L’economia di Spotify spiegata con Tarzan | Rolling Stone Italia
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L’economia di Spotify spiegata con Tarzan

L’ex chief economist della piattaforma racconta le nuove regole del gioco imposte dalla musica digitale. Per sfruttare la disruption e non subirla tocca passare da una liana all'altra, come il re della giungla

L’economia di Spotify spiegata con Tarzan

La copertina di 'Tarzan Economics'

Un giorno, quando aveva 11 anni, Will Page era in spiaggia col padre. Voleva sapere che cos’è l’economia. Il padre, insegnante di matematica, aveva indicato l’acqua e chiesto al figlio che cosa poteva fare un politico per ridurre la mortalità per annegamento dei bambini. «Potrebbe rendere obbligatorie le lezioni di nuoto», aveva risposto Page. «Se i bambini imparano a stare a galla, nessuno annega più».

«Chi non sa nuotare di solito va al mare?», gli aveva chiesto il padre. «La tua politica porterà a un aumento o a una diminuzione del numero di bambini in acqua? E se una certa percentuale di bambini che nuotano finisce per affogare, allora…». Allora ne affogheranno di più, aveva capito Page. La sua proposta, seppur intuitiva, avrebbe esacerbato il problema. Al contrario, disegnare sistemi di allarme per le maree pericolose lo avrebbe risolto.

Quella è stata la prima di lezione ricevuta da Page di quello che chiama pivotal thinking e che è uno degli otto principi contenuti in Tarzan Economics, il suo trattato sull’economia nell’era digitale. L’autore, che l’ha scritto dopo aver lavorato vent’anni per Spotify e per PRS, ente britannico che si occupa di diritto d’autore, ne ha parlato con Rolling Stone.

Quando hai iniziato a pensare al libro? 

Ho iniziato a immaginare un piano B quando Spotify è stato quotato in borsa (nel 2018, ndr). Ho sempre avuto la passione per l’insegnamento dell’economia, soprattutto a chi è convinto di non capirla, e l’ambizione di farlo su una certa scala. Ho usato la storia della spiaggia in tantissime presentazioni di Spotify – quando si assumevano 200 o 300 persone ogni quadrimestre – per aiutare le persone a pensare in termini economici. È un esempio semplice che fa capire come le migliori intenzioni possono portare a pessimi risultati. Credo che i primi dieci anni del periodo digitale della musica – l’era della disruption – siano pieni di storie simili.

Tarzan Economics parla molto del momento-Napster nel 1999 e sostiene che l’industria discografica deve lavorare con la disruption, non combatterla. Oggi il settore sta vivendo un altro momento simile?
Sono convinto che le etichette abbiano vinto la guerra alla pirateria solo nel momento in cui hanno smesso di combatterla. Attaccare chi rubava non risolveva il problema, pensare di dare una bella lezione era semplicistico. Quando ho incontrato Daniel Ek, nel 2007, eravamo entrambi convinti che, perché la gente ci seguisse, dovevamo offrire qualcosa di meglio del download pirata.

Le etichette discografiche hanno passato dieci anni a cercare di risolvere la pirateria, poi altri dieci ad abbandonare la liana del vecchio mercato e appendersi a unn nuova liana, cioè lo streaming. È una lezione da cui tutti dovrebbero imparare qualcosa. Ora, grazie al Covid, tutti stanno vivendo un momento-Napster.

La cosa che mi ha colpito di più di recente è l’adozione da parte dei musicisti del modello DIY. L’anno scorso, le etichette hanno pubblicato 1,2 milioni di canzoni, gli artisti DIY 9,5 milioni. È un cambiamento che sta avvenendo anche nel cinema, nella tv, in tutti i media. È difficile capire quando il fenomeno si fermerà: ci sono più soldi, ma anche più bocche da sfamare.

C’è poi il dilemma dell’effetto-cascata: i servizi di streaming hanno pompato miliardi di dollari nel mercato, ma quanto si intascano gli intermediari e quanto arriva agli artisti? Quando le barriere d’ingresso crollano, l’offerta supera la domanda. È questa una delle lezioni che ho imparato.

Quando sei entrato in Spotify, da dove sei partito?
Nel 2007 girava tutto intorno al ricavo medio per utente. Nel Regno Unito girava molto una definizione: l’uomo da 50 sterline. Si riferiva a chi spendeva 50 sterline al mese per la musica. L’industria si aggrappava a questa liana, a chi comprava i CD e copie fisiche. Il punto critico, però, era che le vendite di CD crollavano e il numero di consumatori che non spendevano zero sterline in musica era in costante aumento. La sfida non era monetizzare l’uomo da 50 sterline, ma trasformare quegli zero in uno.

Pensi che ci siano altre vecchie pratiche da ribaltare? Per esempio, l’uso dei dati: l’industria ha bisogno di studiarli in maniera più sofisticata? 

È necessario un cambiamento nel linguaggio. Prima di tutto, nel 2021 diciamo ancora che un artista ha fatto uscire un disco. Ma uscire dove? E per quale magia ci guadagnerà qualcosa? Il linguaggio deve adeguarsi alla tecnologia. E la musica è stato il primo settore ad abbracciare il concetto di consumo al posto di acquisto.

