C’era una volta un sogno chiamato polpetta (partenopea) | Rolling Stone Italia
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C’era una volta un sogno chiamato polpetta (partenopea)

Che siano di carne o melanzane, fritte o passate nel sugo, a Napoli le polpette sono un'esperienza al limite del sacro. Lo sa chi è cresciuto a colpi di appallottola, gira, repeat. Ma anche chi, dopo il primo morso, non ha più saputo farne a meno

polpette napoletane

Credits: @antoniodimaiolo_

Se il maestro Miyagi, l’indimenticabile e saggio sensei di Karate Kid, fosse stato napoletano, al suo amato, e allora giovane, allievo Daniel LoRusso non avrebbe insegnato a dare la cera e a toglierla, ma a fare con le mani quei piccoli movimenti circolari veloci e precisi, necessari per la preparazione delle polpette. Napoletane, per la precisione.

 

Addestramento che non potrebbe essere in alcun modo bypassato, e altrimenti non potrebbe essere: perché questo piatto, ubiquo nell’immaginario ma di origini sconosciute o poco chiare, necessita di molta attenzione e concentrazione. Chiunque provenga da una cultura partenopea lo sa: le polpette fanno parte della cucina della memoria, quella cucina ricca di ricordi, non solo nei profumi e nei sapori, ma anche nella gestualità. In passato erano uno dei piatti immancabili del pranzo domenicale. Da bambini si arrivava a casa della nonna e la si vedeva intenta a roteare fra le mani una sfera perfetta fatta con uova, pane raffermo, carne o melanzane, e poi formaggio, prezzemolo, sale, pepe, e uvette e pinoli, come vuole tradizione campana.

 

Alcune venivano fritte, altre infornate per essere poi tuffate nel ragù di carne. Altre ancora, in formato più piccolo, servivano per farcire la pasta al forno. Cibo a elevata vocazione conviviale, questa polpetta, capace di riunire tutta la famiglia. E molto spesso, c’è da dire, capitava che fra una chiacchiera e l’altra quelle fritte non raggiungessero la tavola. «Nella storia della gastronomia napoletana» – racconta Antonio Russo, 28 anni, co-proprietario insieme a Potito Izzo, Nives Monda e Giovanna D’Alonzo de La Taverna a Santa Chiara, trattoria Slow Food nel centro storico di Napoli – «la domenica la polpetta non mancava mai».

 

Una pietanza che per molti appartiene a una cucina del riuso con un twist nobile. Riuso per l’aggiunta del pane raffermo, ossia quello avanzato, e nobile per la scelta delle materie prime, in particolare la carne. «Nella cucina partenopea delle origini, e in quella italiana in generale, il pane non veniva mai buttato, ma veniva riutilizzato in numerose ricette. La polpetta è uno dei mille modi che il popolo napoletano, e italiano, si è inventato per usare in maniera saporita il pane raffermo», spiega Giovanna D’Alonzo. A La Taverna a Santa Chiara la storia della cultura gastronomica campana viene raccontata attraverso il cibo. La missione dei quattro soci, infatti, è quella di recuperare quelle ricette “delle radici” che lentamente si stanno perdendo. «Noi proponiamo la polpetta con i pinoli e l’uva passa perché la vera tradizione napoletana la vuole così», spiega D’Alonzo.

 

 

 
 
 
 
 
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Con il tempo, ovviamente, il consumo della polpetta si è evoluto, e da regina della domenica si è trasformata in street food, sfizio da togliersi in qualsiasi momento della giornata. Basta fare un salto da Bellini 9, piccola gastronomia a gestione famigliare appunto in via Bellini, a pochi passi da Piazza Dante. Qui tutte le sere la signora Anna, insieme al figlio Ivan, titolari, friggono e cuociono polpette nelle tre varianti cardinali: alle melanzane, di carne e al sugo. «Bisogna stare attenti e girarle di continuo» – sottolinea Anna mentre è ai fornelli – «altrimenti si bruciano. È un piatto che richiede molta attenzione, e per questo motivo ne prepariamo ogni sera circa una trentina con le melanzane, qualcuna in più con la carne e al sugo».

