Nel febbraio 2019 Robert Plant ha fatto tre concerti in piccoli teatri inglesi fuori dai soliti circuiti. Con lui c’era una nuova band chiamata Saving Grace. Ogni sera proponevano un mix di cover varie, da Season of the Witch di Donovan a Nothin’ di Townes Van Zandt passando per Standing di Patty Griffin, e pure un paio di pezzi dei Led Zeppelin eseguiti per lo più in acustico con banjo e fisarmonica.
«L’ho fatto fondamentalmente per non annoiarmi tra un progetto e l’altro», racconta oggi Plant in una camera d’albergo tra la data a Lucca e quella a Juan-les-Pins, in Francia. «Mi piaceva l’idea di esibirmi in posti piccoli, senza aspettative, senza niente. Era un modo diverso di divertirmi, senza alcuna ambizione, per il pur piacere di godersi la serata».
Vista l’intesa scattata col batterista Oli Jefferson, il chitarrista Tony Kelsey, il polistrumentista Matt Worley, il violoncellista Barney Morse-Brown e la cantante Suzi Dian, non appena è stato possibile sono stati fissati altri concerti dei Saving Grace, spesso annunciati con breve preavviso. Nel 2019 la band ha anche cominciato a gettare le basi per un album in studio, anche se i progressi sono stati lenti a causa della pandemia, del secondo disco di Plant con Alison Krauss Raise the Roof e dei concerti del duo che lo hanno tenuto impegnato per tre anni.
Quando nell’autunno 2024 il tour con Krauss è finito, Plant si è rimesso a lavorare sull’album. Si intitola Saving Grace e uscirà il 26 settembre, anticipato dal singolo Everybody’s Song (vedi sotto). Abbiamo parlato con Plant del disco, del tour, di Bob Dylan e del perché non scriverà mai un’autobiografia, né approverà un biopic ufficiale.
Come hai conosciuto Suzi Dian e com’è nato il progetto Saving Grace?
Vivo nella stessa zona in cui ho passato la maggior parte della mia vita, con qualche parentesi in Marocco e il periodo in cui mi sono goduto le meraviglie di Austin, Texas. Torno sempre ai confini del Galles e allo Shire come la chiamo io, al suo verde meraviglioso. Pur considerandolo un posto prezioso per me, ho sempre trovato difficile trasmettere il mio entusiasmo e connettermi con la musica del luogo. Attorno al 1980 o 1981, dopo la scomparsa del mio caro amico John Bonham, sono tornato allo Shire e ho cercato musicisti che fossero affini, per poter condividere idee musicali senza pretese o ambizioni. I primi tre album solisti che ho realizzato dopo la fine dei Led Zeppelin li ho fatti proprio con gente del posto. E da allora in un certo senso non mi sono più spostato da lì, anche se non sono rimasto abbastanza a lungo da trovare, per così dire, l’accordo perduto.
Più di recente, ho fatto amicizia con Matt Worley. È cresciuto con gli stessi idiomi e le stesse sfumature della musica folk inglese e irlandese. Ho sentito un’affinità, abbiamo un terreno comune, ed è così che la band ha cominciato a prendere forma. Ho trovato qualcuno con cui connettermi, che non mi guardava con un’espressione vuota quando mi entusiasmavi per gli artisti che mi hanno ispirato. E così, attraverso le mie avventure con Matt e Tony Kelsey, abbiamo iniziato a raccogliere un bel po’ di canzoni.
Dimmi com’è cantare con Suzi Dian.
Negli ultimi anni ho lavorato sia con Alison Krauss che con Patty Griffin. È stato un bel cambiamento rispetto alla mia band, gli Strange Sensation, mi ha fatto entrare in una dimensione fatta di parti vocali condivise in cui si lavora con un’altra cantante e ci si adatta al suo stile vocale. Volevo vedere se c’era un’altra voce con cui lavorare e mi hanno presentato Suzi e il marito, il batterista Oli Jefferson. Mi è piaciuto subito il suo stile dolente, il suo approccio fresco ed entusiasta ai pezzi che le proponevo. Erano anni che non sperimentavo una cosa del genere, e invece eccola qua.
Cosa ti ha colpito di lei?
Sarà banale, ma il fatto che portasse un’altra prospettiva. È una cantante contemporanea che viene da un mondo musicale che non ho mai esplorato. Ha dovuto modificare un po’ il suo modo di cantare e io mi sono adattato alle sue sfumature. E ha funzionato, è una di quelle combinazioni che sembrano naturali.
