Gli Africa Express di Damon Albarn a Ostia: la recensione | Rolling Stone Italia
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Gli Africa Express di Damon Albarn a Ostia: un concerto politico, un rituale di possessione collettiva

La prima e unica data italiana ieri sera al Teatro Romano, un test di resistenza culturale, una messa pancontinentale. Niente Blur o Gorillaz: ci vuol talento anche per farsi da parte. La recensione

Gli Africa Express di Damon Albarn a Ostia: un concerto politico, un rituale di possessione collettiva

Gli Africa Express con Damon Albarn

Foto: Camila Jurado

Quando abbiamo saputo che quest’estate Africa Express – uno dei progetti musicali più anarchici e globali degli ultimi vent’anni – sarebbe passato dall’Ostia Antica Festival, per la sua prima e unica data italiana, abbiamo pensato a uno scherzo di ottimo gusto: tipo quei manifesti apocrifi che annunciano un tour mitteleuropeo di Mina e Celentano nei centri commerciali. Invece era tutto vero: Damon Albarn ha deciso di fare quello che nessun Cesare avrebbe mai osato: liberare 50 artisti da quattro continenti sul palco di un teatro romano del I secolo d.C. e dimostrare, senza bisogno dirlo, che l’Impero adesso è loro.

Così ieri sera, tra le colonne in rovina e i pini marittimi in grande forma, non abbiamo assistito a un concerto, ma a un test di resistenza culturale. Un’orgia di collaborazioni in grado di mescolare il kuduro con la cumbia, l’hip hop con la salsa, la spiritualità con il groove, le lingue con le urla, le urla con il ballo, il ballo con il fango e le ceneri dell’origine. È stata la versione performativa di una playlist compilata per sbaglio, ma che funzionava ovviamente meglio di molte di quelle che ci passa Spotify.

La scena d’apertura di per sé è stata un’immagine istantaneamente archetipica che non scorderemo mai. Un artista – il primo, il prescelto, di cui non ha senso fare il nome come non ha senso chiedere una scaletta di cotanta magmatica interpolazione tra talenti – entra in scena da solo, brandendo una frusta. Non una chitarra, non un microfono, non un gesto d’accoglienza: una frusta. La solleva lentamente, come se stesse evocando qualcosa di più antico del suono stesso, poi la fa schioccare con violenza nell’aria ferma (e stranamente fresca e ventosa) del teatro. Il colpo fende lo spazio come un atto fondativo, un taglio netto nel velo del tempo. E al suo gesto corrisponde un lampo: il primo occhio di bue s’accende nella direzione dello schiocco, sferzando il pubblico con una lama di luce che ferisce gli occhi dolcemente.

Costui ha riscritto il fiat lux biblico con quell’obliquità perfetta che separa il prima dal dopo, l’attesa dalla rivelazione. In quell’istante, il pubblico – ancora distratto, alla ricerca di un doppio cuscino per ammorbidire il marmo, ancorato all’idea che stia per iniziare un concerto – viene marchiato. Non è più uno spettatore: è parte dell’arena, bersaglio e testimone, corpo ricettivo su cui si sta per scrivere qualcosa. Come nei riti antichi in cui un colpo di bastone non era punizione, ma iniziazione. La frusta, d’altronde, è un simbolo potente. Strumento pastorale e arma cerimoniale, segno di dominio ma anche di ritmo, come sapevano bene i danzatori sacri delle culture dell’Africa occidentale. Nelle mani di quell’artista non è né sadica né folclorica: è metronomo del caos. È bastone di comando, certo, ma anche protesi magica, una bacchetta lunghissima e flessibile che non dirige un’orchestra, ma la sostituisce per intero.

L’occhio di bue non è un effetto luci: è lo sguardo del teatro che si rovescia verso di noi. È il riflettore che diventa occhio: un oculus dei, un faro inquisitore, un’iride artificiale che ti inchioda e ti dice: «Non ti salverai restando neutrale o perché sei riuscito a tornare alla macchina e prelevarne un giacchetto». È l’inizio perfetto di una cerimonia in cui ogni gesto contiene un segreto, ogni suono un antenato, ogni artista una storia che non si lascerà spiegare, ma solo sentire – a patto di farsi colpire.

