Angelo Trabace ed Enrico Gabrielli, comporre, suonare, suonarsi | Rolling Stone Italia
Dialoghi aperti

Angelo Trabace ed Enrico Gabrielli, comporre, suonare, suonarsi

Stare dentro e fuori la musica popolare. Abbinare rigore e leggerezza. Scrivere per sé o per gli altri. Raccontare una vita con gli strumenti. Due dischi, due musicisti a cavallo fra mondi, una conversazione

Angelo Trabace ed Enrico Gabrielli, comporre, suonare, suonarsi

Angelo Trabace ed Enrico Gabrielli

Foto: Michele Battilomo (1), Antonio Novelli (2)

Un dialogo tra Angelo Trabace ed Enrico Gabrielli è pieno di deviazioni, intuizioni fulminanti, scavi in profondità. Entrambi compositori, entrambi autori di musiche che non si lasciano delimitare da categorie o definizioni rigide, condividono attitudini comuni: libertà e ricerca. È da qui che nasce l’idea di questa conversazione: un’intervista reciproca. Un’occasione per entrare nel cuore di due album – Abbash di Trabace e Der Maurer Vol. 2 di Gabrielli – diversi per forma, ma simili per tensione e tentativo di mostrare le peculiarità del proprio cammino artistico.

Abbash è il secondo album solista di Trabace, compositore lucano, collaboratore di Colapesce e Dimartino, Vasco Brondi, Francesco Bianconi. È un lavoro intimo, nato in famiglia – insieme al fratello Alessandro, al padre Giuseppe e con la produzione di Matteo Cantaluppi – e ha a che fare con la memoria. Il titolo, tratto da un’espressione dialettale che significa “giù, sotto”, è la chiave di un viaggio sonoro che esplora ciò che si muove nel profondo: affetti, assenze, paesaggi interiori, forze silenziose. Dodici tracce in cui il pianoforte si intreccia con l’elettronica rarefatta, con echi folk, ambient e spiritualità mediterranea.

Dall’altro lato, Enrico Gabrielli riapre dopo sedici anni il cantiere Der Maurer, pseudonimo con cui firma il suo lavoro da compositore. Il nuovo capitolo raccoglie brani scritti tra il 1999 e il 2025, e offre uno sguardo ampio sul suo rapporto con la scrittura musicale colta: dagli anni della formazione milanese all’esperienza con i Virtuosi della Scala agli ensemble contemporanei. Il tutto senza dimenticare il suo impegno per la diffusione della musica contemporanea nella collana su abbonamento 19’40” che pubblica il disco. Una traiettoria che abbraccia senza soluzione di continuità musica d’arte e pop, accademia e scena indipendente, con una trasversalità che gli ha dato la possibilità di passare dai Mariposa ai Calibro 35 e ai Winstons, fino alle collaborazioni con artisti come PJ Harvey, Iggy Pop e Mike Patton, solo per citarne alcuni.

In mezzo a loro, il sottoscritto a fare da mediatore, da innesco, da testimone curioso. A volte solo per accendere una scintilla, a volte per cercare un ponte tra due mondi che condividono una profonda affinità: quella tra chi ha deciso che la musica non è solo mestiere, ma un modo per mettersi in gioco, abitare il tempo, restare umani in tempi sempre più difficili.

Mi piacerebbe cominciare chiedendovi da dove partite quando scrivete musica? Che intenzione c’è dietro i vostri due dischi? Mi incuriosisce il modo in cui sperimentate, seppure in forme diverse.
Angelo Trabace: In realtà nel mio progetto solista non parlerei di sperimentazione in senso classico. Abbash per me è stato più un ritorno che un’andata. Un ritorno a casa, nel senso affettivo del termine. Il mio è un lavoro tonale, melodico, quasi terapeutico. Non ho voluto decostruire niente, semmai ricostruire un rapporto intimo col pianoforte. Inoltre ho lavorato con mio padre e mio fratello, quindi la musica è diventata uno spazio di famiglia, un tentativo di ricomposizione. Mentre Enrico, da quel che sento nel suo disco, usa la scrittura per spostarsi, per andare oltre, anche oltre sé stesso. E credo sia interessante il fatto che entrambi lavoriamo con la musica strumentale, ma in modi opposti: io per restare, lui per muoversi.

