«Loro ci odiano». Viaggio nel Texas pro–vita e antiabortista | Rolling Stone Italia
Diritti

«Loro ci odiano». Viaggio nel Texas pro–vita e antiabortista

Siamo stati a Houston per intervistare Nick, un attivista pro–choice, e farci raccontare la realtà dell'America dopo il ribaltamento delle Roe vs Wade e la fine della protezione federale del diritto all'aborto

«Loro ci odiano». Viaggio nel Texas pro–vita e antiabortista

Le attiviste pro-aborto Carrie McDonald e Soraya Bata reagiscono alla decisione della Corte Suprema, che ha ribaltato i principi della sentenza 'Roe v. Wade'. Foto di Anna Moneymaker/Getty Images

Il 24 giugno 2022 la vita di moltissime cittadine americane è cambiata. La Corte Suprema ha ribaltato la sentenza Roe v. Wade – il caso che, nel sistema giuridico statunitense, faceva giurisprudenza sul tema dell’aborto. Abortire non è quindi più un diritto garantito sul suolo americano. Tra le persone la cui vita è stata sconvolta dalla sentenza della Corte, c’è Nick.

Nick ha 30 anni, è nato in una cittadina dell’Indiana ed è una persona transessuale. Quando biologicamente è ancora una donna, Nick resta incinta. La sua situazione economica non gli permetterebbe di mantenere il bambino, per cui decide di abortire. Da qui in poi la vita di Nick diventa parte della complessa storia dell’accesso all’aborto negli Stati Uniti, un frammento individuale di una storia collettiva.

Incontro Nick a casa sua, a Houston. È una mattina piovosa di fine agosto, una classica giornata di quel periodo dell’anno che i texani chiamano “hurricane season”. Mentre guido sulle autostrade sopraelevate che dominano il paesaggio di Houston, cerco di immaginare la storia che sto per andare ad ascoltare. Quando ci si avvicina a vite apparentemente così lontane dalla propria penso sia difficile non farsi aspettative. Arrivato all’indirizzo giusto, dopo circa mezz’ora di tragitto, vengo accolto da Nick all’ingresso del complesso residenziale dove vive. Nick mi porta al suo appartamento e mi presenta sua moglie, con cui convive da qualche anno insieme ad un gatto di nome Luna. Mi fanno accomodare sul divano e mi offrono un caffè. Dopo qualche minuto di chiacchiere sul meteo e sul viaggio che mi ha portato a stare lì seduto su quel divano, Nick entra nel vivo e mi racconta la sua storia.

Nato e cresciuto in Indiana, Nick decide di trasferirsi in Texas nel 2014. Lo fa per collaborare alla campagna elettorale della candidata democratica Wendy Davis. L’impegno politico lo avvicina alle istanze della comunità LGBT+ di Houston. Dopo alcuni anni sceglie di intraprendere il percorso di transizione per il cambio del sesso. Nel 2017, in una fase in cui dal punto di vista biologico è ancora una donna, resta incinta. La decisione di abortire arriva dopo poche esitazioni. Nel momento in cui prende questa scelta non è però al corrente della procedura burocratica a cui dovrà sottoporsi. Nick mi spiega che negli Stati Uniti per abortire è necessario recarsi in cliniche specializzate, gli ospedali ordinari non svolgono questo servizio.

Nel 2017 la legislazione texana prevede che la persona incinta debba in primo luogo sottoporsi ad una diagnosi prenatale attraverso ultrasuoni. Al termine di questa il paziente dovrà ascoltare una “descrizione dettagliata del feto richiesta dallo Stato”. Dopo l’incontro preliminare la persona incinta viene rimandata a casa e ha ventiquattro ore per confermare o revocare la propria richiesta. Se il paziente decide di procedere all’aborto, in Texas il medico è obbligato a leggergli un documento che elenca le possibili conseguenze sanitarie che questo potrebbe comportare. Tra le eventuali ripercussioni figurano patologie che la comunità scientifica esclude possano essere connesse all’interruzione di una gravidanza.

Nick svolge tutti i passaggi burocratici richiesti ed è pronto a portare a termine l’aborto. Il giorno del suo ingresso in clinica i manifestanti pro-life che pattugliano l’istituto lo aggrediscono verbalmente. Nick accelera il passo mentre gli infermieri escono in suo aiuto. Entrato nella hall dell’ospedale, Nick è piegato sulle ginocchia. Quando alza lo sguardo vede i manifestanti inferociti dall’altra parte del vetro, gli urlano «assassino».

