Bye bye tagliere misto: ora il formaggio balla da solo | Rolling Stone Italia
STRIPPED TO THE WAIST, EATING A BLOCK OF CHEESE

Bye bye tagliere misto: ora il formaggio balla da solo

Una volta era il carrello a fine pasto, per i bastiancontrari del dolce. Oggi è il Cheese Bar, meta di pellegrinaggio per tutti quelli che “la buca l’è minga stracca se la sa no de vacca”, che poi vuol dire: chiudere sempre con il formaggio, e andare in pace

Credits: Paolo Picciotto/REDA&CO/Universal Images Group via Getty

Credits: Paolo Picciotto/REDA&CO/Universal Images Group via Getty

Il mio regno per un formaggio. I cheese addicted sono così: parafrasando, dopo William Shakespeare, anche Oscar Wilde, possono resistere a tutto ma non a un boccone di erborinato, un ricciolo cremoso di Brie de Meaux, una scaglia di Castelmagno o di pecorino di fossa. Prelibatezze di cui andare a caccia in negozi di delicatessen e botteghe specializzate o, per i più intraprendenti, da scovare in malghe alpine e fattorie remote.

Il momento di gloria per gli appassionati era, tipicamente, il fine pasto nei ristoranti più tradizionali di cucina medio-alta: quando il resto del tavolo ordinava il dessert loro, già con l’acquolina in bocca, chiedevano il carrello dei formaggi. Incuranti di aver appena terminato un menù degustazione di otto portate perché, come si dice: la buca l’è minga stracca se la sa no de vacca, la bocca non è stanca se non “sa” di mucca, come recita un motto milanese con varianti dialettali che uniscono l’Italia.

 

 
 
 
 
 
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Oggi, finalmente, le migliori produzioni casearie escono dalla nicchia delle gastronomie d’élite e delle sale di ristorante ingessate per conquistare uno spazio tutto loro: il cheese bar. Un paese dei balocchi dove assaggiare decine di specialità, spesso con la possibilità accessoria – e assai gradita – di portarsene a casa una sporta, o scorta che dir si voglia.

A guardar bene, in principio fu la mozzarella che, nei primi anni Duemila, è diventata protagonista di locali monotematici. I “mozzarella bar” nel nome si ispiravano ai sushi bar nipponici e proponevano (propongono ancora oggi) il candido latticino in ennemila declinazioni, compresi supplì al telefono e immancabili pizze. Un modello esportato in tutto il mondo grazie a un marchio celebre come Obicà, che si trova persino all’aeroporto e, come tutti i franchising, ha un’offerta onesta – benché standardizzata – che ruota intorno alla bufala campana con contorno di burrate, stracciatelle, provole affumicate, ricotte e compagnia. Una formula “gentile” incentrata su prodotti freschi e, in un certo senso, facili.

 

 
 
 
 
 
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Tutt’altra solfa nei cheese bar, dove il palato è più che sollecitato da stagionature strong, affinamenti elaborati, sentori intensi, muffe e croste fiorite, in ambienti studiatamente informali con un côté vagamente gastro-hipster e relativa proposta di abbinamenti con vini naturali e birre artigianali.

Le insegne nuove si susseguono e si augurano la fortuna di indirizzi storici come Le Claque-Fromage a Parigi, “La fromagerie de l’apéro sur place ou à emporter”, dall’aperitivo all’asporto, passando per pranzi e cene, in catalogo un’ottantina di varietà. Naturale evoluzione delle charcuterie, i bar-à-fromage contano a volte poco più di un paio di tavolini all’interno di un punto vendita, ma sono molto amati nel Paese detto “dei 300 formaggi”, in realtà talmente tanti che si dice siano almeno 1.000, o addirittura 1.800.

L’Italia si difende bene. Secondo l’Onaf, l’associazione nazionale degli assaggiatori, sono oltre 600 quelli certificati (Dop, Igp, Stg, Pat). Ma, se si esce dai rigidi paletti dei disciplinari, non si fa fatica a eguagliare il record dei vicini francesi. Così, già solo mettendo insieme specialità al di qua e al di là delle Alpi (contando anche i 4-500 prodotti in Svizzera), ce n’è di che riempire le vetrine refrigerate dei locali dedicati.

