'Blue', la recensione originale del capolavoro di Joni Mitchell | Rolling Stone Italia
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‘Blue’, la recensione originale del capolavoro di Joni Mitchell


Il 22 giugno 1971 la cantautrice pubblicava il suo album più rappresentativo. Ecco come ne scriveva all'epoca Rolling Stone: «Nel ritrarsi senza filtri, Joni Mitchell rischia il ridicolo e invece raggiunge il sublime»

‘Blue’, la recensione originale del capolavoro di Joni Mitchell

Joni Mitchell

Foto: Gijsbert Hanekroot/Redferns

È passato un anno e mezzo dall’ultima volta che ho visto suonare Joni Mitchell. Il concerto era alla Symphony Hall di Boston, una delle ultime apparizioni prima che si ritirasse dalla musica dal vivo. Fragile, divertita e timida, era la cantante professionista più nervosa che avessi mai visto su un palco. La sua voce da soprano si spezzava per colpa dell’ansia e i suoi occhi spaventati si rifiutavano di incrociare quelli del pubblico. Si è rilassata e ha iniziato a divertirsi solo nella seconda metà del concerto, ma era chiaro a tutti che avrebbe preferito un pubblico ridotto, magari raccolto attorno a un fuoco.

La voce di Joni Mitchell, il suo modo di scrivere, la sua presenza trasmettono una sensazione di vulnerabilità che in pochi hanno espresso nel business della musica. In For Free, una canzone che parla di scrivere canzoni, dichiara di cantare per la fortuna e il sipario. Ma a quel sipario ha rinunciato da un po’ e le sue canzoni, come quelle di James Taylor, sono diventate commerciali per puro caso. Il suo obiettivo è trasformare momenti di dolore e piacere in qualcosa di significativo.

Nel corso della carriera, il modo di cantare di Joni Mitchell non è mai cambiato. L’approccio autobiografico ai testi, invece, è diventato sempre più esplicito. Quel curioso mix tra realismo e romanticismo che ha caratterizzato Joni Mitchell e Clouds (uno stile “istantaneamente tradizionale”, che ricorda le canzoni per bambini) ha lasciato gradualmente spazio al linguaggio del pop moderno di Ladies of the Canyon. Al posto degli occasionali eccessi misteriosi del passato, questo nuovo album contiene sei storie assolutamente prive di romanticismo che parlano di altrettante disavventure con gli uomini.

Come Ladies, anche Blue è pieno di riferimenti specifici a eventi del passato recente dell’autrice. Suona molto meno pittoresco dei primi due dischi. Allo stesso tempo, però, è anche il più centrato: Blue non rappresenta solo un’atmosfera e un modo di scrivere musica, ma è anche il nome con cui Joni chiama il suo amante. Il fatto che la metà delle canzoni in scaletta parlino di lui dà al disco un senso di unità che mancava in Ladies. Anzi, sono proprio questi pezzi la fonte di forza di un album davvero potente.

Alcune delle canzoni di Blue danno la netta impressione di arrivare da un cassetto che Joni non apriva da tempo. La melodia folk di Little Green ricorda I Don’t Know Where I Stand, dal secondo album. Il testo, bello e poetico, è vestito di riferimenti talmente criptici da rendere vano ogni possibile sforzo di comprensione. The Last Time I Saw Richard è un ricordo dei “dark cafe days” di Joni, trabocca di dettagli insignificanti come le canzoni autobiografiche meno memorabili di Ladies. River è un esteso mea culpa che si basa sull’autocommiserazione (“Sono difficile, triste ed egoista / Adesso ho perso l’amore migliore che abbia mai avuto”). Il pesante arrangiamento di pianoforte sembra una parodia di Laura Nyro, soprattutto nell’introduzione melodrammatica, una Jingle Bells in chiave minore. Il pezzo migliore è My Old Man: una ballata tanto dolce quanto convenzionale.

Tutte queste canzoni non hanno niente a che vedere con il tema centrale del disco, che è sviluppato nel resto della scaletta: sono le cronache di Joni, romantica vagabonda alla ricerca dell’amore immortale. Il tema è annunciato nel primo verso del primo pezzo, All I Want: “Sono su una strada solitaria e sto viaggiando / In cerca di qualcosa che mi renda libera”.

All I Want - Joni Mitchell (original)

Nel passato questa strada solitaria l’ha portata in tanti posti, da Chelsea a Sisotowbell Lane, da Laurel Canyon a Woodstock, e Joni l’ha percorsa alla ricerca di una felicità stabile e a lungo termine che sembrava sfuggirle. All I Want è il manifesto di questa felicità: Joni ha trovato un nuovo amore e lo bombarda con una lista di desideri, che accumula in una veloce successione di rime: “Voglio parlarti, voglio farti lo shampoo / Voglio rinnovarti ancora e ancora / Applausi, applausi – la vita è la nostra causa / Quando penso ai tuoi baci, la mia mente vacill”.