Foto: Camila Jurado

Sul palco non c’è scenografia all’infuori degli strumenti (oltre ai suddetti pini e colonne), ma c’è più geografia che in un atlante De Agostini. È un caos millimetrico, una sinfonia disarticolata in cui c’è chi arriva dal Mali e chi da Camden Town, chi non ha ancora finito il liceo e chi ha già fatto due rivoluzioni sonore prima di colazione.

C’è Joan As Police Woman che cammina sul palco come se stesse attraversando una stanza dell’Accademia di Belle Arti di Vienna durante un terremoto emotivo: ogni nota che canta è una crepa precisa nella superficie delle cose, e il modo in cui tiene il microfono – inclinato, vulnerabile, ostinato – ricorda certe madonne manieriste che non pregano per te, ma ti guardano finché non ti arrendi. C’è Alansito Vega che si dimena come un giovane Pedro Infante sradicato da Città del Messico e reincarnato in un videogioco punk: la sua voce è una cicatrice che ride, e ogni passo sul palco sembra un taglio nell’asfalto della via Ostiense che ci ha condotto qui e della nostra identità. C’è Ophélia Hié che canta con la voce spessa delle griot burkinabé ma guarda il cielo come una Saffo del Sahel: nei suoi occhi c’è l’eco dei racconti che non ha ancora pronunciato, e nei suoi gesti la grammatica silenziosa di chi ha ballato col fuoco e ne è uscita decorata. C’è Baba Sissoko che percuote il tamani con la stessa calma con cui i vecchi di Bamako raccontano la storia del mondo e ogni colpo sembra una parola dettata a Dio che prende appunti in caps lock. C’è Seye Adelekan che sorride come se fosse sempre cinque minuti prima dell’alba a Lagos, ma suona il basso con la precisione di un orologiaio svizzero ubriaco d’amore: è l’unico che potrebbe fondere i Blur con Fela Kuti senza farlo sembrare un’idea forzata.

Ci sono ritmi africani o sudamericani che non sono mai esotici, ma semmai politici, carnali, roventi. C’è chi suona come se dovesse salvare la propria casa e chi canta come se la stesse costruendo lì, in diretta, mattone dopo mattone. C’è Damon Albarn che non è più né Blur né Gorillaz ma l’officiante di questa messa pancontinentale che ha riempito quasi tutta la cavea di Marco Agrippa (lo stesso del Pantheon): «I can see you’re a select group of people and that’s ok. Can I say: grazie?».

In Africa Express non c’è niente di nostalgico: è futuro che inciampa, esplode e si ricompone in tempo reale. È un vento che raddrizza le vecchie visioni del mondo. È un segno di domanda che si proietta sul paesaggio sonoro globale. Giacché in mezzo a quel turbine emergono crepe di infinito: accordi sospesi, vocalizzi che sembrano scritti su carta di riso, note che si insinuano tra le rovine dei un Impero per raccontare non cosa è stato, ma cosa potrebbe ancora diventare. A tratti, nell’affanno collettivo che unisce chi regge un djembé e chi una miccia elettronica, si percepisce un canto ancestrale, una forma di melodia preverbale, che parla ai confini dell’anima. È una sola frase dette mille volte, in altrettante lingue, ma sempre la stessa promessa muta: siamo vivi insieme.

Quando cala il buio, le ombre delle colonne si allungano come dita. Arrivano lampade, fari, micro-bolle di luce che danzano tra i suoni. Niente è illuminato a caso: la luce diventa poesia concreta, dipinge affreschi di polvere, ossa, pietra e corpi che respirano, si cercano, si accendono. Perfino quando due numeri di questa specie di Corrida con solo concorrenti plausibili, di questo piccolo Sanremo sotto forti dosi di qāt, si passano il testimone improvvisando un duetto, le voci non competono tra loro, non cercano di portare a casa la melodia dominante. Si avviluppano, si sfiorano, si interrogano. È un coro che non cerca compattezza, bensì una tensione condivisa. È musica come scrittura collettiva e complessa, con tanto di punti e virgola, incisi e digressioni, di una prosa ritmica che si compone in diretta, sotto i tuoi occhi e dentro le tue orecchie.

Foto: Camila Jurado

In questo scenario, la lirica non smentisce la provocazione politica: la srotola come un tappeto. Perché la vera rivoluzione per Africa Express non è la scena invasa, ma le brevi pause che la seguono, a intermittenza, tra un pezzo e l’altro, nelle quali possiamo ancora pensare un altro mondo. In mezzo a tutto questo, il teatro romano: come una cassa di risonanza che non giudica, ma amplifica. Non è più archeologia, è uno scheletro vivo, un’anfora sonora piena di gioia meticcia e, a tratti, quando proprio vogliamo esagerare, di futuro possibile.