«È stato umiliante», mi dice Nick. La descrizione del feto, le ventiquattro ore per ripensarci, il documento intimidatorio e infine gli insulti: tutto un sistema costruito per alimentare il senso di colpa di chi ha preso la più privata delle scelte. Nick ha vissuto tutto questo da persona transessuale subendo anche la retorica secondo cui la gravidanza rappresenti il momento culminante della femminilità.

L’esperienza dell’aborto è uno spartiacque nella storia personale di Nick. La durezza di quell’evento lo convince a dedicare la propria vita professionale e non solo all’aborto. Mette a disposizione le proprie abilità da informatico per una fondo che si occupa di coprire le spese mediche di coloro che non si possono permettere economicamente di interrompere la gravidanza. Inoltre Nick entra a far parte di We Testify, un gruppo di attivisti che si occupa di divulgare le storie di coloro che hanno vissuto in prima persona l’aborto.

In questi cinque anni Nick si è quindi impegnato a garantire supporto materiale e sostegno morale a chi ne ha bisogno. Ma in questo lasso di tempo tante cose sono cambiate. Il Texas dopo il quadriennio trumpiano è più che mai una polveriera. Le grandi città sono passate quasi tutte in mano ai Democratici, mentre nei piccoli centri e in campagna la retorica conservatrice si è radicalizzata. La crescita incontrollata delle metropoli va di pari passo con la staticità del mondo agricolo. È in questo conflitto che il tema dei diritti torna ad essere di attualità.

Nick mi racconta come la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca abbia garantito copertura istituzionale al sistema politico texano, il quale ha potuto muoversi con maggiore libertà ed efficacia. Ma il connubio tra classe dirigente repubblicana, giudici conservatori e movimento cristiano è assai più antico. Lo stesso trattamento subito da Nick è frutto di una serie di leggi statali che nel decennio 2006-2016 hanno permesso di far calare il numero di aborti del 33%. Secondo Nick – e non solo – l’offensiva più radicale parte dal 2017.

In quell’anno il governo texano vieta agli assicuratori di inserire la copertura dell’aborto nei piani sanitari, costringendo le persone che vogliano essere coperte a sottoscrivere una assicurazione specifica per le interruzioni di gravidanza. Nel 2019 arriva il divieto alle municipalità locali e agli enti pubblici di intrattenere ogni forma di rapporto economico con le cliniche che si occupino di aborto. Nel settembre del 2021 viene approvato il Texas Heartbeat Act. Questa legge impedisce alle cliniche di portare a termine un aborto dopo l’inizio delle attività cardiache del feto. Tipicamente ciò avviene a sei settimane dal concepimento – un lasso di tempo in cui spesso la persona incinta non è nemmeno ancora a conoscenza di esserlo.

Inoltre la legge prevede potenziali ricompense fino a diecimila dollari per ogni privato cittadino che citi in giudizio chiunque aiuti una persona ad abortire oltre il limite stabilito. Ad essere perseguibili non sono solo i medici ma anche coloro che si occupano del sostegno economico e psicologico alle persone incinte. Le sanzioni in caso di colpevolezza sono amministrative e non ricadono nel penale – questo proprio per non entrare in conflitto con la Roe v. Wade. I dati aggiornati relativi al quadrimestre settembre-dicembre 2021 mostrano un calo degli aborti del 46% rispetto all’anno precedente. In crescita esponenziale sono state invece le interruzioni di gravidanza fai da te – una pratica pericolosa che prevede l’acquisto illegale online di medicinali dall’estero senza nessun controllo sanitario – e l’emigrazione in altri stati dove questo diritto è garantito.

Nick mi spiega come l’impegno degli attivisti sia quindi aumentato nell’ultimo anno soprattutto per quanto riguarda la raccolta di fondi per permettere alle persone incinte di andare ad abortire in altri stati. I costi da coprire per le associazioni sono molto alti. Il maggior numero di aborti avviene nelle fasce più povere della società dove l’assicurazione sanitaria rappresenta un lusso che in pochi si possono permettere. Per gli attivisti ciò vuol dire coprire il costo sia del trasporto che dell’operazione. Il tutto in una situazione di incertezza sul piano legale. La maggioranza degli aborti avviene infatti tra l’undicesima e la quattordicesima settimana di gravidanza – ben al di là dei limiti imposti dalla legge texana. Le associazioni si sono quindi dovute tutelare stipulando accordi con studi legali che hanno preso a cuore la causa pro-choice.

