Come sta il food delivery in Italia? Spoiler: è un casino | Rolling Stone Italia
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Come sta il food delivery in Italia? Spoiler: è un casino

Del lent(issim)o miglioramento della situazione dei rider, dell’aumento generale dei prezzi, e di passi indietro che potrebbero arrivare dopo conquiste importanti. Vademecum per capire che cosa succede quando premiamo "Ordina", e che cosa possiamo fare per stare tutti un po' meglio

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Foto: @deliverance_milano

Il 24 aprile scorso, il Parlamento Europeo ha votato a favore di una proposta per regolamentare il lavoro sulle piattaforme digitali, concentrandosi su rider e simili. La nuova normativa mira a migliorare le condizioni di lavoro spesso precarie di questi professionisti, ponendo l’accento sulla presunzione di lavoro subordinato, cioè contrastando la pratica del falso lavoro autonomo, diffusissimo nel settore. La responsabilità di dimostrare l’effettiva autonomia dei propri lavoratori spetterà alle aziende e non più ai lavoratori. Inoltre, la normativa introduce altre garanzie, come il divieto di licenziamenti automatizzati e la necessità di un controllo umano su tali processi. Attualmente, infatti, molte decisioni gestionali sono prese dagli algoritmi delle piattaforme, inaccessibili persino alla Magistratura.

 

L’approvazione da parte del Parlamento Europeo rappresenta un traguardo importante nella regolamentazione dei diritti dei lavoratori di piattaforma, ma il percorso per l’entrata in vigore della normativa non è ancora concluso – la proposta dovrà infatti superare il vaglio del Consiglio dell’UE, che in passato ha già mostrato alcune reticenze. Dopodiché, la Working Platform Directive (questo il suo nome) darà due anni di tempo agli Stati Membri per adeguarsi, liberi di caratterizzare gli indicatori più coerenti con il proprio sistema interno. È un passo avanti, nonostante le incertezze, verso un futuro del lavoro digitale più equo e rispettoso dei diritti. Ma facciamo un passo indietro.

 

La situazione del food delivery, in numeri
Dalle stime, la nuova regolamentazione riguarderà oltre 28 milioni di lavoratori in Europa, operanti su più di 500 piattaforme digitali. Nel 2025 potrebbero toccare i 43 milioni, considerando il consolidamento dei lavori tipici della gig economy. Il 24% di questi lavoratori è coinvolto nella consegna di cibo e spesa, ma il 55% guadagna meno del salario minimo orario, se previsto, e il 41% del loro tempo di lavoro non è retribuito (per esempio durante la ricerca e attesa di incarichi). Inoltre, ben il 93% è costituito da lavoratori autonomi che non godono dei diritti tipici del lavoro dipendente.

 

Secondo uno studio Inapp del 2022, le persone che in Italia lavorano su una piattaforma digitale sono oltre 570.000, e il 36,2% di questi sono rider. Ma dati precisi sono difficili da ottenere, dato che molti di questi lavoratori sono autonomi e non tutti si registrano alla gestione separata. Infatti, ricercatori dellistituto Inapp spiegano che, alla prova dei fatti, quello su piattaforma «si configura come una forma di lavoro fortemente controllata, svolta nei tempi e nei modi stabiliti dalla piattaforma, per molti unica scelta in assenza di alternative occupazionali, pagata spesso a cottimo (il 50,4%) e il cui guadagno risulta importante per chi lo esercita. Un lavoro povero, quindi, paradigmatico della sempre più ampia diffusione anche in Italia del fenomeno della gig economy».

 

I lavoratori sono per tre quarti uomini, sette su dieci hanno un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, per il 48,1% questo lavoro costituisce la propria attività principale. E gli stranieri? Ancora più difficile ottenere dati certi. Una ricerca realizzata dal Dipartimento di studi sociali e politici di Unimi ha rilevato che i rider milanesi sono per il 39% italiani e il per 61% stranieri, percentuali che quando sono sbarcate le piattaforme circa una decina di anni fa erano inverse, per via degli studenti universitari. Ma dato che l’algoritmo – il cui funzionamento è spiegato bene in questo articolo de Il Post – smette di dare turni (o li limita) a chi fa poche ore, questi si sono piano piano dissolti. Con tanti saluti alla retorica del lavoretto. Insomma, dalla ricerca emerge chiaramente come quello dei rider sia un lavoro vero e proprio, e anche parecchio impegnativo: il 29% degli intervistati è impegnato per più di 50 ore alla settimana, il 25% tra le 40 e le 50.

