Trump, le tasse sui film stranieri e l’ossessione per il prodotto a chilometro zero | Rolling Stone Italia
Farmers’ market

Trump, le tasse sui film stranieri e l’ossessione per il prodotto a chilometro zero

Il Presidente vuole aumentare i dazi sulle produzioni non “made in Hollywood” del 100%. Colpendo non solo l’immaginario, ma anche l’economia

Trump, le tasse sui film stranieri e l’ossessione per il prodotto a chilometro zero

Foto: Pau Casals/Unsplash

Dopo un weekend da papa (con l’AI), Trump inizia la settimana da cinematografaro: dev’essere diventato romano tutto d’un colpo. Dice che d’ora in avanti ai film prodotti o girati fuori dai confini statunitensi saranno applicati dazi al 100%, perché “l’industria cinematografica americana sta morendo molto velocemente”, ha scritto su Truth.

“Altri Paesi stanno offrendo ogni sorta di incentivi per allontanare i nostri registi e studi cinematografici dagli Stati Uniti”, aggiunge, aprendo uno scenario che neanche The Studio di Seth Rogen potrebbe immaginare (o forse sì: mancano ancora tre episodi alla fine della prima stagione). Mi lamentavo l’altro giorno, mentre recuperavo l’ultima puntata disponibile, che quella satira hollywoodiana non è quello che forse vorrebbe essere, perché alla forma elegante e smagliante corrisponde una scrittura un po’ troppo sciocchina; e poi arriva la cronaca politica (molte virgolette) a dar ragione anche alle puntate coi copioni più scarsi.

“Hollywood e molte altre zone degli Stati Uniti sono devastate”, continua Trump in versione produttore di Vita da Carlo. “Si tratta di uno sforzo concertato da parte di altre nazioni” – il complotto delle Film Commission! – “e, pertanto, di una minaccia per la sicurezza nazionale. Si tratta, oltre a tutto il resto, di messaggio e propaganda! Pertanto, autorizzo il Dipartimento del Commercio e il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ad avviare immediatamente il processo di istituzione di una tariffa del 100% su tutti i film in arrivo nel nostro Paese e prodotti in territori stranieri. VOGLIAMO CHE I FILM SI FACCIANO DI NUOVO IN AMERICA!”.

È l’ossessione del latte 100% italiano (e tutto 100% italiano) che abbiamo da queste parti, e che ora arriva al cinema americano. È un’ossessione in realtà presente da tempo. In The Offer, satira hollywoodiana più riuscita sulla tribolatissima lavorazione del Padrino, Francis Ford Coppola vuole a tutti i costi andare in Sicilia a girare le scene del matrimonio di Michael e Apollonia. Gli Studios dicono che costa troppo, deve arrangiarsi e ricostruire Corleone nel deserto californiano. Vincerà lui, e Il padrino anche per questo diventerà “il più grande film americano mai realizzato” (l’ha detto Spielberg l’altro giorno, consegnando a Coppola il premio alla carriera dell’American Film Institute).

Abbiamo tutti l’ossessione per il prodotto locale, partita dai boho-chic di sinistra dei farmers’ market e allargatasi a macchia d’olio (olio a chilometro zero, si capisce) a tutti i settori. C’è un amico mio che su Instagram condivide tutti i localismi della stampa locale (pardon), ma molto spesso anche nazionale. Quei “c’è un po’ di Italia” (o di Lombardia, o di Cernusco sul Naviglio) in, che so, il campionato dell’NBA che, evidentemente, rassicurano i lettori: se la palla da basket l’hanno prodotta nella ditta dietro casa mia, allora è meglio, ha più valore. Ma se la palla da basket da domani verrà tassata, come la mettiamo?

Quello che Trump non sa – o non vuole sapere – è che l’industria del cinema americano (e di tutti i cinema locali occidentali) è già morta da un pezzo, e una mossa del genere è il colpo di grazia definitivo. Non solo per questioni di immaginario: Variety si chiede correttamente se il nuovo James Bond, passato a livello produttivo all’americana Amazon, non potrà più, per via delle fregole “bio” trumpiane, sfruttare finanziamenti o location straniere, ma – dico io – usare come scacchiere geopolitico solo una mappa che va da Austin a Baltimora (e di sicuro Trump avrebbe qualcosa da dire anche sull’origine delle Bond girl).

È anche una questione di sostenibilità economica. Per dire: la vittoria di Parasite agli Oscar è l’esempio più evidente e schiacciante della creazione più o meno consapevole, negli ultimi anni, di un cinema mainstream sempre più “decentralizzato”, mossa che in qualche modo ha favorito il cinema d’autore “di casa”, il ritorno a una natura indipendente, globale, aperta (se non si vuol morire). E non starò qui a recitarvi ora la poesiola secondo cui il cinema è sempre stato una lingua universale.

Trump ha già nominato qualche tempo fa degli ambassador a sostegno della causa del cinema americano nel mondo (Sylvester Stallone, Mel Gibson, Jon Voight: e no, anche questa non è una puntata di The Studio). Vediamo cosa succederà adesso, intanto l’importante è che nessuno dica al Presidente con la tiara digitale che in Italia tutti vogliono un papa 100% italiano – o anche solo che il Conclave cinematografico è stato girato da un tedesco a Roma, prima di sbancare ai premi e ai botteghini (anche) americani.

Altre notizie su:  donald trump