birra per gli shiitake». Tutto questo con l’aiuto della micologa Giulia Cacopardo, fondatrice di Terracquea, progetto educational e di consulenza interamente dedicato a funghi e gardening.

Ma l’approccio sostenibile di Buoono continua, infatti tutte le consegne avvengono in bicicletta – o meglio, fin dove una bicicletta può spingersi, carica di funghi. «Stiamo pensando di aprire un secondo laboratorio nella zona Sud, così da coprire una parte più grande di città. Abbiamo anche pensato di cominciare a vendere al pubblico, magari in qualche mercato dei quartieri. Per ora però molti ristoratori hanno risposto positivamente alla nostra offerta, e infatti sono i nostri principali acquirenti». Qualche esempio? I plant-based La Colubrina in Porta Venezia e Al Tatto.

Anche a Firenze, però, le acque si muovono. A Scandicci e in idroponica, per la precisione. La mano dietro le quinte è quella dell’agronomo Antonio Di Gregorio, e anche qui, in arte quasi divinatoria, c’entrano i fondi di caffè. Di Gregorio dice che «l’idea è partita da un’evidenza: nel rifiuto misto ci sono molte capsule di caffè, quindi molto fondo esausto». Da un progetto coordinato insieme al professor Rossano Ercolini (Presidente del Centro di Ricerca Rifiuti Zero del comune di Capannori) per studiare le potenzialità del fondo di caffè in agricoltura nasce Circular Farm, la fattoria urbana circolare, fattoria senza terra che ha come obiettivo produrre cibo sano e di qualità rigenerando le risorse e limitando al massimo la produzione dei rifiuti. E le star sono, ça va sans dire, i funghi.

«Siamo specializzati in Orecchioni, sia nella variante classica che rosa e gialla, e poi in funghi a uso medicinale come lo shiitake e il Lion’s Mane. Questi ultimi di solito li essicchiamo e li maciniamo in polveri. Tutti sono coltivati in sistemi innovativi, verticali, all’interno di container marittimi coibentati». È dai funghi che prende avvio il cerchio di Circular Farm (i cerchi hanno un inizio? Per amore di facilità, diciamo di sì), fondato sul principio della biomimesi, ovvero del saper copiare per bene i processi della natura e minimizzare lo scarto della produzione. «Anche senza citare Lavoisier e la sua legge di conservazione della massa, sì, in natura non esistono scarti: nulla si distrugge, tutto si trasforma. Essere circolari per noi vuol dire muoverci allo stesso ritmo della natura, coltivando prodotti di qualità, riutilizzando gli scarti di ogni fase del processo di produzione. Il substrato esausto della coltivazione di funghi viene trasformato in lombri-compost attraverso il processo di vermi-compostaggio, da cui ricaviamo terriccio reso fertile dai lombrichi». Un humus ricco, usato nelle coltivazioni di un orto sinergico. In seguito, i lombrichi si rendono cibo per i pesci e per le galline ovaiole della fattoria, e, a loro volta, l’acqua dei pesci è usata per mantenere e nutrire coltivazioni di ortaggi in idroponica. È quello che qualcuno chiama “effetto cascata”.

«Per noi naturalmente è fondamentale promuovere un approccio consapevole alla natura e all’alimentazione. Poi però c’è anche il tema che, essendo in sostanza una fattoria urbana, riusciamo anche a far avvicinare le persone all’ambiente, a incuriosirsi e conoscere qualcosa di nuovo. E in questo senso, quello del conoscere, il fungo ha tanto da insegnarci: la sua funzione in natura è quella di rigenerare. A livello pratico come filosofico, ha molto da darci».

A completare l’offerta di Circular Farm, impegnata anche in attività formative per scuola e ragazzi, il kit Funghi Espresso, con cui coltivare il proprio pranzo direttamente in casa. Ma ci vuole un pollice verde smeraldo? «Affatto. L’abbiamo studiato per i bambini e a maggior ragione per gli adulti negati nel giardinaggio. Basta innaffiare, e il gioco è fatto».

Attorno al concetto di rigenerazione nasce anche Iside, azienda agricola che produce ortaggi, frutta, funghi eduli, erbe aromatiche e olio extra-vergine di oliva all’interno di un sistema agro-silvo-pastorale complesso. Un ecosistema in miniatura in cui tutto si tiene e impianti e produzioni si intrecciano. Iside è nata sette anni fa, e fin da subito l’indirizzo è stato chiaro: sarebbe cresciuta sia nello spazio che economicamente per via non di più dipendenti, ma collaboratori che sarebbero entrati in supervisione di nuovi progetti, innestando così un nuovo ecosistema dentro i confini di quello naturale.

Iside si trova sulle sponde del Lago d’Iseo, a Sulzano, ed è la casa di Paola Archetti e Matteo Mazzola. «Ci stiamo organizzando per diventare una cooperativa», ci dice Mazzola. «I funghi? Io li coltivavo già nel 2008, poi tra aziende e lavori vari li avevo un po’ persi di vista. In Iside li abbiamo da un anno e mezzo, coltiviamo Orecchioni, shiitake, King Stropharia (Stropharia rugoso annulata) della famiglia delle Strofaria e Cordyceps militaris». Non si parla della bestia multiforme di The Last Of Us, però. Quello si chiama Ophiocordyceps unilateralis. Mazzola giura di non aver visto la serie. La recupera subito, però. Quindi no, la loro non è moda, né vezzo. «Il Cordyceps che si usa in agricoltura è una forma inespressa, di solito è impiegata per attaccare gli insetti. Noi abbiamo cominciato a sperimentarci pensandolo per usi medicinali».

Mazzola dice “sperimentare”, anche se di esperimento Iside proprio non sa. L’obiettivo è eliminare quante più componenti artificiali possibili, perché, anche se più laborioso e dispendioso in termini di tempo, ci vincono ambiente e sostenibilità economica. Questo naturalmente anche con i funghi, coltivati su substrati che non vengono pastorizzati termicamente. «Pastorizzare il substrato significa depurarlo di microrganismi potenzialmente dannosi per la crescita del fungo. Spesso è un obbligo quando si tratta di substrati generici, raffazzonati più che assemblati. Noi invece li prepariamo tutti in azienda, il controllo sulla filiera e la diversificazione è una parte importantissima di ciò che facciamo. Così manteniamo la vitalità complessa di un substrato, e, con essa, anche il valore nutrizionale del fungo che vi crescerà».

Un gioco da battitori di potenza insomma, di raggio lungo. Lento, stupefacente. È anche una via per rifuggire l’ansia della moda, croce e delizia dei fatturati: «Molto spesso anche in agricoltura si vede una certa sudditanza nei confronti delle mode, con nuove coltivazioni avviate quasi come delle start-up per la furia di tirare su due spicci. Puoi iniziare a vendere molto presto, ma non sarà mai un prodotto di qualità, davvero ragionato. E quando il cliente si fissa su un altro prodotto, devi ricominciare da capo».

Il fungo insomma spunta a suo tempo, e anche quelli di Iside hanno scelto di segnare il passo. «Per il futuro vorremmo consolidare i vari processi dell’azienda e, per i funghi, esplorare un maggior numero di varietà. Poi c’è sempre lo scopo ultimo che sarebbe quello di riportare il fungo a godere di una vita di primo piano all’interno dell’ecosistema, posto che gli spetta di tutto diritto».

E noi che The Last Of Us invece l’abbiamo vista, consumata, rimuginata, non potremmo essere più d’accordo.

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