 

Aperta da nove anni, la gastronomia è diventata un punto di riferimento della zona per chi cerca qualcosa di appetitoso, ma allo stesso tempo autentico e genuino. Oltre ai classici panini, sul bancone sfilano solo piatti appartenenti al patrimonio culinario locale, fra cui parmigiana alle melanzane, salsiccia e friarielli, melanzane a funghetto. Tuttavia, il pezzo forte rimane la polpetta. «Proponiamo una cucina semplice», continua Anna, «sono tutte ricette che preparo normalmente a casa». Croccante fuori e morbida dentro, la polpetta di melanzane non delude mai. Non è un caso che, dall’aperitivo fino a tarda sera, si partecipi a un pellegrinaggio del gusto per procacciarsene: vuoi per soddisfare un leggero languorino, vuoi per tamponare gli effetti dell’alcol, be’, fermarsi da Bellini 9 è diventato il rituale delle serate napoletane.

 

Ma il sacro continua, perché mangiare le polpette, per i napoletani, è un atto religioso, specie di devozione viscerale (tra le mille della città) a cui approcciarsi con riverenza. Un’attitudine quasi cerimoniale, che hanno ben accolto e rispettato i ragazzi de La Locanda del Monacone, una trattoria nel cuore del Rione Sanità. «Faccio parte della Cooperativa Sociale La Paranza, che si occupa di organizzare escursioni guidate in vari luoghi del Rione e aree limitrofe, fra cui le Catacombe di San Gennaro». Questo è Giuseppe Iaccarino, co-proprietario del Monacone insieme a Francesco Porzio e Raffaella Izzo. «Quando facevo la guida turistica capitava spesso che le persone mi chiedessero dove poter trovare un ristorante alla Sanità che non proponesse solo pizza. Così nel 2019, insieme a mia moglie Raffaella e a Francesco, abbiamo deciso di imbarcarci in questa avventura. Abbiamo superato la pandemia nonostante le difficoltà, e a febbraio del 2023 abbiamo aperto».

 

L’atmosfera è accogliente, l’estetica rustica ma curata. Varcata la porta, una sfilata di tavoli quadrati messi uno accanto all’altro si presentano vestiti di tovaglie a quadri bianchi e rossi. In fondo alla sala, un grande mosaico dà il nome al ristorante. «Inizialmente si doveva chiamare la Casa del Ragù», continua Iaccarino. «Ma quando abbiamo iniziato i lavori, abbattendo una parete abbiamo trovato un mosaico originale raffigurante San Vincenzo Ferrer, conosciuto qui come O’Monacone, un santo a cui noi della Rione siamo molto legati [la sua statua viene custodita all’interno della Basilica di Santa Maria della Sanità, ndr]. Dopo questa scoperta, che abbiamo interpretato come un segno, abbiamo deciso di ribattezzarlo La Locanda del Monacone».

 

 

 
 
 
 
 
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All’ombra del santo, quella proposta è una cucina casereccia, con ricette che appartengono all’immaginario culinario napoletano, sia per il menu di terra sia per quello di mare. E, ovviamente, fra i secondi di terra non potevano mancare le polpette, citate nella nuova guida I Cento Napoli (EDT). Servite in un tegamino di rame, le cinque polpette sono avvolte da un sugo cremoso e saporito. «Vengono cotte nel classico ragù napoletano, lentamente e per molto tempo», sottolinea Iaccarino. «La nostra ricetta include, rispetto alle altre, due tipi di carne, ossia quella di suino e di bovino». Fumanti e dal gusto intenso, si sciolgono in bocca, riportando alla memoria la cucina della nonna. Le polpette per i napoletani non sono un semplice piatto, ma sono il simbolo della cucina del cuore.

 

Ed è proprio questo ritorno all’anima, al proprio centro, il fulcro di tutto l’insegnamento che questi molti maestri Miyagi – nella forma di affetti, ricordi molesti e meravigliosi – hanno cercato di impartire ai loro allievi. Il potere di una tradizione autentica e solida che prendeva forma in una gestualità rituale e ripetitiva serviva semplicemente a risvegliare il sentire del cuore. Lo stesso sentire che ogni nonna napoletana, attraverso quei movimenti circolari e precisi, trasmetteva nella preparazione delle polpette domenicali. Non è un caso, quindi, che sia in cucina sia in tavola, per i napoletani, la bontà di questo piatto non venga giudicata solo in base al sapore, ma alla capacità di suscitare in chi dona e in chi riceve il gusto intimo di quella antica memoria che, come per magia, riconduce a casa. E che si arrivi sempre a mangiare una polpetta in più.

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