Ventiquattro anni oggi, ventitré anni allora. Il tempo dell’assenza ha superato quello della presenza, quello del corpo vivo e quello del cuore che batte saldo come il migliore dei muscoli a disposizione, come il migliore dei muscoli noti fino ad allora. Ventiquattro anni trascorsi senza addosso tutto il minimo necessario per sentirsi vivi, ventiquattro estati trascorse in un’apnea stolta e colpevole come solo quella dei sopravvissuti e dei reduci, ma di quelli senza nessuna voglia di medaglie, ricordi e figuriamoci onori.
Di ricordare si ricorda tutto, ma di raccontare passa subito la voglia a chiunque avesse la ragione di quel cuore e di quell’età, ventitré, ricordiamocelo bene per una volta. Io di mio ricordo una corsa in bicicletta, ricordo quel caldo e quella sensazione, il sudore misto alla colpa, la colpa mista alla vergogna e poi le telefonate fatte e ricevute come un avvertimento, come una sostanza dell’essere che arruffava in testa tra il sudore e i capelli ancora folti. Perché esserci bisognava esserci, non c’erano dubbi, mica ci potevano essere dubbi. E poi Monica la notte che diceva non andare, Monica che diceva vieni da me, ma non andare lì. E io che non andavo mai da nessuna parte e io che non volevo andare mai da nessuna parte perché non capivo nemmeno le misure della mia stanza e ancora non le capisco. Ma vai a spiegare il senso di una misura, l’ossessione di una giusta misura a chi ti parla con la passione del cuore, di un cuore a cui forse tu in fondo non credi perché sempre troppo distratto dal prendere le misure al mondo.
E allora ancora in bicicletta e poi ancora in libreria là dove allora almeno arrivavano le notizie degli amici sotto il sole. E allora era tutto un Ma poi loro sono partiti? E sono già arrivati? E noi? E tu? E tu che fai non parti? E chi l’avrebbe mai detto che poi non sarei mai partito né allora né dopo.
Antonio Tabucchi, mi viene in mente e poi Adriano Sofri e Stefano Benni, Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg e Elsa Morante, Thomas Mann e l’amatissimo Tonio Kröger e poi Carta la rivista e Il manifesto, la diffidenza per Rossana Rossanda e l’amore infinito per Luigi Pintor. E poi ancora Lucio Magri e Cesare Garboli, Johan Huizinga e Hannah Arendt e poi certo Toni Negri e Giorgio Agamben, tutta un’educazione di carta, tutta una gentilezza appresa per provare ad arginare la rabbia, la confusione e il disastro di chi sbagliava sempre le misure alle cose. Una quantità di carta spiegazzata, confusa, strappata spesso a caso e messa in bocca e nelle orecchie, Tutta quella carta però non sarebbe bastata ad asciugare tutto quel sangue, non sarebbe stata sufficiente a pulire da tutto quel sangue. La morte e chi mai l’avrebbe presa in considerazione, non io, non noi, Adriano Sofri sì invece e io e noi lo ascoltammo solo come si ascolta qualcuno, sì credendoci, ma non volendo davvero sentirlo, un po’ perché no, non era possibile e un po’ perché quello che bisognava fare andava fatto.
Era venerdì allora ed è domenica oggi, e non è più stato venerdì allora e non è più domenica nemmeno oggi. Perché nulla fu interrotto, nulla fu spezzato, tutto proseguì come doveva e come era stato stabilito. Ad oggi non contano nemmeno le ragioni di allora, non conta chi le aveva e chi no, non conta nemmeno l’avventura perché tutto si sciolse al sole lasciando dei nostri ventitré anni solo un’impronta netta di dolore e il dolore non si racconta e non è adatto ai venerdì e alle domeniche, anche se non si dimentica nulla di tutto quello che è stato.