Enrico Gabrielli: Ho ascoltato Abbash con molta attenzione, e mi ha colpito. Ha qualcosa di raro: scorre da sé, ti accompagna, riesce a essere presente senza imporre una concentrazione ossessiva. È un disco che crea uno spazio attorno. Una cosa, però, mi ha fatto riflettere: il tema dell’emozione. Per me è ancora un mistero. Cos’è l’emozione in musica? È la partenza o l’arrivo? È la verità che il suono può rivelare o qualcosa che ciascuno di noi ci proietta dentro? C’è chi si emoziona con Luigi Nono, chi con i Genesis, coi Sigur Rós, anche con GG Allin. L’emozione non ha un linguaggio univoco, è un incontro imprevedibile. Tu, Angelo, come ti poni davanti a questo?

Trabace: Credo che per me l’emozione sia il punto di partenza. Abbash nasce da un’urgenza emotiva molto forte. È stato un lavoro di ricomposizione familiare, dopo un lutto. Il disco nasce anche da un bisogno di ritrovarsi, e il titolo allude proprio a questa discesa simbolica dentro le radici. Hillman scriveva che crescere è discendere, e io ho cercato una forma musicale per questa discesa. Abbash è come una stanza in cui ci si rifugia, in cui si cerca di abitare il silenzio «aggrappandosi alle note», come recitava il direttore nel celebre finale di Prova d’orchestra di Fellini: «Le note ci salvano!». A proposito di film del passato, io ed Enrico pur appartenendo a diverse generazioni abbiamo scoperto molte affinità. La passione per il cinema, per esempio – soprattutto per la commedia italiana – ci accomuna profondamente.

Angelo Trabace - ABBASH (Official Video)

Gabrielli: Io penso che l’imprinting che abbiamo ricevuto, anche da ragazzini, giochi un ruolo fondamentale. Con te e tuo fratello Alessandro ne abbiamo parlato spesso: Totò, Sordi, Verdone, Troisi… tutta quella commedia surreale, tra anni ’50 e ’80, ci ha formato. Mio padre lavorava a Roma negli anni ’60, in un centro di smistamento elettrico. Mi raccontava spesso di incontri con registi e tecnici. Lì respirava quell’atmosfera, e me la ha trasmessa. I miei nonni abitavano vicino al luogo della scena finale de I soliti ignoti. Quel mondo mi sembrava reale. Questa è una zona poetica comune, che non riesco a condividere con chiunque. Ma con voi sì. Durante il tour con Francesco Bianconi era un argomento ricorrente.

Trabace: Volevo anche mettere in evidenza la tua capacità di contenere molte identità musicali e affrontarle tutte con rigore e leggerezza insieme. È una qualità che ammiro. In un’epoca che ci obbliga a incasellarci in un solo genere musicale, tu riesci a essere molte cose allo stesso tempo, e questo senza mai perdere profondità. Per me, da bambino, l’artista era proprio chi riusciva a contenere moltitudini e a mettere insieme vari tipi di arte: qualcuno che faceva cose che non capivo subito, ma che mi costringevano a tornare ad ascoltarle. Tu appartieni a quella tradizione, che ormai è rara.

Enrico, ti riconosci in questa descrizione?
Gabrielli: Beh… sì, credo di avere una certa ipercinesia nel mio modo di lavorare. Mi butto in mille cose, ma poi riesco sempre a chiudere i cerchi, anche se con metodi tutti miei.

Angelo, prima parlavi di ricostruire un rapporto intimo col pianoforte.
Trabace: Sì, perché fino a un certo punto il rapporto è stato conflittuale. Dopo il diploma a 19 anni, mi sono allontanato. Mi sono iscritto a Lettere a Bologna, ho fatto altro. Per anni non ho più toccato lo strumento, se non per arrangiamenti o accompagnamenti. Poi, attraverso la composizione, ho cercato di ricostruire un legame nuovo. Il piano per me è come una prigione dalla quale posso evadere solo passandoci attraverso. E da lì nasce questo lavoro. Ma ora sento anche il bisogno di andare oltre. Di staccarmi, di cercare coralità, altri musicisti. Una scrittura più collettiva.

