Nel 1942, durante la Seconda guerra mondiale, a Greenboro, nella Carolina del Nord, presso il Centro di addestramento dell’aeronautica militare americana, il soldato semplice Harold Rhodes – ex istruttore di pianoforte – costruisce delle piccole tastiere a 29 note, utilizzando i tubi di alluminio recuperati dalle ali dei cacciabombardieri Boeing B-17. Il motivo è semplice: contribuire al recupero e al sollievo di migliaia di veterani che hanno perso l’uso delle dita delle mani, segnate da cicatrici, gravi aderenze, tendini arrugginiti e altre complicazioni da congelamento. Nella sua applicazione pratica si trattava di “semplice” fisioterapia, ma nei suoi intenti più profondi era una forma basilare di musicoterapia, ovvero l’uso della musica come conforto dalle sofferenze del mondo.
Cosa c’entra tutto questo con lo strepitoso concerto di Beth Gibbons di ieri sera? C’entra, c’entra, ma per adesso prendete e mettete da parte.
Per la sua unica data italiana a supporto dell’album Lives Outgrown, uscito l’anno scorso, l’ex cantante dei Portishead – anima e cuore pulsante del trip hop anni ’90, insieme a Tricky e Massive Attack – ha scelto i Giardini della Triennale di Milano, un luogo che ben si adatta nello spirito alla sua anima da star riluttante. Nota per la sua ritrosia, Beth Gibbons non ha mai amato stare sotto i riflettori e infatti non ci si mette nemmeno stavolta, pur essendo la protagonista della serata. Per la maggior parte del tempo rimane nell’ombra, ferma come un faro avvolto da una nebbia di fumo viola e blu, che rimanda in parte alle atmosfere noir portisheadiane degli esordi di Dummy (1994). Spesso quando finisce un brano indietreggia e si ritira in una zona del palco ancora più buia o si volta all’indietro, rifuggendo lo sguardo del pubblico.
Questa sorta di “danza immobile” delle ombre non fa altro che aggiungere un ulteriore strato extra-dimensionale alla sua voce ultraterrena, che incrocia il canto jazz dolente di una Billie Holiday astrale con il soul di Nina Simone e il folk ancestrale di Sandy Denny. Del resto, il concerto si apre con la preghiera pagana di Tell Me Who You Are Today (“vieni qui”, “ascoltami”, “liberami da tutto ciò che sento dentro”). Non è un caso che si tratti della stessa canzone che apre l’ultimo disco: con il suo incedere lento e strisciante costituisce l’introduzione perfetta per approcciarsi al nuovo universo sonoro di Beth Gibbons, che si distacca dai beat e dai campionamenti della sua band originaria per approdare a un suono più materico, profondo e cosmopolita.
Al suo servizio sul palco ha una sorta di orchestra etnica, costituita da un ensemble di sette elementi: sul lato sinistro Eoin Rooney alla chitarra e Tom Herbert al basso; sul lato destro Anisa Arslanagic e Richard Jones al violino e alla viola rispettivamente. Dietro di loro l’attrezzatura pesante, ovvero Sophie Hastings alla batteria, Jason Hazeley alle tastiere e infine il più scenografico di tutti, il multistrumentista samurai Howard Jacobs che da dietro la sua fortezza di giocattoli percussivi suona una quantità impressionante di altri strumenti, tra cui sassofono baritono, clarinetto basso, vibrafono, flauto e persino una sega musicale.
Il suono piangente di quest’ultima è fondamentale per arricchire il sound acustico e quasi etereo di Floating on a Moment, uno dei brani più toccanti d’inizio serata, dove il racconto onirico di un viaggio oltre la vita (“All going to nowhere”) diventa al tempo stesso un invito a goderci il qui e ora (“All we have is here and now”). I cori e le cascate di chitarre del ritornello fanno “fluttuare” le teste del pubblico, come richiede il verbo reggente della canzone – quel “floating” – che sa di Julee Cruise di Twin Peaks, e che si adatta sia a chi si vuole lib(e)rare nel cielo, sia a chi ama farsi trascinare dalla corrente dell’oceano.
Sono questi da sempre i due specchi in cui si riflette la solitudine esistenziale delle canzoni di Beth Gibbons, che al suo massimo tocca i due estremi, le profondità degli abissi marini e il vuoto dello spazio siderale. Il Maggiore Tom di David Bowie da una parte e La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge dall’altra. È un suo marchio di fabbrica: se si pensa ai testi di Dummy, il disco si apriva con “questo oceano non può essere afferrato” (da Mysterons) e si chiudeva con il destino degli uomini paragonato alle stelle erranti esiliate nello spazio più profondo, “the blackness of darkness forever” (da Wandering Star).
Oggi come allora, i versi di Gibbons sono per lo più frammenti di immagini, non narrativi, riflessioni personali frantumate in piccole schegge emotive da cogliere così come vengono, come se stessimo aprendo il Libro dell’inquietudine di Pessoa per leggerne degli estratti a caso. Ho provato a farlo davvero e ci ho trovato dentro una descrizione perfetta dell’atmosfera della serata: «Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita […] e poi nella notte emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle». I testi di Gibbons sono così, le frasi sono lanciate come corpi celesti dentro le canzoni e non sempre è facile cogliere la traiettoria esatta del loro significato. Gibbons non spiega nulla e quasi non parla a parte qualche tentativo di dire «grazie mille» in italiano. È come se stessimo ascoltando la Sibilla Cumana e l’oracolo di Delfi insieme.