Il Teatro Romano di Ostia non è solo un contenitore scenografico, è un amplificatore mnemonico. Ha visto tragedie e pantomime, ha ascoltato secoli di silenzi e rimodulato ogni volta il suono del tempo. E stasera, quando le prime vibrazioni cominciano a tremare sotto le pietre, non si limita a ospitare: risponde. È come se riconoscesse qualcosa – un ritmo, un accento, una frequenza profonda che non appartiene alla musica ma alla specie – e decidesse di collaborare. Non restituisce solo l’eco del suono: lo nobilita, lo scolpisce, lo rende tridimensionale. Le percussioni rimbalzano come se avessero trovato casa, i cori attraversano le colonne con una sicurezza che viene da millenni di pratica acustica. Non c’è bisogno di microfoni quando è l’architettura a cantare con te. E se ascolti bene – ma davvero bene – puoi sentire che l’anfiteatro non è indifferente: partecipa. Ha i suoi gusti, le sue simpatie. Ama i groove sincopati, disprezza l’intonazione forzata, adora le lingue madri. E soprattutto, ha memoria. Ricorda l’Africa molto più di quanto l’Europa voglia ammettere. Ricorda i tamburi, i canti, i traffici, le partenze sul Tevere. Ricorda persino ciò che non ha mai ospitato, come se l’assenza avesse lasciato comunque una traccia. Ecco perché quando Africa Express parte davvero – quando smette di essere una scaletta estemporanea e diventa una possessione collettiva – il teatro non è solo lo sfondo: è il medium. E tu, che fino a un attimo prima credevi di star guardando un concerto postcoloniale benintenzionato, ti ritrovi dentro una cassa toracica di pietra che vibra con te, per te, contro di te.

Africa Express è, nel profondo, una crisi diplomatica travestita da festa. Non tanto perché rimescola le carte geopolitiche del suono – quello è l’effetto collaterale – ma perché insinua un sospetto radicale: e se la musica non fosse solo intrattenimento, o resistenza, o linguaggio universale, ma uno strumento di redistribuzione reale del potere? Non è un caso se la cosa più rivoluzionaria che fa Damon Albarn non è cantare, ma tacere. Mette il suo nome sull’insegna e poi sparisce nel groviglio: lascia spazio, lascia scena, lascia voce. In un mondo culturale ancora disperatamente legato all’autorialità come forma di controllo, Africa Express agisce come una molecola anarchica: destruttura il concetto stesso di proprietà artistica. Il brano non è più “di” qualcuno, ma “attraverso” qualcuno. E così anche l’identità, che smette di essere una maglietta da indossare e diventa una corrente elettrica da attraversare.

 

 
 
 
 
 
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Africa Express è un colpo basso all’industria discografica e ai suoi modelli monoteisti o fintamente sincretisti: la voce solista, il featuring ben piazzato, il remix col consenso. Qui tutto è moltiplicato, sghembo, imperfetto, incontrollabile. Non si tratta di “dare spazio” a voci marginali, ma di mettere in discussione l’idea stessa di centro. Il centro non c’è più, non interessa più. Esiste solo un cerchio in continuo movimento, una centrifuga di ritmi, lingue, armonie, in cui il privilegio è solo quello di partecipare.

Politicamente, Africa Express fa una cosa che la politica non riesce più a fare: mette insieme persone che non si somigliano e le fa lavorare insieme senza bisogno di una narrativa condivisa. Non cerca di costruire un’identità comune: la moltiplica. Non crea una nuova patria: crea uno spazio transitorio, un accampamento temporaneo di possibilità sonore e umane. E lo fa nei luoghi più improbabili, con le modalità meno spendibili. Non ha bisogno di un mercato, perché funziona come un virus: si propaga per prossimità, per contatto, per vibrazione.

In fondo, il gesto più politico di Africa Express è anche il più semplice: rifiutare la categoria dell’altro. Qui non c’è world music da etichettare, né folklore da impacchettare. C’è il mondo, punto. Ed è un mondo in cui il Sud globale non viene invitato a partecipare: arriva, prende il microfono, si siede dove vuole.

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