Gabrielli: Questo è fondamentale. Anche io vengo da un’educazione classica molto rigida. Ho studiato clarinetto, mi sono diplomato, ho frequentato il Conservatorio negli anni in cui c’erano ancora figure come Donatoni, Castiglioni, dei veri macigni. I miei maestri erano molto diversi tra loro: uno scriveva solo in modo tonale, con Poulenc come massimo riferimento. L’altro era più concettuale, parlava di transitori d’attacco, permutazioni, polarizzazioni. Io ero nel mezzo. E volevo essere un compositore puro. Uno come Francesco Filidei, oggi tra i nomi più importanti al mondo nell’ambito della contemporanea. Io volevo essere quello e non lo sono stato.

Trabace: In ogni caso con l’etichetta 19’40’’, che definisci anticlassica, hai avuto modo di divulgare e promuovere la musica d’arte. Io ho recuperato quel rapporto da autodidatta, ritrovando il pianoforte attraverso la composizione. Ma tu hai avuto la fortuna di incontrare grandi maestri lungo il tuo cammino. Però la tua scrittura conserva una vitalità che molti compositori contemporanei non hanno. Nei pezzi di Der Maurer 2 non c’è autoreferenzialità. È come se dietro ogni brano ci fosse un’architettura costruita da un bambino, ma la consapevolezza di un adulto. Hai una leggerezza profonda, e una libertà rara. A volte mi sembrava di sentire una banda che suona per le strade di un paese. Sarebbe bellissimo se scrivessi davvero per una banda, un giorno. Ma con il tuo approccio.

Gabrielli: Il tuo disco, invece, è fatto di mani. Si sente la fisicità, l’emozione. Io ho dato molto spazio alla razionalità, forse perché l’emotività l’ho messa altrove, in altri momenti. Ma tu l’hai sempre portata con te, anche quando suonavamo insieme con Bianconi. Hai un tocco fermo, ma vibrante. Riconosco nel tuo disco il legame con la tua terra, con le tue radici. Il brano dal titolo Abbash chiude il disco, e mi pare che simboleggia proprio una discesa, una conclusione.

Trabace: Sì, in quel brano ho cercato di costruire una variazione in fa minore che deragliasse dallo spartito. Alcuni brani del disco invece li avevo registrati un po’ di anni fa, e li guardo con tenerezza. Non mi vergogno della loro natura più romantica, ma rappresentano una parte di me che sto cercando di lasciarmi alle spalle. Con questo lavoro, e con quello precedente, inizio un percorso personale. Non sono un compositore, mi sento più un narratore che usa il pianoforte. Sto cercando di andare oltre la tonalità, ma non è facile. Ci provo, ma ci torno sempre.

Secondo voi oggi ha ancora senso parlare di musica contemporanea?
Gabrielli: La musica contemporanea, per come si è sviluppata nel Novecento, è stata – e in parte è ancora – una grande nevrosi storica. Una nevrosi soprattutto europea. Il punto è che quella musica nasce intrisa di ideologie forti, così forti da sovrastare spesso la resa stessa della musica, la sua fruizione. Prendiamo Luigi Nono: lui voleva scrivere per il proletariato, diceva. Ma era un ricchissimo borghese veneziano e alla fine non sapeva minimamente cosa fosse davvero il proletariato. Quando portava la sua musica nei contesti popolari, lo fischiavano. Lo massacravano, perché erano anni in cui le cose si dividevano in modo netto. La canzone leggera era considerata una forma ignobile. La musica da film? Solo un prodotto funzionale, quindi altrettanto indegna. Non a caso, molti compositori che lavoravano sia nel cinema che nella cosiddetta contemporanea usavano degli pseudonimi per firmare colonne sonore. C’erano dei veri e propri tabù. Era un periodo dominato ancora da strutture ideologiche rigide: il PCI, il post-fascismo, l’ombra della religione cattolica. Un tempo in cui esisteva il concetto di peccato. Ecco, oggi non viviamo più in un mondo di peccato, ma in un mondo di senso di colpa. Una frase che ho sentito recentemente alla radio e che mi sembra perfetta. Il senso di colpa ha preso il posto del peccato, soprattutto nelle società opulente come la nostra. E infatti oggi non ci sono più dogmi che ti dicono cosa puoi o non puoi fare, né partiti di massa che impongano un codice morale. Ma ci mettiamo comunque da soli dei limiti, dei paletti, delle regole. Ci autocensuriamo. È come se la natura umana, almeno quella dei Paesi ricchi, avesse bisogno di un meccanismo di contenimento. Per non perdersi del tutto. Tornando alla musica contemporanea, è nata in un contesto in cui i compositori volevano essere artisti puri, svincolati dal popolo, disinteressati alla resa popolare. Non cercavano il pubblico, anzi: lo rifuggivano. E ancora oggi, purtroppo, molti lavori di quel genere vivono solo all’interno di fondazioni o grazie a soldi pubblici. Non fanno i conti con la gente reale. Non si pongono la questione dell’ascolto condiviso. A volte capita anche a me di andare a qualche concerto di musica contemporanea. Entro e trovo due vecchietti e cinquanta posti vuoti. Eppure il concerto si fa. Perché? Perché è finanziato, coperto, garantito. Ma quello è un sistema che alla lunga si svuota. Perché manca il rischio. Manca il confronto con l’eventualità del fallimento. Io credo invece che la musica abbia bisogno, oggi più che mai, di tornare nel mondo del privato, dell’autenticità, persino del fallimento.