Il tratto distintivo del cheese bar è, infatti, l’esposizione: «È un luogo dove la selezione di formaggi è importante e c’è la possibilità di vedere tutti i prodotti», spiega Amedeo De Lio, socio – insieme al vignaiolo Massimo Lanci (delegato Onaf) e a Cristiano Usseglio Mattiet – di CheeseTO, recentissima apertura torinese che offre 45 tipologie, in aumento, da tutta Europa. Assenti, com’è ovvio, produzioni industriali, si va in cerca dell’artigianalità: «Il prodotto deve rispecchiare la mano del produttore», sottolinea De Lio che, per gli approvvigionamenti, si affida a una rete di casari e affinatori.

 

 
 
 
 
 
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Sono, questi ultimi, figure che gli amanti del formaggio conoscono bene, capaci di esaltare quel che esce dai caseifici lasciando maturare le forme in ambienti particolari, dalle grotte alle buche sotto terra, a volte in “camicie” di vinacce, erbe, cenere, paglia, fieno, in condizioni di temperatura e umidità peculiari che, mese dopo mese, anno dopo anno, sviluppano nei formaggi aromi e sentori unici. I più talentuosi tra gli affinatori sono vere rockstar del settore. Come Hubert Stockner, che, in un bunker in Alto Adige, relitto delle guerre mondiali, stagiona e custodisce qualcosa come 3.800 forme. E, nonostante i 10°C di temperatura e un’umidità che sfiora il 100%, le degustazioni (su prenotazione) al suo Genuss Bunker sono ambite da gourmand e appassionati da tutto il mondo.

Se la visita in loco è esperienza sopraffina, è anche vero che non sempre è possibile recarsi sul posto, malga o grotta che sia. Ecco allora che il cheese bar diventa il luogo perfetto dove assaggiare specialità altrimenti inarrivabili.

Fra tante, da CheeseTO ci sono una scelta di formaggi a caglio vegetale (dedicati ai più sensibili tra i vegetariani, perché il caglio animale è altrimenti ricavato dallo stomaco dei vitelli), i migliori Cheddar inglesi, la Cambosana, chicca erborinata a crosta fiorita prodotta nell’insospettabile Germania, ma anche il Cevrin de Coazze, presidio Slow Food di mucca e capra della vicina Val Sangone. Con la possibilità di crearsi un tagliere personalizzato o di sperimentare piatti cucinati, dalle fondute agli agnolotti con robiola di Roccaverano.

 

 
 
 
 
 
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Fra territorio e specialità di importazione, il format del cheese bar si arricchisce anche di salumi, scelti sempre con il criterio dell’artigianalità, e di carte dei vini e delle birre interessanti, in cerca della giusta acidità capace di contrastare la grassezza dei bocconi sui taglieri.

Così è da Terroir a Firenze, “formaggioteca” appena premiata dalla guida del Golosario che propone le eccellenze francesi affinate dalla storica Maison Mons. O da Bù Cheese Bar a Bergamo, il cui fiore all’occhiello sono i cosiddetti Principi delle Orobie, sette specialità – come il Formai de Mut dell’Alta Val Brembana o lo Starchitunt, erborinato della Val Taleggio – tutelate da consorzi o presidi e costituite in associazione.

Non solo bar ma anche chiosco. Al Baby Dicecca, capanno al limitare della Foresta Mercadante, nel Parco dell’Alta Murgia, si gustano diversi formaggi locali in un menù degustazione a 75 euro a testa, decisamente non per tutti, con vino incluso. Infatti tra gli ospiti illustri, Vito Dicecca ha ricevuto Stanley Tucci che ha registrato un passaggio della puntata “Searching for Italy: Puglia” per la CNN e ha assaggiato il famoso Amore Primitivo: un formaggio blu tenuto per 100 giorni nel vino Primitivo pugliese, asciugato per due settimane e ricoperto di ciliegia Ferrovia. Un’altra storia invece è quella del Pallone di Gravina (presidio Slow Food) e dei cugini dello storico Caseificio Stella Dicecca di Altamura, che con Angelantonio Tafuno (quarta generazione della famiglia di casari) ha aperto il MuhBar. Qui troviamo un caveau dove si affinano i formaggi dell’azienda, ma anche una selezione di prodotti locali e da tutto il mondo, ovviamente serviti con del buon vino.

Decisamente più metropolitano il milanese Cheese Park, “chioscone” ai margini di un parchetto in zona Solari, ideato dai titolari di una nota bottega di quartiere, la Baita del Formaggio, per “sopravvivere” ai cantieri della metropolitana: prodotto di punta, la Bollcrem, crema di gorgonzola e champagne, anche in versione al tartufo, ideata negli anni Sessanta e in perfetto mood Milano da bere.