L’accompagnamento – James Taylor e Joni suonano chitarre ritmiche nervose, ispirate dalla musica latina, su un basso che rimbomba per tutto il pezzo – esprime perfettamente l’eccitazione di Joni. Lo stesso fa la melodia, che vola mentre Joni canta col suo dolce soprano.

Anche se apre il disco, All I Want segna la fine del viaggio raccontato in Carey e California. Tutte queste canzoni hanno il tocco latino e sincopato che caratterizza gli episodi migliori dell’album. Carey, un calipso che parla di un’avventura a Creta, ha un’atmosfera festosa e un finale a sorpresa: “Il vento arriva dall’Africa / La scorsa notte non riuscivo a dormire / Oh, sai è davvero difficile andarsene ma questa non è davvero casa mia”.

La parte musicale di California procede a strappi, mentre il testo offre istantanee del viaggio di Joni in Europa. Il ritornello nostalgico porta con sé echi di tango e il lamento della pedal steel: “Oh, ci si sente tanto sole a camminare per strade piene di sconosciuti”. La canzone è un modello di produzione essenziale e raffinata. La chitarra nervosa di James Taylor e il gran lavoro di Russ Kunkel con piatti e pedale del basso è a malapena rilevabile, eppure fornisce al pezzo la giusta dose di ritmo.

In This Flight Tonight, A Case of You e Blue Joni fa i conti con l’idea che la solitudine non è il risultato della lontananza a causa di un lungo viaggio. Il problema di fondo è che il suo amante non può darle quel che lei vorrebbe. In This Flight Tonight la vediamo abbandonare l’uomo e prendere un volo diretto a ovest, per poi pentirsi della decisione. È sostanzialmente impossibile cantare il testo, che è un goffo flusso di coscienza, e la voce sopranile della cantante fa a pugni con la melodia rock. Però poi arriva il ritornello, che rimanda a Bo Diddley, e non te lo togli più dalla mente: “Stelle, stelle / avete l’amore che desidero / Fate tornare questo uccellino impazzito, non avrei dovuto prendere questo volo stasera”.

In A Case of You, James ripete lo stesso riff di chitarra di California, solo che qui la melodia è lenta e maestosa, quasi un inno. Il brano è organizzato in modo ordinato pur essendo ambivalente. Ogni strofa parla di una battuta d’arresto della storia d’amore, seguita da un ritornello in cui Joni afferma: “Ma tu sei nel mio sangue come vin santo”. Paragonando l’amore alla comunione, Joni definisce esplicitamente il tema di fondo di Blue: il suo amore è diventato una ricerca religiosa, e l’abbandono alla solitudine un peccato.

Solo un breve passo la separa dal voto di camminare nel fuoco dell’inferno pur di seguire il suo uomo: “Dicono che l’inferno sia il modo migliore per andarsene, ma non credo sia così, mi guarderò intorno / Blue, ti amo”. È il testo di Blue che sarà pure l’ultimo pezzo del primo lato, ma è chiaramente la dichiarazione finale dell’album, il punto più basso della discesa cominciata con l’euforia di All I Want, che è tanto dichiarazione intima, quanto melodia pop accattivante. Blue, invece, custodisce il triste segreto di una canzone di Billie Holiday. La gioia può anche essere condivisa con tutti, ma il dolore intenso porta all’isolamento.

Blue è un distillato di dolore ed è quindi la più intima delle canzoni di Joni. L’ha scritta per sé e per il suo amante: “Blue, qui c’è un guscio per te / Dentro ci senti un sospiro / Una ninnananna nebbiosa / Ecco la mia canzone per te”. La bellezza della melodia misteriosa e irrisolta e l’espressività della voce rendono il pezzo particolarmente accattivante. Più di ogni altra canzone, Blue mostra una Joni doppiamente vulnerabile: non solo soffre come persona, ma la sua vocazione d’artista le impone di esprimere la sua disperazione attraverso la musica e di rivelarsi al pubblico.

A dispetto della canzone da cui prende il titolo, l’album è nel complesso il più libero, luminoso e allegramente ritmato di Joni Mitchell. Lo stile resta naturalistico. Oggi più che mai, Joni si arrischia a usare dettagli che potrebbero essere interpretati come banali per offrire un autoritratto vivido. Si rifiuta di nascondere il suo vero volto dietro a immagini artefatte, come a volte fanno colleghi come James Taylor o Cat Stevens. Nel ritrarre sé stessa senza filtri, Joni Mitchell rischia il ridicolo e invece raggiunge il sublime. In perfetto equilibrio fra anima pop e purezza folk, Blue ci offre alcuni fra i momenti migliori della musica popolare degli ultimi anni.

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