Fallimento?
Gabrielli: Sì, perché se il pubblico non ti viene più a sentire, sei costretto a cambiare. Sei costretto a riflettere su ciò che fai. Noi – parlo di me, di Angelo, di tanti altri – magari facciamo anche musiche che sfidano l’ascoltatore, certo. Ma sappiamo che c’è un pubblico da considerare, anche quando lo mettiamo in difficoltà. Invece in certi ambiti della musica contemporanea il pubblico è un elemento totalmente ignorato. Non interessa. Perché non è da lì che arriva il riconoscimento, né il plauso, né le commissioni, né il lavoro. È un sistema parallelo. Tu sei un compositore “puro”, vieni chiamato da un sovrintendente qualsiasi per scrivere un brano per un teatro qualsiasi, di cui magari neppure sai se verrà qualcuno a sentire. L’importante è che la macchina produttiva si muova. Ecco, a questo punto giro la domanda ad Angelo – e scusa se mi sono dilungato, ma ci tenevo a contestualizzare. Tu, Angelo, che rapporto hai con tutto questo? Hai fatto un disco bellissimo, profondamente emotivo, personale. Io ho fatto il mio, magari più razionale, magari più strutturale. Ma ecco: mentre lo facevi, tu il pubblico l’hai considerato? Ti sei posto il problema di chi ti avrebbe ascoltato? Oppure no? Perché io, a volte, ho la sensazione che il mio disco non abbia nessun senso. È un oggetto messo lì, in mezzo al nulla. Ma il tuo… il tuo ha senso. Tu come ti poni di fronte a questa cosa?

Trabace: No, sinceramente. Non era una mia priorità. Avevo totale libertà, e ho seguito il cuore. Però, come hai detto, abbiamo entrambi frequentato il mondo della canzone; quindi, certe dinamiche ci abitano anche inconsciamente. Ma non c’è stata una strategia. Il disco è come un diario, una stanza personale, lontano dalle logiche di mercato. Se poi riesce ad arrivare, tanto meglio.

Ti piacerebbe, come ha fatto Max Richter, allargare i confini della tonalità, restando in quell’ambito ma giocando con altri linguaggi?
Trabace: Assolutamente sì. Il piano è stato un punto di partenza, ma è stato anche una prigione, perché durante gli anni di studio mi ha isolato molto. A volte è un confidente, altre un mostro. Mi piace sperimentare staccandomi da quell’aspetto rassicurante e consolatorio e cercare nuovi suoni. Voglio superare la distanza tra musica e ascoltatore, quella che fa sembrare la musica colta qualcosa di morto e severo. La vera sfida è far parlare gli strumenti con una voce viva. E portare questa voce fuori dalle classifiche, fuori dai teatri aristocratici, nei luoghi dove possa essere ascoltata davvero.

Gabrielli: Io penso che ci sia bisogno di riportare la musica – tutta – nei luoghi piccoli. Di farla vivere in spazi accessibili. Dopo il Covid, invece, il sistema ha puntato tutto sui megaeventi. È stato un errore. Le piccole realtà sono state spazzate via.