 

 
 
 
 
 
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Questa carrellata di esempi di successo segna evidentemente un trend in ascesa. Anche considerando che un italiano, un francese o uno svizzero possono facilmente trovare un Puzzone di Moena, un Camembert Fermier o uno Sbrinz d’Alpeggio nei negozi di prossimità. Diverso il discorso in quei paesi dove le specialità casearie conservano un che di esotico: è nel mondo anglosassone, da Londra a New York, che cheese bar è sinonimo di esclusività, paradiso per foodies in cerca di emozioni gustative forti.

L’indirizzo più cool nella Grande Mela è Murray’s a Long Island City, nel Queens, che tra un Goat cheese del Vermont, una Raclette francese e un Gruyère invecchiato propone anche una carta dei Mac&Cheese, tra cui una versione con pecorino al tartufo e un’altra con mozzarella e bisque di aragosta, burrata in aggiunta a 5 dollari.

Americanata? Forse. Più in linea coi nostri gusti il mondo del londinese The Cheese Bar, network che riunisce diversi format, dal bar al truck al kaiten, ribattezzato Pick&Cheese, con i piattini che girano sul nastro trasportatore. L’offerta è incentrata sulla rinnovata produzione britannica, in forte crescita negli ultimi 15, 20 anni: Stilton, Blue, Fellstone e Cheddar, of course.

 

 
 
 
 
 
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D’altronde, il recupero e la valorizzazione delle eccellenze locali, e delle tradizioni di una volta, come la merenda contadina a pane e formaggio, è il conduttore che unisce realtà sparse da un punto all’altro del globo. E che, non a caso, si propongono con anime multiple: posti dove fare shopping, bere un aperitivo, sedersi per il brunch o mangiare a pranzo e cena.

Una versatilità che attira la clientela più disparata. «Da noi entra il curioso, che non ha idea di che cosa siamo. Cerca di capire dove si trova e si lascia guidare nell’ordinazione», racconta ancora De Lio. «Ma anche l’estremo appassionato. Uomini dai gusti decisi e donne che mostrano un palato più fine, capace di cogliere la complessità di formaggi all’apparenza meno elaborati, ma dalla struttura più complessa e con affinature particolari».

Chissà se le buongustaie nostrane sceglierebbero per le loro ricorrenze, dal b-day party al matrimonio, le Cheese Tower ideate dall’australiana Narelle Tognini. Con il marchio The Cheese Bar (solo omonimo della catena londinese), l’imprenditrice propone istallazioni con forme di Brie Triple Cream, Cheddar stagionato, Cashel Blue irlandese, impilate dalla più grande alla più piccola, guarnite da erbe fresche e frutta e accompagnate da cracker. Un trionfo di grassi saturi, un’iniezione di colesterolo, un sicuro attentato alla linea. Ma chissene.

 

 
 
 
 
 
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Roba da far inorridire Emily, l’assistente numero uno di Miranda Priestley ne Il diavolo veste Prada, quando confessa all’assistente numero due Andrea che per entrare nella trentasei, che è la nuova trentotto, sta facendo una dieta singolare: «Non mangio niente. Poi, quando sto per svenire, butto giù un cubetto di formaggio».

Le Emily moderne, sbarcate su Tik Tok, hanno eletto il formaggio a ingrediente feticcio del Girl Dinner, ultimo fenomeno social: la cena, in genere apparecchiata su un tagliere, che le “ragazze” si concedono quando non sono “costrette” a occuparsi di mettere in tavola qualcosa per partner/conviventi/mariti/figli. L’hashtag è stato coniato da Olivia Maher, assistente showrunner californiana, nel presentare un piatto con formaggio, sottaceti e frutta. Oggi è speso per accozzaglie di spuntini vari. «Man mano che è diventata virale, la Girl Dinner ha assunto semplicemente la connotazione dello “scazzo totale”», osserva un articolo di Rivista Studio.

Tra fette di salame arrotolate a rosetta, montagnole di mandorle e pistacchi, spicchi di pere, grappoli d’uva, cetriolini e olive, primeggiano i latticini: dadini di Gouda, ciuffi di mascarpone e tante burrate, che sembra davvero abbiano soppiantato la mozzarella nel cuore degli americani (chiamando già le prime grida di noia). Sullo sfondo, un calice di vino rosso. Manca solo la sigaretta di Bridget Jones in pigiamone sul divano. Ma si sa, fumare non è più di moda.

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