Non è stata una generazione, non è stata una stagione e non è stata una giornata a segnarci e a darci forma e senso, orgoglio e malinconia. È stato solo un corpo a Genova, ucciso sotto i colpi di una pistola. E di quel corpo – in assenza d’altri che pure erano ben presenti, potenti e colpevoli – non portiamo e non possiamo portare malinconia e senso alcuno, ma solo la responsabilità della nostra assenza, l’assenza di chi c’era e di chi non c’era, di chi è partito e di chi non è partito mai. La responsabilità di chi ci credeva in fondo non solo alla rivolta che pure non fu nemmeno mai inneggiata o innescata per davvero, non solo a quel mondo migliore tanto gridato e non solo infine a un cambiamento radicale nella vita delle persone, ma prima ancora di chi credeva fermamente e convintamente alla grazia e alla gentilezza. Perché Genova fu grazia e gentilezza che si oppose a mattanza e violenza ed è inutile tornare alle foto e ai filmati, è inutile tornare a soppesare l’uno o l’altro.
Inutile confondere i ventitré anni di vita con i ventiquattro anni di nulla in cui siamo oggi sprofondati. Inutile stabilire la misura quando si stabilì la morte come punto esatto di partenza per pochi e di immobilità per molti. Anche chi non fu a fianco di quei corpi in movimento poi non potè non essere per sempre a fianco di quel corpo immobile in piazza Alimonda con tutto il rischio del ridicolo che tutto questo comporta, con tutto il rischio di non essere creduti dai soliti e sbeffeggiati dagli altri quelli che confondono la morte con lo spegnimento e vivono la vita a colletto alzato, beati loro.
Immobili come i segni del gesso attorno al corpo, spettatori senza spettacolo, scrive Peter Handke: «De-pensarsi… finché non vi sia più nulla di sé e tutto si perda nel vento e nel sole, nulla, tranne un piccolo punto di dolore». E di quel punto di dolore noi portiamo memoria, una memoria priva d’uso, un male che non si rasserena nemmeno con chi ci raggiunge di volta in volta al nostro fianco che abbia vent’anni di meno e gli occhi ancora puliti o la nostra medesima età e una voglia di vita che per noi è sempre più difficile da stanare. Stiamo al punto che non sappiamo se quel dolore sia maledetto o magari pure fortunato perché come un cuscinetto ci fa scivolare e rotolare permettendoci quel poco di movimento di cui siamo capaci. Uno strumento certamente pericoloso e di cui è fondamentale prendersi cura.
Certo sarebbe stato bello tornare al mare ancora una volta e ancora una volta credere di poter imparare a nuotare per davvero, sarebbe stato proprio bello abbracciarsi ancora una volta come accadeva quando capitava per caso per quella voglia di tenersi a mente e nel cuore, come si fa a venti anni con un’intenzione che è l’esatta misura del gesto stesso. Quella sì che è la misura del corpo, quella fatta di sguardi e abbracci, di baci e di strette di mano che sottendono un’avventura nuova e un divertimento che non fa mai paura.
Genova 2001 mette i brividi come un’insegna luminosa che ci avverte della fine delle cose, del mondo nuovo, di noi stessi che volevamo essere diversi e più capaci, più aderenti a noi che agli altri, più vicini al sentire che al fare obbligato e imposto. E poi certo la fine dell’estate che da allora è divenuta un lungo attraversamento bianco in attesa del freddo.
Caro Carlo, come sarebbe bello scriverti come ad un amico, come in un sogno in cui a parlare finalmente si è in due. In due come in mille, tutti senza bisogno alcuno di un nome, di una posizione e di un ruolo. Senza forme e senza misure, senza lati e senza vie d’accesso e d’uscita, ma con la sola certezza di una bellezza sicura, di una gentilezza doverosa e di una grazia di cui tutti possano godere, come una bellissima giornata di sole trascorsa a sudare e a ridere. Insieme come a vent’anni, insieme come se si avessero ancora vent’anni.