Avete cominciato a esibirvi all’inizio del 2019. Come sono cambiate le cose da allora?
Facevamo un concerto qua, uno là. Ora stiamo facendo dieci date in Europa in un’atmosfera molto piacevole, senza alcuna aspettativa se non quella di godersi la serata.
La pandemia vi ha rallentati?
Non l’ho vista così. Non c’era nulla da rallentare, era più una cosa tipo: «Lo facciamo? Siete liberi? Vi va di fare questo concerto?» oppure «Che ne dite di andare nel Galles del Sud e suonare là?». Non c’era un progetto preciso anche prima del Covid. È una combinazione affascinante e stimolante di personalità e musicalità. È bellissimo. Davvero considero questa band come la mia saving grace, la mia grazia salvifica. Mi ha salvato la sanità mentale, dico sul serio.
Hai messo in pausa il progetto per lavorare al secondo disco con Alison Krauss. Hai sempre saputo che saresti tornato ai Saving Grace?
Il lavoro con Alison ha rappresentato una rinascita per me, un modo nuovo di pensarmi e di esprimermi come performer. Non ho mai pensato di saltare da una cosa all’altra. Lo vedo più come un flusso continuo, un percorso in cui continuo semplicemente a fare quel che mi piace. Le mie avventure con Alison sono state un sogno, un vero sogno. Lei poi aveva i suoi progetti con gli Union Station e io ho pensato: be’, sono in buona forma vocale, voglio continuare a fare cose e magari ci ritroveremo di nuovo nella stessa città o allo stesso festival, o chissà dove.

Robert Plant, Suzi Dian e i Saving Grace. Foto: Tom Oldham
Com’è nato l’album dei Saving Grace?
Abbiamo cominciato piazzando un solo microfono su un’asta in un campo vicino a casa di Matt Worley. Avevamo un piccolo banco di registrazione portato lì. Non ci avvicinavamo mai più di tre o quattro metri l’uno dall’altro, e andavamo uno per volta davanti al microfono, che poi disinfettavamo. Nell’ultimo brano del disco si sentono persino degli uccellini cantare, perché registravamo le parti separatamente, all’aperto. È un esperimento che mi ha riportato ai tempi di Physical Graffiti dei Led Zeppelin, quando ho registrato alcune parti vocali fuori dallo studio. Mi è piaciuta molto l’idea di stare là fuori e non dentro una sala. Credo che tutto sia cominciato con Higher Rock, forse anche Chevrolet. Era il 2019 o il 2020. Partivo, tornavo, ci lavoravamo di nuovo.
Un amico di Steve Winwood, che era nel suo giro nei primissimi giorni dei Traffic, ha una vecchia fattoria nel Gloucestershire. Così, man mano che la situazione migliorava e il mondo si riapriva, ogni tanto andavamo nel suo granaio a vedere cosa usciva. Bello e bucolico. Abbiamo fatto anche una tappa ai Real World Studios di Peter Gabriel per provare a ottenere un suono di batteria diverso, o qualcosa del genere. Ma per il resto è stato tutto piuttosto naturale. So che è una parola inflazionata, ma è davvero così. Nessuno puntava ad alcunché, nessuno pensava ad altro se non a fare il disco. Al massimo qualche concerto negli Stati Uniti più avanti nell’anno. Non c’era alcuna ambizione.
Quando sono tornato dopo la fine dei Led Zeppelin, ero in una fase diversa della mia vita, con una mentalità diversa. Ero determinato a mettere nella mia musica molta più energia. Questo, invece, è tutto un altro mondo, direi proprio che ha un carattere bucolico. Nessuno dei Saving Grace vive a più di una dozzina di chilometri dagli altri. Siamo un gruppo affiatato in tutti i sensi, perché in fondo veniamo tutti dalla stessa zona. C’è una coerenza anche nel nostro umorismo. Abbiamo qualcosa di speciale tra le mani, senza grandi pressioni. È bello così.
Parliamo di alcune canzoni dell’album, Che cosa di piace di It’s a Beautiful Day Today dei Moby Grape?