Il Texas non è purtroppo l’unico stato ad aver limitato l’aborto negli ultimi anni. Una legge paradossalmente meno restrittiva di quella texana è stata infatti approvata dal parlamento del Mississippi nel 2018. La normativa avrebbe previsto il divieto di aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. L’opposizione dei tribunali di grado inferiore, secondo cui la legge statale avrebbe violato il quattordicesimo emendamento della costituzione, ha portato la contesa nelle mani Corte Suprema degli Stati Uniti.

La nomina di Amy Barrett alla Corte – ultimo atto del quadriennio di Trump alla Casa Bianca – ha però ormai spostato l’ago della bilancia delle decisioni del più alto organo giuridico americano quanto mai a destra. Il 24 giugno 2022 è quindi arrivata la sentenza: «il diritto all’aborto non può essere considerato coperto dalla Costituzione americana». Da quel momento ogni stato ha avuto la possibilità di legiferare liberamente sul tema.

Nick mi racconta come in Texas il parlamento si fosse già portato avanti approvando il disegno di legge soprannominato “Trigger Ban”. Questo sarebbe potuto entrare in vigore solo nel caso in cui la Corte Suprema avesse ribaltato la Roe v. Wade. La legge rende totalmente illegale abortire in Texas. Può essere perseguito penalmente chiunque esegua, induca o tenti di abortire durante tutte le fasi della gravidanza. Non ci sono eccezioni per stupro o incesto. Questa legge è entrata in vigore il 25 agosto. Durante l’estate il vuoto normativo dovuto ai tempi legali di approvazione del “Trigger Ban” è stato coperto dalla Corte Suprema texana attraverso una legge del 1925 che puniva l’aborto con una pena tra i due e i dodici anni di carcere.

Nick spiega che, con il ribaltamento di Roe v. Wade, in Texas le cliniche, le associazioni, i fondi hanno dovuto chiudere. Le app per il controllo del ciclo mestruale si sono affrettate a dichiarare che in caso di richiesta di un tribunale queste sono obbligate a fornire i dati dei consumatori. Alcune persone incinte si stanno recando in Messico per abortire illegalmente a costi ridotti mentre la pratica dell’acquisto online di medicinali per interrompere la gravidanza sta aumentando senza sosta. Medici e infermieri specializzati hanno dovuto abbandonare lo stato. Tutto un settore economico che lavorava nel supporto alle persone che desiderino abortire si è trovato allo sbando. Nick, insieme a tanti altri come lui, è costretto a spostarsi per non perdere il lavoro. Mi racconta di volersi traferire in Massachusetts, un cambio di vita radicale per chi ha sempre vissuto tra il mid-west e il sud degli Stati Uniti. Quando si parla di prospettive future lo sguardo di Nick si fa cupo. La sua impressione è che la radicalizzazione dell’elettorato conservatore sia ormai giunta ad un punto di non ritorno. «Loro ci odiano, odiano talmente tanto i liberal che qualsiasi proposta dell’establishment repubblicano, anche la più estrema, viene accettata», mi racconta Nick. I sondaggi dimostrano infatti che la maggioranza della popolazione texana non è favorevole al divieto totale di abortire. Eppure il sostegno al partito repubblicano non cala. Dall’altra parte non sembra che la pacificazione nazionale proposta da Biden stia avendo alcun effetto. Ormai anche il più anonimo, il più innocuo dei democratici, agli occhi dell’elettorato conservatore resta pur sempre un nemico.

Al termine della lunga chiacchierata con Nick ho più domande in testa di quante ne avessi prima di arrivare. Speravo di uscire da quell’incontro rassicurato dalle granitiche sicurezze di un attivista locale. E invece no, per fortuna Nick non mi ha permesso di voltare le spalle, di fare un sospiro e di pensare che tutto, in qualche modo, andrà a finire bene. Eppure nel vissuto di Nick c’è un irriducibile messaggio di speranza. Una speranza che, dopo tutto, non mi fa sentire sconfitto.