 

Le piattaforme di food delivery più diffuse in Italia
L’abitudine di farsi recapitare cibo pronto a casa, in Italia come nel resto del mondo, si è radicata fino a divenire la consuetudine durante la pandemia, ma i primi player italiani a entrare in questo settore sono stati Clicca e Mangia, divenuto successivamente proprietà di JustEat; Pizzabo, chiuso nel 2016; e Bacchetteforchette, inglobato dalla multinazionale Mymenu.

 

Largamente diffusa allestero, questattività ha fatto inizialmente fatica ad attecchire nella nostra penisola, ma ora registra numeri importanti, muovendo un mercato che oggi vale 1,8 miliardi di euro e ha una penetrazione del 71% nella popolazione italiana. Secondo una ricerca YouGov dello scorso marzo, il 21% degli italiani utilizza i servizi di food delivery mensilmente, in particolare nella fascia 18-34 anni (29%) con una preferenza per il weekend, momento in cui questi servizi vengono usati da quasi la metà degli italiani, specialmente nel Sud Italia.

 

Le tre principali app che si occupano di food delivery in Italia sono ampiamente utilizzate e tra loro primeggia Just Eat, nata in Danimarca e sbarcata in Italia nel 2011, seguita da Glovo (41%) e Deliveroo (37%). Non c’è più traccia invece di UberEats, che ha lasciato il nostro paese a giugno 2023, né di Foodora, protagonista di una delle prime vittorie dei rider in Cassazione, dopo un processo intentato da cinque fattorini rimossi dalla piattaforma online – quindi di fatto licenziati – dopo che avevano protestato chiedendo un miglioramento del loro trattamento economico.

 

Breve cronistoria delle conquiste fatte dai rider
La recente direttiva UE è una conquista nata per l’interessamento dell’europarlamentare del gruppo S&D Elisabetta Gualmini e di Leila Chaibi di The Left, che da tempo portano avanti le istanze di questi lavoratori. Come mi spiega Angelo Junior Avelli, uno degli artefici della proposta che ha portato all’accordo in UE e membro del sindacato informale Deliverance Milano, «questo accordo sarà utile per rivendicare i propri diritti e farà da incentivo alla contrattazione collettiva, ma rimarrà necessario alzare la voce per far valere i propri diritti».

 

Avelli, insieme alla sua associazione, è stato tra i primi a battersi per i diritti dei rider della gig economy. Ha organizzato il primo sciopero di categoria contro Foodora e ha guidato gli scioperi più grandi della rete nazionale nel 2021, culminati con due scioperi nazionali contro l’accordo “pirata” firmato da UGL e Assodelivery, che ancora riunisce le principali piattaforme di delivery presenti in Italia. Nel settembre 2020 veniva infatti siglato questo primo, discutibile, contratto collettivo nazionale per i rider, che però manteneva il contratto a cottimo, ed era stato un modo per aggirare la legge 128 del 2019 che diceva che ai rider andava garantito un salario minimo orario.

 

Un momento cruciale per i rider è stato il distacco di Just Eat da Assodelivery nel marzo 2021, con la configurazione di un nuovo modello organizzativo che coinvolgeva CGIL, CISL e UIL per creare un contratto nazionale. A oggi rimane l’unica sperimentazione di un modello di lavoro subordinato, con contratti molto meno che perfetti, ma che impone almeno uno standard che tutelava il lavoro. Purtroppo però, come racconta Avelli, questo CCNL è scaduto e JustEat sta pensando di non rinnovarlo, segnando di fatto un passo indietro nelle conquiste dei diritti dei rider.