Oh, è stato il 1967 a farmici avvicinare. Vivevo in una casa piena di ragazzi new age piuttosto stravaganti, provenienti dalle cittadine del centro Inghilterra. Eravamo rapiti dai Moby Grape. C’era così tanta roba in quella band, così tante voci, c’erano Jerry [Miller] e Skip [Spence], un chitarrista straordinario, era come un richiamo squillante. Quell’epoca, per me… c’erano così tante nuove strade da esplorare. La cultura giovanile, i ragazzi poco più che ventenni… C’erano i Jefferson Airplane e tutta una nuova ondata che veniva dalla West Coast. Era come se avesse spazzato via il pop zuccheroso e avesse cominciato a porre domande importanti all’ascoltatore. It’s a Beautiful Day Today è un pezzo bellissimo e dolcissimo, scritto da Bob Mosley, un uomo la cui vita ha avuto tante svolte e momenti magnifici.
Con i Led Zeppelin e When the Levee Breaks hai fatto conoscere Memphis Minnie a un sacco di gente. Cosa ti ha riportato a lei con Chevrolet?
Ho sentito per la prima volta Chevrolet quando uscì da Como, Mississippi. Era un pezzo per voce e percussioni, registrato credo da Alan Lomax nel 1959, quando Shirley Collins viaggiava con lui. Qualcuno lo chiamava Chevrolet. Avevano preso il brano di Memphis Minnie e lo avevano trasformato in un pezzo dal ritmo ipnotico straordinario. Poi il mio caro amico Donovan lo ha rielaborato di nuovo. Gli ha dato un altro titolo decisamente alla Donovan, Hey Gyp (Dig the Slowness). Lo adoro. È uno di quei brani tipo Bald Headed Woman che arrivano dal Delta. Voglio dire, oggi la musica di Memphis Minnie si sente in tutto il mondo.
Nel disco ci sono anche brani di artisti nuovi, alcuni dei quali piuttosto sconosciuti. Come hai scoperto Higher Rock di Martha Scanlan?
Non ne ho idea. Non riesco a ricordarlo, nemmeno sforzandomi. Forse quando io, Alison e altri cercavamo canzoni con l’incredibile Henry [T-Bone] Burnett. Potrebbe essere stato Buddy Miller, forse T-Bone, o forse io stesso. Non riesco proprio a ricordare.
E Ticket Taker dei Low Anthem?
Amico mio… che disco. Voglio dire, quell’album (Oh My God, Charlie Darwin) è ipnotico, assolutamente ipnotico. E questa è una di quelle canzoni che mi porto dietro da un pezzo. Ho con me, qui in hotel, un taccuino pieno di titoli, appunti, frammenti di idee. Molti vengono fuori da soli, misteriosamente, ma quel disco è stato un’ispirazione enorme. I Low Anthem hanno avuto un impatto fortissimo su di me.
Everybody’s Song dei Low è meravigliosa.
È la terza canzone che prendo dal loro The Great Destroyer. Mi incantano. Li ho visti dal vivo un paio di volte a Londra, ed erano sempre intensi e bellissimi.
Finora non hai mai portato i Saving Grace fuori dall’Europa. Sei emozionato per i prossimi concerti negli Stati Uniti?
Certo che lo sono. A volte suoniamo nel Galles del Sud in un teatrino da 200 posti e volte invece andiamo in tour. E sembra giusto, perché molte delle canzoni sono ispirate dalla tradizione musicale americana. Sarà bellissimo vedere e sentire come reagirà il pubblico americano, perché non è qualcosa che si aspettano. Penso che abbiano sempre creduto che, prima o poi, avrei detto: «Ok, basta così, ora metto su una tribute band di Link Wray». Sarà bello vivere quest’esperienza anche attraverso i loro occhi.
Com’è stato fare l’Outlaw Tour l’estate scorsa? Immagino che ogni sera ci fosse qualcuno nel pubblico che non conosceva il vostro repertorio.
Non ho pensato a quello, a dirla tutta, ma a ciò che io e Alison potevamo dare, alla musicalità, ai musicisti con cui avevo la fortuna di trovarmi. Era giusto non suonare troppi pezzi noti, anche se i due album che abbiamo fatto un po’ di riconoscimento lo hanno ricevuto… Comunque, mi è piaciuta subito l’idea dell’Outlaw Tour. Ho sempre voluto far parte di una specie di carovana alla Grateful Dead. Ho sempre amato l’idea di musicisti che viaggiano insieme di città in città, sai, quel romanticismo.