Trabace: Già. Tornando al discorso di prima credo che oggi ci sia quasi un’ossessione nel chiedersi cosa vuole il pubblico. Ma chi è il pubblico oggi? È frammentato, instabile. Non sai più dove trovarlo. E allora molti artisti fanno musica per piacere, per compiacere. Ma così si perdono. Fanno qualcosa che non gli somiglia. E a un certo punto si guardano indietro e non si riconoscono. Io ho aspettato tanto prima di metterci la faccia. Prima dovevo zittire i miei critici interiori, i busti, i fantasmi. Mark Fisher nei suoi scritti già profetizzava lucidamente che «la depressione è il lato oscuro della cultura dell’autopromozione». Adesso sappiamo che bisogna fare musica per sé, in cui ci si riconosca. Altrimenti non ha senso.

Gabrielli: È per questo che Der Maurer 2 è pieno di salti, di colpi di scena. Volevo che fosse un invito a perdersi. È musica che racconta, ma senza dire cosa. Io voglio che chi ascolta costruisca da sé il significato. E credo che anche il tuo disco, Angelo, funzioni così: è una musica che accoglie, che ti invita dentro. Ma solo se ci entri davvero. Non è una musica da consumo.

Trabace: Credo sia necessario tornare a pensare alla musica come a un processo di scoperta.

Gabrielli: Ci vuole la pazienza di ascoltare, e di fallire.

Angelo Trabace - Rapsodia contadina (Official Video)

La musica senza testi forse ci costringe a immaginare di più. A costruirci un film personale. Allora vi chiedo: cosa resta, per voi, della possibilità di sperimentare oggi? In un mondo di streaming, algoritmi, dove tutto deve essere semplice e condivisibile?
Trabace: Io credo che il lavoro artistico debba essere innanzitutto una forma di ricerca interiore. E già per questo è sperimentale. Sperimento un altro da me, ogni volta. Il pianoforte continua ad essere la mia lente da cui ogni tanto prendo le distanze per aprirmi a nuove sonorità, a collaborazioni. Magari anche togliere di mezzo il piano. Ma per ora, ogni nota è una terapia, una forma di meditazione. Come diceva Marsilio Ficino, la musica è farmaco. Cura. E io, oggi, compongo per curarmi.

Gabrielli: Viviamo su un pianeta governato, in fondo, da tre vecchi di merda che decidono di fare la guerra solo perché sono… vecchi. C’è quello in Russia, quello in America, ora pure quello in Israele. Tre anziani potenti, tre uomini ormai senza prospettiva, che non si preoccupano più del futuro perché sanno di non farne parte. Hanno davanti dieci, quindici anni al massimo. E quindi che fanno? Pigiano pulsanti, si tolgono sfizi. È tutto lì. Non c’è una visione, solo l’inerzia di un potere che vuole consumarsi fino all’ultimo bottone. Aspettano solo l’occasione per sparare, per usare i missili conservati da cinquant’anni nei magazzini. Perché, diciamocelo, ce li abbiamo. E allora via: usiamoli, e poi ricompriamoli. Dalla nostra italianissima Leonardo, che ne vende altri, magari all’Egitto. È un ciclo assurdo e perverso. È questo il punto che volevo sottolineare. O tutto finisce male, oppure qualcosa prende un’altra piega. Forse siamo ancora nel mezzo. Forse siamo dentro un passaggio, una fase di transizione. Niente è stabile, niente è certo. Siamo a metà di questo decennio e qualcosa – forse – inizierà a chiarirsi entro la fine degli anni ’20. Se guardo alla musica degli ultimi cinque anni, vedo che tutto ruotava attorno alla urban music, alla trap, all’hip hop. Poi, improvvisamente, molti di quelli che facevano quella roba si sono messi giacca e cravatta e hanno iniziato a citare cantautori come modelli. In cinque anni, un cambio radicale. Allora mi chiedo: se improvvisamente tornasse al centro d’interesse una musica come quella che fa Angelo, musica suonata col pianoforte, dentro una stanza, che racconta una vita? Magari accadrà. Magari quella sarà la musica che, senza pretenderlo, parlerà più di ogni altra. Magari le grandi canzoni gonfiate, vuote, massificate non parleranno più a nessuno. Perché il futuro è incerto e in fondo tutto può succedere.

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