 

«Al momento la situazione è che i lavoratori del food delivery in Italia sono ancora lavoratori a collaborazione occasionale che poggia su ritenuta dacconto, e sopra i 5.000 annui autonomi a partita IVA, tendenzialmente forfettaria. C’è in corso una contrattazione sul licenziamento collettivo, oltre a una serie di cause legali dopo che Uber ha perso un ricorso (art. 28 condotta antisindacale) presentato dalla CGIL e al momento sta offrendo soldi a ex lavoratori per accordi in via stragiudiziale e a livello individuale. Glovo e Delivery continuano indisturbati ad applicare il contratto che è già stato dichiarato illegittimo da diversi tribunali del lavoro, da Palermo a Bologna, e nel frattempo negli ultimi tre anni le paghe sono diminuite, perché pur essendoci un minimo garantito c’è stata unulteriore contrattazione: se nel 2020 prendevano circa 5 euro lordi a consegna, nel 2024 questo numero è sceso, difficile fare una stima ma anche meno di 4lordi (3,25 – 3,70€)».

 

Si può ordinare cibo “eticamente”?
È
indubbio che quello del food delivery sia un servizio molto comodo e utile alla comunità, basti pensare alle persone con disabilità motorie. Lo spazio di lavoro però è ancora molto ampio, se si vuole guardare al di là delle proprie comodità e pensando anche agli attori coinvolti nel settore. Ad esempio, è utile fare una riflessione culturale sul valore della consegna, che come ha raccontato il vicepresidente di Fipe Aldo Maria Cursano a Italia a Tavola, è «un servizio che dev’essere pagato e riconosciuto anche dal consumatore. Bisogna farlo comprendere. La responsabilità è delle piattaforme e di chi usufruisce di questo servizio: servono dignità, spazi e servizi per i rider».

 

Secondo Avelli, «il consumatore può scegliere, fino a quando ci sarà, unazienda etica rispetto a una meno etica». Gli chiedo se forse sia opportuno imporsi di ordinare di meno: «mi fanno spesso questa domanda… Non saprei, perché di base la gente ha bisogno di lavorare. Una buona idea però è non ordinare mai quando i lavoratori scioperano, perché rischiano di essere squalificati dall’algoritmo, e rimanere sempre aggiornati sulla battaglia per trovare forme di sostenibilità dal punto di vista dei consumatori».

 

Nell’attesa di un possibile ingresso in Italia di piattaforme più etiche come Wings, cooperativa di rider londinese che mette il potere nelle mani dei laboratori, ci sono alcune scelte che i consumatori affezionati al food delivery possono fare per ordinare cibo in maniera più etica o quantomeno consapevole. Dunque, un piccolo vademecum.

 

La prima di queste è selezionare un ristorante che offra ritiro in loco o ordinando telefonicamente, perché le app di consegna trattengono alte commissioni (una media del 30%) da ristoranti e fattorini, dimostrando una condotta altamente speculativa.

 

Poi, sebbene possa essere scontato, trattare bene fattorini e ristoratori: sii gentile con chi ti consegna il cibo e lascia recensioni positive ai ristoranti che gestiscono autonomamente le consegne. Sebbene sia prevista una maggiorazione nei compensi durante il maltempo, evita di ordinare cibo a domicilio con la neve o un temporale, o sotto il sole cocente in estate. In ballo c’è la sicurezza di un essere umano che rischia un incidente o peggio la vita per la tua poké bowl. Allo stesso modo, siccome più della metà degli italiani opta per la consegna a domicilio fino al piano (38%), cerca di farle tu quelle scale e risparmia un po’ di tempo e fatica al ciclofattorino.

 

Per quanto riguarda le mance, non sono un obbligo morale: scegli tu se lasciarla o meno, ma ricorda che le mance che vengono date ai rider attraverso l’app diventano un reddito effettivo, con le relative trattenute.

 

Più in generale, rifletti prima di ordinare: la convenienza del food delivery ha un costo sociale e ambientale. Valuta se ordinare a domicilio o se puoi ritirare tu stesso il cibo.

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