Che poi pensandoci bene non è affatto romantico, se pensi a quello che è successo e quelli che ci hanno lasciato. Attorno al 1971 pure io e Jimmy Page avevamo quest’idea. Stavamo scrivendo Led Zeppelin III e ci eravamo appassionati all’idea di una congrega di musicisti. Sapevamo che sarebbe stato fattibile, anche se probabilmente disastroso… Credo che Ronnie Lane abbia effettivamente provato a viaggiare di città in città su un vecchio bus convertito, fermandosi nei paesini suonando con un piccolo generatore. Mi vengono in mente la Rolling Thunder Revue e quel treno, il Festival Express, che attraversò il Canada con Janis [Joplin]… C’era anche Joni [Mitchell], vero?
Mi pare ci fossero i Grateful Dead, Janis Joplin, The Band e i Flying Burrito Brothers.
Chissà che caos, a pensarci oggi. Ma all’epoca trovavo quell’idea incredibilmente affascinante. Sai come si dice, un po’ di conoscenza può risultare pericolosa… Ma mi sono goduto l’Outlaw Tour. Mi è piaciuto molto Willie [Nelson]. Adoro la sua famiglia. E poi c’era il maestro, che si muoveva tipo tra le sfere… Dylan, insomma. Era semplicemente ultraterreno, con le sue stranezze, le svolte, le variazioni: è su un altro livello. Lo adoro.
Hai visto spesso il suo set?
Sì e anche a Wolverhampton [nel novembre 2024], pensa un po’. Mi aveva detto che sarebbe venuto in Inghilterra e che avrebbe suonato di tutti i posti proprio lì. Voglio dire, Wolverhampton è un posto dalla storia industriale, il luogo dove è cominciata più o meno la Rivoluzione industriale, con tutte le sue conseguenze. Gli ho detto: «Sarà incredibile vederti lì». Credo abbia fatto due concerti a Wolverhampton. Sono rimasto sbalordito. Lì è stato ancora meglio, perché era in uno spazio chiuso, una sala da 3000 posti. Sembrava quasi uno spettacolo di spoken word. Mi ha colpito nel profondo. È stato di grande ispirazione. Magnifico.
Voi due venite da mondi decisamente diversi, ma date entrambi voce a canzoni famosissime che si sentono ogni giorno alla radio. Sarebbe quindi facile salire sul palco e rifare ogni sera quei pezzi esattamente come sono su disco, eppure vi siete sempre rifiutati di farlo.
Hai ragione. Abbiamo rinunciato a ciò che saremmo potuti diventare, al percorso più ovvio, perché avevamo qualcosa da dire, da offrire. Guarda quanto è prolifico lui, senti False Prophet da Rough and Rowdy Ways. In quanto a me, ho voluto fuggire dalla noia derivante dal rivisitare i vecchi successi. Ho cercato fin dall’inizio di evitare di ripetere quei pezzi nello stesso stile. Bisogna mantenere un po’ di freschezza.
Non molto tempo fa sono andato a vedere Dion DiMucci. Voce impeccabile, groove pazzesco e come tutti mi sono ritrovato ad aspettare certe canzoni. E naturalmente lui le ha eseguite, ma in modo diverso. È un modo per stimolare te stesso. Sai, non puoi diventare… un jukebox è un jukebox. E ok, lo capisco, ma si va avanti. In quanto cantante mi sono divertito moltissimo a superare, a svicolare, a rinnovare, a restare avanti. È lì che mi sento a casa, da qualche parte nel mezzo di tutte queste cose.
A proposito del passato, Becoming Led Zeppelin è molto bello, ma si ferma al secondo album. I fan sperano di vedere prima o poi una seconda parte. Ti interesserebbe farla?
Per me è giusto che finisca prima della fase in cui abbiamo dovuto raderci al mattino. Cattura un momento di gioia spontanea. Poi siamo dovuti uscire a comprare un rasoio, e da lì è cambiato tutto.
Hai mai pensato di scrivere le tue memorie?
Manco per sogno.
E perché?
Affonderò con la nave. E con me la mia memoria.
Negli ultimi tempi sono usciti molti biopic sul rock e altri sono in arrivo. Arriverà mai il giorno in cui approverai un film sulla tua vita?
Mai. Sono risalito sulla nave e non mi tiro indietro nemmeno se affonda.

La tracklist di Saving Grace
Chevrolet
As I Roved Out
It’s a Beautiful Day Today
Soul of a Man
Ticket Taker
I Never Will Marry
Higher Rock
Too Far From You
Everybody’s Song
Gospel Plough