L’emozione, invece, quella si coglie sempre: non c’è solo inquietudine, isolamento e alienazione, ma anche desiderio, speranza e coraggio. Nel corso della serata, ci imbattiamo, così, in tutto il suo campionario emotivo, anche perché alla fine verranno eseguite tutte e dieci le canzoni del nuovo album, più un paio di ripescaggi da Out of Season (il disco folk-jazz inciso nel 2002 insieme all’ex bassista dei Talk Talk, Paul Webb alias Rustin Man) e soprattutto due capolavori intramontabili, come Roads e Glory Box, estratti dal cilindro di Dummy.
Tra i recuperi del passato, nella prima parte del set, Tom the Model fa ballare e cantare tutti, ma è Mysteries a rubare la scena con l’anima disincarnata di Nick Drake che viene a bussare alla finestra come il fantasma di Cathy in Wuthering Heights, e la voce di Gibbons che si trasforma in un theremin umano: non a caso, un tempo si diceva che il suono di quello strano strumento provenisse dall’etere, l’elemento che ospitava le anime dei defunti e permetteva di avere udienza con le voci dei morti abbandonati.
Tra i brani del nuovo disco, invece, a emergere a livello canoro sono la dolente riflessione sulla maternità di Oceans e quella più saggia sullo scorrere del tempo di Lost Changes, sul piano più strettamente sonoro a spiccare sono i pezzi in cui la densità di suono si sovraccarica di elementi, come nelle improvvisazioni strumentali che squarciano il pa pa pa pa di Beyond the Sun oppure nel tribalismo apocalittico di Rewind, pezzo monumentale anticipato da un “vento sonoro” generato dal volteggiamento di tubi rotanti colorati (giuro che non si può descrivere diversamente). In questi brani l’illuminazione vira sul rosso sangue e improvvisamente percepiamo tuoni, fulmini, eruzioni e terremoti, quasi come se si fosse aperta una voragine sotto i nostri piedi per far venir fuori il suono primordiale delle viscere della terra.
Ma i due pezzi più “forti” della serata, quelli a cui il pubblico di over 40 presente sotto il palco è più legato, restano inevitabilmente i due estratti da Dummy eseguiti nell’encore, prima della potente chiusura affidata al collasso percussivo di Reaching Out.
Glory Box mantiene ancora oggi intatta la sua carica sensuale legata all’intimità della voce di Gibbons, che a 60 anni non ha perso la capacità di irretire: il ritornello sembra il canto mitologico di una moderna sirena a cui non possiamo in alcun modo resistere. Il sample suadente di Isaac Hayes e l’assolo hendrixiano che lo attraversa fanno il resto e l’innamoramento è servito. Il momento clou si ha quando la traccia sembra quasi subire un’interferenza ed entrare in un’altra dimensione che ne altera il tempo e ne storpia il sound per poi ritornare al ritmo originale, come se il pezzo avesse varcato un portale extra-dimensionale e non fosse più un brano del passato, ma un brano del passato, e del futuro contemporaneamente. La forma musicale dell’eternità.
Ma il vertice emotivo assoluto non è questo. È quello che viene toccato un attimo prima con Roads, una canzone in cui si percepisce tutto il senso di solitudine del mondo racchiuso in una cantante che ti dice di “non avere nessuno al suo fianco” mentre ha letteralmente una schiera di musicisti intorno e un pubblico adorante di fronte. Sai che comunque sta dicendo la verità. Lo senti e lo vedi da come è aggrappata all’asta del microfono: come se fosse aggrappata all’albero maestro di una nave su un mare in tempesta, come se la sua stessa vita fosse aggrappata soltanto alla sua musica e alla sua voce. È un’immagine divenuta leggenda per i suoi fan, quasi quanto la posa di Liam Gallagher con le mani dietro la schiena, con la differenza che quella di Gibbons è molto più rara.
Tornando al Libro dell’inquietudine, Roads è il momento in cui si realizza la “litania” di Pessoa in cui «noi non ci realizziamo mai, siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo», o come canta Gibbons “We never found our way, regardless of what they say”. È il preludio al verso che tutti stiamo aspettando in silenzio per curare i nostri dolori: “How can it feel this wrong?”, ripetuto come un mantra fino alla fine del brano.
“Come può sembrare così sbagliato?”. Non può e infatti non lo è. Roads è un balsamo lenitivo per il male di vivere, che si inserisce nel solco delle canzoni curative del trip hop come Safe From Harm e Protection dei Massive Attack. Solo che lì gli intenti curativi erano espliciti. In Roads lo sono un po’ meno, ma li senti e li percepisci perché il suono tremolante da cui nasce la canzone e a cui allude il titolo è quello del pianoforte elettrico Fender Rhodes, quello che in origine era nato per curare i dolori emotivi dei soldati durante la Seconda guerra mondiale. È questo il punto di Roads e del concerto di Gibbons nel 2025. Non importa se non hai ancora trovato la tua strada, per una sera almeno su questa strada hai trovato conforto.