Nel 2013 si studiavano festival, streaming e social media. L’aspetto interessante, oggi, è un altro: con l’esplosione di TikTok, Snapchat e Twitch, dove inizia la carriera di un musicista? Qual è l’ordine degli eventi? Si parte con TikTok, poi lo streaming, poi il vinile, poi le vendite e poi la radio? Tutte le figure coinvolte nella catena devono capire dove puntare. L’anatomia di una hit è in costante mutamento. Quello che ha fatto TikTok negli ultimi sei mesi ha riscritto ancora una volta le regole. Se è TikTok il posto dove il pubblico scopre gli artisti, allora Spotify arriva in un secondo momento.

Negli ultimi anni sono moltissimi quelli che chiedono a Spotify di pagare gli artisti per ogni singolo stream. Credi che questo movimento d’opinione porterà a qualcosa? 

Mi piace questo dibattito perché ha a che fare con l’equa distribuzione, un concetto a lungo dimenticato dall’economia. Viene da tre matematici polacchi, che seduti in un bar si sono chiesti quale fosse il modo migliore per dividere una torta. Per esempio: io taglio le fette e tu scegli. È un metodo brillante per assicurarsi che la divisione sia equa, ma cosa succede se interviene una terza persona? Insomma, questo tema ha a che fare con teorie economiche su come dividere un quota fissa di denaro.

Se vuoi che il tuo modello di streaming sia basato sugli utenti, devi considerare i benefici ma anche i costi per gli utenti. Meglio un sistema di distribuzione di remunerazione proporzionale o uno inccentrato sugli ascolti dei singoli utenti? E c’è un altro tema, cioè la volatilità del valore degli stream: al momento tutti gli stream valgono la stessa cifra, ma cosa succederebbe se quelli di un artista valessero 4 dollari e quelli di un altro 0,13? Cosa succederebbe se il nuovo modello garantisse a Drake una fetta della torta ancora maggiore? Tornando alla storia della spiaggia, le conseguenze inaspettate sono sempre dietro l’angolo.

Nel frattempo, siti di gaming come Twitch hanno lanciato piattaforme centrate sugli utenti e c’è tanto da imparare. Credo che Spotify, Apple e Amazon siano disposte a fare qualcosa di simile. E credo che il parlamento britannico possa chiedere di effettuare un esperimento di massa in questo senso. Non sappiamo se questo cambierà le cose, ma sicuramente sarà interessante capire come cambierà la percezione del pubblico del concetto di divisione equa.

Nel libro parli spesso di chi si muove passando da una liana all’altra. Tra le industrie che lo fanno, quali ti hanno colpito di più? 

Se pago Netflix, probabilmente sono disposto a farlo anche per Disney+ e Amazon Prime. Per avere 60 milioni di canzoni, invece, mi bastano i 9,99 euro di Spotify e niente di più. E quella cifra è uguale dal 2002. Anche il settore dello streaming video ha vissuto un momento-Tarzan, ma a differenza della musica riesce a far pagare gli utenti 40 o 60 dollari al mese. Sono riusciti ad aiutarsi a vicenda, facendo crescere il ricavo per utente.

Saltando sulla nuova liana, Netflix ha anche sollevato un tema che molti ignorano: se passo tutto il mio tempo sulla piattaforma, allora non guardo più le pubblicità. Se Netflix diventa più importante, si prende più attenzione e monopolizza il nostro tempo. Le ore che passo su Netflix sono intoccabili da tutti: Spotify, Apple, Universal, Taylor Swift. Netflix vince e tutti gli altri perdono.

Dall’altra parte, Tarzan Economics è molto critico verso il giornalismo, un esempio perfetto di industria ancora appesa a una vecchia liana.
I giornalisti ridevano dell’industria discografica, dicevano che saremmo morti. All’epoca avevano ragione. Poi la musica ha iniziato a cambiare e i management dei giornali mi invitavano a spiegare come avevamo fatto, perché il mondo dell’informazione si era ritrovato di fronte allo stesso abisso. Nel settore ci sono ancora tantissimi aspetti sbilanciati: il costo di distribuzione dei giornali, il linguaggio, la natura stessa dell’industria.

Al pubblico interessa davvero se un artista lavora per Universal, Warner o Sony? No. Spotify ha reso tutta quella musica accessibile indipendentemente da chi possiede i diritti. Credo che l’informazione possa imparare qualcosa dalla soluzione collettiva di Spotify, cioè creare una piattaforma dove fruire di tutti i contenuti. Apple News è un’idea, oppure si potrebbero fare piattaforme più specializzate come The Athletic.

Sono convinto che i consumatori oggi siano disposti a pagare sia per fare un buon affare, sia per concedersi un lusso – i 10 dollari dello streaming e i 25 di un vinile che magari non metteranno mai sul piatto – ma non per una via di mezzo. Nell’industria aerea le compagnie low cost e quelle di lusso vanno alla grande, mentre quelle a metà strada soffrono. È una sfida interessante. Nessuno l’aveva previsto, è del tutto irrazionale, ma il vinile ha recuperato grazie allo streaming e chi li compra, i consumatori che diciamo così si concedono un lusso, spendono comunque 120 dollari all’anno per accedere alle piattaforme, e fare un buon affare.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.